Cinemascop

F.lli Coen,  Truffaut, Carlo Carlei, Rohmer

NOTA BENE Non sono un critico cinematografico, ma uno spettatore senza tessere omaggio che per vedere film deve fare talvolta centinaia di km. Uno come tanti con le sue predilezioni.  I miei gusti osservo solo che sono stati, dal 2017, assunti finalmente dalle giurie della Mostra del cinema di Venezia. In quell’anno vinse “La forma dell’acqua” di Guillermo del Toro; nel 2018 “Roma” di Alfonso Cuaron; nel 2019 “Joker” di Todd Philips. Film di autore ma anche popolari. Prima, alla Mostra il Leone d’Oro andava a film che nessuno ha visto nelle sale: (2015) “Un piccione seduto su un ramo” di Roy Andresson; (2016) “Donna che se ne è andata” di Lav Diaz, filippino.

I 10 FILM DELLA MIA VITA

  • (in ordine di uscita) La finestra sul cortile, di Alfred Hitchcock, 1954
  • I soliti ignoti, di Mario Monicelli, 1958
  • I quattrocento colpi, di Francois Truffaut, 1959
  • Ultimo tango a Parigi, di Bernardo Bertolucci, 1972
  • Allonsanfàn, di Paolo e Vittorio Taviani, 1974
  • I predatori dell’arca perduta, di Steven Spielberg, 1981
  • C’era una volta in America, di Sergio Leone, 1984
  • Il raggio verde, di Eric Rohmer, 1986
  • Fargo, di Joel ed Ethan Coen, 1996
  • Kill Bill, di Quentin Tarantino, 2003
E GLI ALTRI 10 NEL CUORE

Totò Peppino e la malafemmina, di Camillo Mastrocinque, 1956

La grande guerra, di Mario Monicelli, 1959

La dolce vita, di Federico Fellini, 1960

Divorzio all’italiana, di Pietro Germi, 1961

Il sorpasso, di Dino Risi, 1962

Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, di Elio Petri, 1970

La terrazza, di Ettore Scola, 1980

Et l’extra-terrestre, di Steven Spielberg, 1982

Il grande freddo, di Lawrence Kasdan, 1983

Ritorno al futuro, di Robert Zemeckis, 1985

Alfonso Cuaron, fuori classifica

FILM IN ORDINE ALFABETICO

A CASA TUTTI BENE 2018 di Gabriele Muccino. Mi scuso ma un film con (i soliti noti) Stefano Accorsi, Sabrina Impacciatore, Massimo Ghini, Stefania Sandrelli, Sanremo Favino , Occhiaie Crescentini, e soprattutto Giulia Michelini, Tea Falco e Claudia Gerini, sono riuscito, su Netflix, a vederlo per 15 minuti. C’è un limite a tutto.

A CIAMBRA (2017) Jonas  Carpignano, 33 anni, grazie a Martin Scorsese, segue con la macchina a spalla Pio, 14 anni, rom della comunità stanziale denominata “A Ciambra” a Gioia Tauro. Beve, fuma e si fa ben volere da un giovane ghanese. Quando il fratello Cosimo e il padre vengono arrestati, tocca a Pio rubare per portare a casa qualche soldo per far vivere la numerosa famiglia. La realtà rom che a Lamezia e in molte città conosciamo bene, viene raccontata con tanti primi piani, e così emerge la realtà di una comunità che deve sottostare agli italiani (mafiosi) che li sfruttano, e nello stesso tempo deve rubare ai cittadini incolpevoli. Il film si segue bene, De Sica, Rossellini e Zavattini lo amerebbero, ma i capolavori sono altri.

AD ASTRA (2019) di James Gray. Brad Pitt produce questo film di fantascienza e lo affida a Gray ( di cui si ricorda Little Odessa e Two Lovers). Ma l’unico che poteva migliorarlo era magari Denis Villeneuve (quello di Arrival). Una prima parte con un pò di azione e l’ultima con tanti pensieri e psicanalisi, pure troppa per i miei gusti 

