A Firenze, tra gli studenti della classe senza voti: «Ci prendono in giro ma noi siamo più rilassati»

«I miei amici mi prendono in giro, dicono che frequento la scuola dello scherzo, ma io mi sento fortunato perché nella mia classe si è instaurato un clima di collaborazione e studio meglio». Federico è uno dei ventisei studenti della prima di una sezione del liceo linguistico Marco Polo di Firenze dove i voti compaiono solo a fine anno, non ci sono pagelle di trimestre o quadrimestre e dopo un’interrogazione o una verifica i docenti danno un giudizio descrittivo.

In pratica i professori tentano di far capire allo studente, passo dopo passo, cosa funziona, cosa c’è da migliorare, su cosa concentrare di più lo studio per raggiungere l’obiettivo.

L’esperimento
Detta così può sembrare semplice, eppure l’esperimento avviato da quest’anno in una sola classe (unica in Toscana, una trentina in Italia) del liceo linguistico all’interno dell’Istituto tecnico per il turismo di San Bartolo a Cintoia porta con sé una vivace discussione sulla valutazione che coinvolge, a volte con toni molto aspri, sia il mondo accademico che quello scolastico. Con immancabili incursioni della politica.

Qualche mese fa perfino il leader leghista Matteo Salvini, dopo un’intervista a La Stampa di una docente del liceo Copernico-Luxemburg di Torino che sottolineava come i voti «diano solo ansia e appiattiscano», si è scagliato contro questo metodo: «Togliere il merito — ha tuonato il ministro delle Infrastrutture — non fa il bene dei ragazzi, che non possono essere viziati e promossi a prescindere da studio e impegno».

Come funziona
Ma torniamo alle impressioni di studenti e studentesse, i destinatori di questa metodologia didattica basata «sul lavoro cooperativo, sulle relazioni all’interno del gruppo classe e sullo sviluppo delle competenze trasversali». Quando incontriamo la classe è fine febbraio e nella stragrande maggioranza delle scuole (ma non al Marco Polo, dove per tutti le pagelle intermedie sono state abolite) è tempo di voti di fine quadrimestre.

I banchi sono disposti a isole: «È per favorire il lavoro di gruppo e spezzare la frontalità della lezione», spiega Luisa Bianchi, docente di Lettere, che con Annaclaudia Frani (Latino) e Francesco Filipperi (Tedesco) ci raccontano il lavoro quotidiano di alunni e professori.

Il primo a intervenire è Marco, capelli corti e sguardo vispo: «Io preferisco i voti — dice con piglio deciso — mi fanno capire subito come sono andato a un’interrogazione, sono sintetici e più chiari».

Questi ragazzi e queste ragazze arrivano da otto anni di 5, 6, 7, 8 e abituarsi a un nuovo approccio deve essere tutt’altro che semplice. Tanto più che hanno scoperto la novità soltanto all’inizio dell’anno scolastico: al momento dell’iscrizione, infatti, né loro né i genitori sapevano che avrebbero sperimentato un altro modo di stare a scuola.

«Io invece studio meglio — interviene Matilde — è più divertente, con i compagni c’è uno scambio continuo e quando non so una cosa imparo anche da loro».

Insomma, c’è chi ha accolto i giudizi descrittivi con entusiasmo e chi invece si trova spiazzato. «I miei amici delle altre scuole — fa notare Niccolò — mi dicono: che ti prepari a fare? Tanto i professori non ti mettono il voto. Io però studio lo stesso e mi sento più rilassato, più tranquillo quando vengo a scuola».

Ma il voto serve più a voi o ai vostri genitori?

Silenzio, qualche sorriso: «No — ribadisce Marco — serve a me, perché voglio sapere subito come sono andato».

In classe c’è anche un ragazzo ospite perché i suoi compagni sono partiti per un viaggio d’istruzione e lui per qualche giorno fa lezione qui: «Come li vedo? C’è sicuramente un ambiente più rilassato».

In classe senza stress
Ansia, stress, attacchi di panico sono — lo dicono tutte le più recenti ricerche a livello nazionale e regionale — le patologie più diffuse nelle generazioni nate o cresciute nel periodo della pandemia. Ma la «scuola senza voti» non è solo una risposta a queste difficoltà. Anzi. Cristiano Corsini, docente di Pedagogia sperimentale e valutazione scolastica all’Università Roma Tre e autore del libro La valutazione che educa, sul suo profilo Facebook lancia quotidianamente spunti di discussione: «L’idea che il voto serva a educare — scrive — è un errore di prospettiva storica. Il voto nasce per selezionare, non per educare. Ma noi sappiamo bene che usare il voto come ‘il bastone o la carota’, ci porterà ad ottenere solo un apprendimento mirato al voto».

«Stiamo facendo fatica — spiega Francesco Filipperi — a scalfire l’idea, il voto è rassicurante pure per i ragazzi, in genere per quelli che ottengono voti buoni. Ma quello che mi ha spinto ad aderire a questo progetto, oltre alla voglia di cambiare e rinnovare qualcosa nel mio modo di lavorare è questo continuo: allora il voto? Allora la media? Non ne potevo più. È rassicurante e anche più facile, metti il voto, scrivi velocemente il commentino e si fa molto prima. Era diventato l’unico obiettivo per i ragazzi, allora ho detto: proviamo a spostare l’attenzione da quel voto a un percorso: alle cose che so, che non so, cosa devo recuperare, cosa devo migliorare, cosa ho già consolidato. E questo non è sempre numericamente esprimibile».

«Il voto — aggiunge Annaclaudia Frani — non deve riprodurre deve trasformare, non deve asservire deve liberare, però la scuola italiana è radicata su antiche strutture che rassicurano. Non c’è nessun obbligo per i docenti di utilizzare i voti, ma oramai è una prassi consolidata».

Ma non c’è il rischio che, e torniamo al punto di partenza, la «scuola senza voti» diventi la «scuola dello scherzo»? «

Quando si capirà — risponde il dirigente scolastico del Marco Polo, Ludovico Arte — che si può imparare anche divertendosi, non per forza angosciandosi, avremo fatto un grandissimo passo in avanti…».