AIR -LA STORIA DEL GRANDE SALTO (2023) Ben Affleck e il suo amico Matt Damon (con una nuova casa di produzione propria) in un film di attori (il terzo, il mio preferito, è Jason Bateman). Il film è emozionante perchè racconta, a tutti i ragazzini che corrono a vederlo, come la Nike abbia convinto Michel Jordan ad indossare le scarpette poi diventate mitiche, a scapito dell’ Adidas e della Converse. Un film anche istruttivo, per come la vedo io, perchè spiega a tanti che se lo dimenticano spesso cosa sia la concorrenza. Una guerra senza esclusione di colpi dove ogni azienda rischia, di perdere o di vincere. Il mercato è fatto da ciascuno di noi  e tanti pensano che alcuni cattivoni nel mondo, due o tre, lo manipolano a piacimento facendosi i soldi. Questo film spiega come la faccenda sia più complicata e a volte tra i due litiganti il terzo vince. Da non dimenticare il nostro Sonny Vaccaro, cognome originario di Nocera o Falerna, che punta tutto su Michel Jordan.

AMERICA LATINA (2021) dei Fratelli D’Innocenzo. 90 minuti di un film non adatto a me, ormai disturbato dall’autorismo ma innanzitutto da Elio Germano che fa lo spostato  e recita sussurrando. E’ come se Robert De Niro continuasse a replicare sempre l’alienato Tavis Bickle di Taxi Driver, o Dustin Hoffman a interpretare l’autistico Raymond di Rain Man, ma si può? Sulla storia non posso dire nulla, l’odontoiatra Massimo Sisti appare già esaurito quando trova (realmente) qualcosa, o meglio qualcuno, di sconvolgente in cantina. Vita e paura, ma i due fratelli al terzo film mi hanno annoiato. Anzi, per protesta, vi spoilero tutto. La moglie e le due figlie forse esistevano in passato oppure non esistevano e sono solo allucinazioni di un pazzo? Per me il film non è una discesa agli inferi perchè Germano era pazzo già all’inizio (come fa il pazzo lui, signora mia….)

AMERICAN FICTION (2023) di Cord Jefferson (su Prime). E’ più facile parlare di neri, omosessuali, donne in difficoltà o qualsiasi altra “minoranza” come delle vittime: in questo modo c’è sempre una differenza tra “noi” e “loro”. Lo scrittore nero Monk (un Jeffrey Whright da Oscar) non ci sta: perché non può scrivere una storia senza drammi come qualsiasi altro autore bianco? Perché i suoi romanzi devono finire nella sezione “scrittori neri” o “studi afroamericani”? Eppure lui è cresciuto in una famiglia benestante, si è laureato, ha dei fratelli che sono diventati dottori: lo stereotipo del nero criminale o povero è molto lontano dal suo vissuto. Eppure sembra proprio che la società non voglia ammettere che persone come lui esistano, soprattutto quando si parla di storie, scrittura e rappresentazione. Il pensiero critico che Monk prova a esercitare è, a quanto pare, qualcosa di osceno. E anche i suoi editori sembrano volergli insegnare come scrivere: il suo ultimo romanzo viene infatti rifiutato perché non è “abbastanza nero”.  Il film è  tratto da “Cancellazione”, il romanzo di Percival Everett che massacra (giustamente!) la cancel culture. Temi profondi affrontati con furbizia da un film per me abbastanza noioso. 

AMMORE E MALAVITA (2017) Questo musical-sceneggiata dei Manetti Bros è piaciuto molto a Venezia, a critici e pubblico (3,5/5). Come un mio carissimo amico che in anni lontani quando gli chiedevi se gli era piaciuto un film rispondeva “carino”, e mai diede un giudizio superiore, mi attesto sul carino. C’è troppa televisione in questo ambizioso film, dal commissario Coliandro di Morelli alla attrice-ballerina “Non è la Rai” Claudia Gerini, alle coreografie stile X Factor dell’onnipresente Luca Tommassini. I critici si sa non vedono tv e quindi non sanno di cosa sto parlando, così un grandioso Carlo Buccirosso tiene il film che dovrebbe essere una parodia della serie “Gomorra” annegata nella sceneggiata napoletana. Se è un musical e lo è, almeno una canzone dei musicisti Pivio & Aldo De Scalzi dovrebbe rimanerti in testa.”Da Scampia a Posillipo, passando per il rione Sanità e il porto di Pozzuoli, Napoli nel film dei Manetti agisce come un’amante: stordisce e innamora”, si scrive in una recensione. Sarà, ma trattasi pur sempre di canzonette, cantava un altro napoletano doc.

ANATOMIA DI UNA CADUTA (2023) La registra francese Justine Triet (1978) col suo compagno, l’attore Arthur Harari, durante la pandemia ha scritto questo film che nel 2023 ha vinto la Palma a Cannes e adesso vedremo quali Oscar vincerà. La trama è semplice, una donna (la magnifica Sandra Huller) è sospettata dell’omicidio del marito. Il loro figlio cieco dovrà affrontare un dilemma morale essendo l’unico testimone. Dico subito che il film appare un legal drama ma in realtà è uno di quei film sui matrimoni che da Bergman arriva sino a Baumbach. Come sono andati i fatti, sembra suggerirci l’autrice, è meno importante del capire il perchè sono andati in un certo modo e dunque processi e intercettazioni, prove e indizi, pubblico ministero (qui odioso) e difesa (qui simpatico), protagonisti e comprimari, tutto questo non ci consegna in maniera lampante la verità ma soltanto la verità processuale, che, come si sa, in Italia dove i processi si fanno prima sulla stampa e poi nei tribunali, è pure tardiva e pleonastica. Un film dunque dove l’incapacità di ogni individuo (uomo o donna che sia) di pensarsi come parte di una coppia viene suggerita, attraverso un continuo gioco di allusioni. La fotografia è mantenuta a livello del thriller processuale, ci si astiene da esibizioni autoriali che su una materia come la relatività del reale (il titolo cita Anatomia di un omicidio di O. Preminger, 1959) sarebbero state inutili complicazioni. Noi spettatori dunque siamo ciechi come il bambino, come lui possiamo solo sentire e tentare di ricordare, e come lui ad un certo punto dobbiamo decidere. Omicidio o suicidio? Difficile da stabilire, come dice lo stesso avvocato di Sandra “me ne frego della verità”, una storia è solo come si racconta. Dunque la versione migliore è quella in grado di convincere una giuria. Le perizie degli esperti di parte non a caso si annullano a vicenda, è evidente l’anaffettività della scrittrice di successo Sandra con quel suo gelo che sembra controllare tutto, solo i bellissimi occhi di Daniel, giovane non vedente, ci fanno capire che ad un certo punto ci tocca scegliere.

ANIMALI NOTTURNI  (2016) è il secondo film dello stilista Tom Ford, voto 8,5. Ho molto amato questo film intelligente e con una fotografia spettacolosa, nella notte del Texas. Amy Adams è Susan Morrow, una gallerista affermata, la quale riceve dall’ex-marito Edward, che non vede né sente da circa 20 anni, un manoscritto di un romanzo appena finito, che le ha dedicato. Approfittando di un week-end in cui resta sola (l’attuale marito Walker infatti si è allontanato apparentemente per lavoro, ma in realtà per tradirla) la donna si dedica alla lettura del libro, che si intitola Animali notturni, proprio come lei veniva definita dall’ex-marito, che la chiamava così per il fatto che non riusciva quasi mai a dormire di notte. Il racconto nel racconto è un thriller violento che la coinvolge sin da subito e in cui non fatica a ritrovarsi, vedendo nei protagonisti le proiezioni di sé stessa, di Edward e della famiglia che ella gli negò, separandosi. Susan con la sua vita piatta che scivola sulla superficie delle opere che espone, si ritrova a rivivere un matrimonio  con la consapevolezza del dolore inflitto al coniuge. Un thriller coniugale nella cornice dell’arte contemporanea, è stato definito, una parabola crudele sul matrimonio. Ma la bravura di Ford sta nell’affrontare insieme il linguaggio letterario (il romanzo di Edward) e quello cinematografico. Musica magnifica del polacco Abel Korzeniowski

ARIAFERMA (2022) di Leonardo Di Costanzo. Girato a Sassari in un vecchio carcere, presenta le dinamiche relazionali di 12 detenuti ed alcuni agenti di polizia penitenziaria costretti ad attendere l’ordine di  partenza. La prova di Toni Servillo, Fabrizio Ferracane e Silvio Orlando rende il racconto sopportabile seppure qui e là rallentato da un meccanismo che nel cinema attira molti autori, produttori e attori: l’universo concentrazionario. Una prova terribile per chi deve girare in un luogo chiuso e con pochi attori. Diciamo che Di Costanzo la supera a stento.

ARRIVAL (2016) Dodici navi aliene sono arrivate sulla terra in attesa di contatto. Una linguista straordinaria, Louise, è reclutata dall’esercito degli Stati Uniti insieme al fisico teorico Ian Donnelly. La missione è quella di penetrare il monumentale monolite  e  comunicare con gli extraterrestri sulle loro intenzioni. Ma per dialogare occorre inventare un alfabeto comune. Louise Banks sa fare il suo lavoro, ma è anche una madre inconsolabile di una figlia morta prematuramente. Però quello che crede la fine è invece un inizio. Fuori intanto  le potenze mondiali dichiarano guerra all’indecifrabile alieno. Il regista canadese Denis Villeneuve (1967, 3 ottobre, bilancia) confeziona un dramma fantascientifico dove ho sentito Spielberg, perché noi umani abbiamo la necessità di trovare un modo di comunicare, tra di noi e con l’ignoto. Tutto curatissimo. Voto 9.

AS BESTAS (2023 su Rai Play) di Rodrigo Sorogoyen (1981). Ritrovo dopo tanti anni il mio adorato Sam Peckinpah di Cane di paglia in questo film spagnolo con una grande sceneggiatura. La natura della Galizia, il conflitto tra popoli diversi, due grandi attori: Denis Ménochet e Marina Foïs. La violenza come legge personale delle relazioni umane, qui in uno scontro tra una coppia con cultura e due fratelli senza cultura.

ASSASSINIO A VENEZIA (2023) di Kenneth Branagh “Per una volta ammetta di trovarsi di fronte a qualcosa più grande di lei”. Nel contrasto tra ragione e fantasmi Poirot, ritiratosi a vivere in una Venezia piovosa e notturna, stavolta ci fa sperare che la luce del giorno arrivi presto. Per non sentire più la voce italiana di Brannagh con Marco Mete che addolcisce la c per ammiccare al francese. Un film che spesso vira verso il genere horror, col solito Branagh con complicati orridi baffi (perche’?). C’è pure il nostro Scamarcio nel ruolo di Vitale Portfoglio (come son bravi certi agenti italiani). Dobbiamo far pace con i nostri fantasmi.

ASSASSINIO SUL NILO (2022) Dopo Assassinio sull’Orient Express Kenneth Branagh torna per la seconda volta nelle vesti di Hercule Poirot. Il film è ovviamente basato sul romanzo “Poirot sul Nilo” del 1937 ed è inferiore al primo perchè la storia è come diluita, si veda l’inizio dove si spiegano i baffi di Poirot o il lungo ballo-amplesso sulle note dell’orchestra blues. L’amore come tormento e rimpianto lega tutti personaggi ma, mentre l’omonimo film di  John Giullermin del 1978  aveva un ottimo cast, qui Branagh ha pochi nomi famosi tra i quali Annette Bening e Armie Hammer, cancellato dalla promozione e dal trailer per i suoi noti problemi di sesso droga e violenza. In un film giallo il cast deve essere tutto di primo livello altrimenti si indovina l’assassino puntando sull’attore più noto.

ASSASSINIO SULL’ORIENT EXPRESS (2017) Chi ha già visto l’adattamento di Sidney Lumet o avesse letto il libro della Christie questo film può aspettare di vederlo in tv. Un film giallo di cui si conosce il finale è adatto ai critici non al pubblico. Kenneth Branagh, attore e regista britannico di solide tradizioni teatrali, produce (con Ridley Scott), dirige ed interpreta Hercule Poirot, il grande investigatore belga. Sul treno diretto da Istanbul a Calais tredici passeggeri si ritrovano intrappolati a causa di una valanga e di un omicidio. Branagh, per evitare di far sentire noi spettatori prigionieri dentro gli scompartimenti ed i corridoi, si sbizzarrisce in panoramiche dall’alto e appena può fa correre la camera fuori del treno a prendere boccate di aria e neve. Tutto il ricco cast, da Judy Dench alla Pfeiffer a Jonny Depp alla Penelope Cruz, sarà stato pagato poco per le tre battute che dicono a testa. Tra giusto e sbagliato questo film è solo inutile, tranne che per l’incredibile eclettismo di Branagh, capace di trattare qualsiasi genere.

ATOMICA BIONDA (2017) “Atomic blonde” in italiano non diventa “Bionda atomica” per conservare il gioco di parole ma “Atomica bionda”: ecco lo stato del nostro doppiaggio. In una Berlino 1989 dove il muro sta per cadere, la migliore spia inglese Lorraine viene mandata per recuperare una lista e scoprire un doppiogiochista. Due ore di 007 al femminile con una Charlize Theron impegnata dopo un lungo addestramento in fantastiche scene d’azione senza perdere un grammo del suo fascino. Ma anche una spy story raccontata con un lungo flashback in un interrogatorio reso dalla bionda al suo capo e ad un rappresentante della Cia. Diretto dall’americano ex stuntman David Leitch, con una bellissima fotografia e scenografia, lo consiglio a chi ama la Theron o le spie inglesi. Quando in un film si fuma dall’inizio alla fine trattasi di spie e russi, pertanto la recitazione di James McAvoy con sigaretta in bocca succhiata è ormai l’approccio Stanislavskij al tabacco.

AVENGERS-ENDGAME (2019) di Joe e Antony Russo. Questo film di tre ore a me è piaciuto moltissimo, però avevo visto un film precedente della saga e il penultimo (Infinity War). Per capirci, mi è piaciuto più di “Avatar”. E’ la fine di un ciclo lungo 22 film, iniziato nel 2012 con Joss Whedon, con rimandi e omaggi ai film precedenti. Eros vs Thànathos. Il nemico è Thanos  che possiede le sei gemme dell’infinito, i protagonisti sono la bionda Capitan Marvel e il gruppo di Avengers. Essi intendono recuperare le gemme per riportare in vita la metà dell’umanità che il cattivo ha, a caso, liquidato. Per lo scopo debbono ritornare nel passato (ricordate Ritorno al futuro di Zemeckis?), solo che, come si spiega bene nel film, Zemeckis con la macchina del tempo l’aveva fatta troppo semplice. I supereroi Marvel, La Vedova Nera, Iron Man, Thor, Hulk, Capitan America e Occhio di Falco, devono riscattarsi  per non vivere più con il rimorso del fallimento, e per questo sono disposti a tutto. Un film che per un’ora e mezzo non ha azione ma molti bellissimi dialoghi, con Thor ormai diventato un comico e personaggi pieni di sentimenti, ricordi, tristezze, messi di fronte all’ineluttabilità della morte e alla necessità del sacrificio. Poi certo c’è la guerra finale ma alla fine, tornando a casa, restano le emozioni  per supereroi che piangono e ridono come noi, dopo un viaggio nella storia del cinema e nel mondo dell’epica. Una ultima osservazione. I due registi sono geniali (sangue italiano, metà siciliani metà abruzzesi) e veder recitare bene in un film come questo Robert Downey Jr., Chris Evans, Mark Ruffallo, Chris Hemsworth, Scarlett Johansson, è un loro merito. Bravissimo Josh Brolin che interpreta Thanos. Imperdibile film per chi ama il cinema e non ha ancora attaccato il cuore al chiodo. Infinity Saga.

BABY DRIVER- IL GENIO DELLA FUGA (2017) Edgar Wright (1974) è un regista britannico che ha costruito questo film sulla musica. L’idea è stata quella di immaginare un giovanotto quasi muto che dopo un incidente ha l’acufene, un ronzio nell’orecchio, e quindi ascolta canzoni di continuo. Obbligato a ripagare un debito facendo l’autista ad una banda di rapinatori, sogna di fuggire dalla sua vita guidando con una ragazza per raggiungere la felicità. Wright, come Guy Richie, sbalordisce per suoni montaggio e azione, racconta la storia come un musical, ma si perde nel finale. Per noi poveri italiani ascoltare sempre Jamie Foxx doppiato da Pino Insegno è una punizione, rivedere Jon Hamm (Mad Men) tirato a lucido è un piacere. 6,5

BABYLON (2023)  Lo statunitense  Damien Chazelle (1985), regista di Whiplash, La La Land, First Man, ama il musical e il jazz. In questo film troppo lungo (come lo era Nuovo Cinema Paradiso) per dire che anche nel letame può nascere un fiore, ci sono riprese meravigliose e i suoi soliti piani sequenza frenetici. Margot Robbie e Brad Pitt ottengono un copione che qualsiasi attore sogna, le musiche di Justin Hurwitz (Los Angeles, 1985) sono il suo valore aggiunto come Rota per Fellini. Un viaggio paradiso-inferno attraverso la capitale del peccato e l’epoca del Muto, costato 80 milioni di dollari di budget. Nell’arco di tempo 1920-1952, un giovanotto messicano, «Manny» Torres (Diego Calva), per 189 agitatissimi minuti con l’espressione stupita del piccolo Totò Cascio (Tornatore in questo film si sente), assiste all’avvento del sonoro e al racconto di una discesa, sino agli inferi di Hollywood che appaiono nella terza parte. Talvolta felliniano, sarebbe piaciuto a Truffaut, come a tutti quelli che amano il sogno del cinema. Un film “troppo” ma i critici discutono da sempre su cosa potesse essere tolto o aggiunto alle opere.

BARBIE (2023) Dopo una grandiosa campagna pubblicitaria il blockbuster diretto da una donna col maggior incasso di sempre. Però io ho visto il film solo per lo sceneggiatore Noah Baumbach, marito della regista Greta Gerwig. Purtroppo il problema è proprio la sceneggiatura. Troppi spiegoni in un film che vuol essere femminista scanzonato e popolare e rende ( ma guarda un pò) simpatico solo il personaggio di Ken. Un po’ musical, un po’ commedia demenziale, talvolta metacinema (il prologo che fa il verso al monolite di 2001: Odissea nello spazio), due ore che non finiscono mai malgrado qualche discreta trovata (la ribellione in nome della scoperta del patriarcato capitanata dal Ken impersonato dal biondissimo e pompatissimo Ryan Gosling), Film troppo ambizioso per i miei gusti, mescola la plasticità colorata dell’universo eponimo al camp e alla farsa. Il messaggio forse è l’autodeterminazione di una bambola che da oggetto finirà per scoprirsi umana. E per questo, naturalmente, non necessariamente perfetta. Funziona solo la parte di Barbie e Ken che vanno nel mondo reale, a Barbiland è una noia mortale.

BARDO (2022) su Netflix.  Il messicano Inàrritu ha tagliato 15 minuti, dai 174 che aveva portato a Venezia, per questo  suo “film più personale”: la sciagura che si abbatte sui registi quando superano i 50 anni (Mancuso). Nel “Libro tibetano dei morti” il Bardo è il luogo delle anime che faticano a staccarsi dalla vita perché hanno conti da pareggiare. L’aldilà e l’aldiqua – sono per Iñárritu il Messico dove è nato e gli Stati Uniti che gli hanno dato il successo (e i soldi, a lui e agli altri del “burrito pack”: Alfonso Cuarón e Guillermo del Toro, l’unico finora esente da “film personali”). Film totalmente felliniano, sconclusionato, che ho retto solo per la fotografia e certi piani sequenza come al solito specializzazione della casa.

BECKETT (2021) su Netflix. Ferdinando Cito Filomarino ha ideato e diretto questo action prodotto dal suo ex compagno Luca Guadagnino. Durante una vacanza in Grecia Beckett, un turista americano, diventa l’oggetto di una caccia all’uomo in seguito ad  un improvviso incidente. Il suo obiettivo  diventa quindi la salvezza presso l’ambasciata statunitense ma deve destreggiarsi tra le forze dell’ordine greche, la crescente tensione politica e vari intrighi. Il figlio di Denzel, John David Washington, è l’uomo in fuga, la sua ragazza è la meravigliosa Alicia Wikander. Per gli amanti del genere come me, anche se quando si buttano da 20 metri e non si fanno nulla si scade nel fumetto.

BEING THE RICARDOS (2021) (su Amazon) Aaron Sorkin, sceneggiatore di The social network e regista di Molly’s game, racconta la storia vera in 5 giorni di Lucille Ball e Desi Arnez (Kidman e Bardem) interpreti della serie tv I love Lucy (60 milioni di spettatori, un successone). Sorkin è regista di dialoghi, e qui ce ne sono tanti, siamo negli anni cinquanta e c’è il maccartismo. I due attori sono in forma ma occorre pazienza per arrivare verso la fine quando il film diventa emozionante

BLACKHAT (2015) su Netflix. Il mio prediletto Michel Mann (1943)  dopo Miami Vice, Collateral e Nemico pubblico dimostra cosa significa confezionare un film d’azione, alla 007 per intenderci. Trattandosi di attacchi informatici ed essendo il protagonista Nick ( Chris Hemsworth) un talentuoso hacker che sta scontando una pena detentiva, ci si aspetterebbe una trama difficile e invece tutto è comprensibile o quasi. Non manca l’azione e soprattutto lo stile di Mann, le sue metropoli piene di luci,  in contrasto con spazi naturali aperti. Un regista che amo perchè due ore passano via senza accorgertene e se vedi una scena capisci che è un  suo film. Un fumettone secondo palati fini, ma se tutti i fumettoni fossero così  il cinema lo ameremmo di più. 

BLADE RUNNER 2049 (2017) Il cult movie di Ridley Scott (flop del 1982) aveva una storia semplice, alla Rambo, la caccia del Blade Runner Rick Deckard (Harrison Ford) ai replicanti (soggetti non umani, programmati per una vita breve, 4 anni, lavoratori e schiavi ideali.  Non hanno sogni o ricordi propri e autentici, la memoria è creata artificialmente). Ma Deckard s’innamora di Rachael, replicante inconsapevole, e la protegge. Deckard è scomparso e, nel dubbio che anche lui fosse in realtà non umano, gli si dà la caccia. In questo sequel, 30 anni dopo, la caccia ai nuovi replicanti la esegue  l’agente K (che è Ryan Gosling). “Blade Runner” (con tutte le sue diverse versioni distribuite)  aveva una storia semplice ma era una sorta di film psichedelico con luci che vanno e vengono. C’era buio, disordine, sporcizia. La stessa atmosfera la ritroviamo nel sequel di Denis Villeneuve (1967), e quasi le stesse domande: io chi sono davvero? E potrò mai esserne certo?  La fantascienza può piacere o no, ma in questa versione c’è la tecnologia dei giorni nostri e quindi scenografia e design, fotografia e musica, restituiscono al cinema ciò che solo in una sala cinematografica si può celebrare in un rito collettivo. La stupenda assistente personale domestica (Ama de Armas) per esempio è  lo sviluppo digitale del personaggio visto in Her di Spike Jonse. Villeneuve è un meraviglioso artista canadese, così eclettico che ha fatto film di generi diversi (da Sicario a Enemy, da La donna che canta a Arrival), ma in tutti si occupa di una cosa sola, i sentimenti. L’uomo senza memoria, sogni, ricordi, non è più umano. La perdita della memoria (privata e collettiva) è la tragedia che stiamo vivendo. Per capirci, se nel 2017 uno si scaglia contro gli ebrei, i migranti e si proclama nazista, non stiamo parlando di perdita della memoria e quindi dei sentimenti? Ci sono in giro tanti replicanti, senza saperlo, e non è fantascienza.

BOB E MARYS (2018) di Francesco Prisco, con Rocco Papaleo e Laura Morante. Film (per) napoletano dove la risata non è contemplata affinchè non appaia una commedia ma una seria inchiesta sociologica. Papaleo recita come se fosse in teatro sbiascicando le parole, la Morante è in forma, anche fisica. Massimiliano Gallo fa Massimilano Gallo. Inutile come i fiori finti

BOMBSHELL (2020)  Edificio di Fox News. Murdoch è il padrone, l’obeso Roger Ailes (John Lithgow),76 anni, ormai sofferente, è il  direttore che gli ha inventato un canale di successo. Il sistema infetto che ha costruito è il seguente: vanno in video in prima serata solo giornaliste in minigonna e disposte, oltre che ad affermarsi, a soddisfare le sue voglie. Lui la chiama “fedeltà”. Sono tutte carine e intercambiabili. Chi rifiuta perde il lavoro o viene  degradata. Avanti un’altra. Le donne che arrivano al suo cospetto con un ascensore privato si detestano a vicenda. Chi ci sta è una poco di buono, chi dice no è frigida. Chi denuncia è permalosa, chi non lo fa è vigliacca. Il sessismo spiegato anche in toni grotteschi dal regista Jay Roach (Ti presento i mei), ma assecondando la cronaca, per cui chi non sa chi è Murdoch e i contorni di questa vicenda vera non si raccapezza. Le tre protagoniste sono esemplari. Charlize Theron e Nicole Kidman sono deformate dal trucco e sono personaggi veri. Invece  una splendida Margot Robie, qui nella prova migliore della sua carriera, è un personaggio inventato. Per la pandemia non è uscito al cinema (su Amazon Prime)

CENA CON DELITTO (2019) Rian Johnson (1973) fu scelto da Lucas nel 2017 per dirigere “Star Wars: gli ultimi Jedi”. Io lo avevo scoperto come regista di alcuni episodi bellissimi di Breakink bad. Adesso si cimenta (si riposa) con un giallo classico con Daniel Greig  ambientato tutto in un solo ambiente. Penserete ad “Assassinio sull’Orient Express” (dove un cast magnifico era al servizio di Kenneth Branagh al centro) ma qui l’apparente suicidio del celebre scrittore di romanzi gialli Harlan Thrombey è l’occasione per costruire una storia complicata ma nella quale la giovane bellissima Ana de Armas, infermiera “che ormai fa parte della famiglia” è l’intelligente e simbolico cardine. A fine primo tempo sembra che non ci sia più nulla da scoprire e invece c’è il secondo tempo.

C’E ANCORA DOMANI (2023) di Paola Cortellesi. Bianco nero autoriale per una “commedia” (con messaggio incorporato da sinistra impegnata) simpatica ed intelligente ambientata nella Roma del dopoguerra. Tutti i personaggi sono curati e il successo di pubblico non deve sorprendere, come è avvenuto per “La stranezza” di Roberto Andò. Diversi i riferimenti visivi, da “Una giornata particolare” al mondo napoletano della serie di Costanzo “L’amica geniale”. Però vorrei ricordare i cosceneggiatori Giulia Calenda e Furio Andreotti  e le musiche originali di Lele Marchitelli. Il mio voto supera la sufficienza.

C’ERA UNA VOLTA…A HOLLYWOOD (2019) di Quentin Tarantino. Los Angeles del 1969 in questo film si vede senza effetti digitali (il film è girato con la pellicola), con le sue stradone, cadillac, insegne e salite. Tarantino e le sue musiche, citazioni, riferimenti: si ama o si scansa; se il film dura 161 minuti io non me ne sono accorto. Tre personaggi a tutto tondo per Di Caprio, Brad Pitt e Margot Robbie: Leonardo DiCaprio è Rick Dalton, un attore che aveva avuto successo in passato e che ora si arrabatta tra una serie tv western e l’altra per cercare di restare in qualche modo rilevante, e per permettersi la casa con piscina a Cielo Drive, a Hollywood. Brad Pitt è Cliff Booth, il suo stuntman, ma anche il suo autista, tuttofare e galoppino personale. E’ buono come il pane ma forse in passato ha ucciso la moglie. La Robbie è la vicina di casa, Sharon Tate, moglie di Roman Polansky che nel 1969 aveva diretto Rosemary Baby ed era diventato famoso. Ci sono poi gli hippie, la family di Charles Manson, tanti altri attori dell’epoca, gli spaghetti western e tanti spezzoni di film. Viaggi in auto e sigarette che si accendono, spengono e succhiano mentre Tarantino imbastisce i suoi dialoghi e racconta le sue storie. Anche se la prima parte, quando deve introdurre i personaggi, mi è sembrata sgangherata e un pò documentaristica, il film cresce sino ad avviluppare lo spettatore. In fondo Tarantino è un grande perchè è una piovra che ti toglie il fiato. Qui arriva sino all’8 agosto 1969 in cui quell’Hollywood finì. Colonna sonora rigorosamente di quegli anni, con i miei adorati “Mamas & papas” e la favolosa “Out of time” degli Stones (1966).

CHA CHA REAL SMOOTH (su Apple tv, 2022) L’americano Cooper Raiff (1997) è protagonista unico sceneggiatore e regista di questo film da Sundance. Forse non sarà un grande attore ma ha scritto una parte molto interessante per la meravigliosa Dakota Johnson (1989) che è Domino, una donna con figlia autistica. I tre formano un triangolo di persone che, ad età diverse, cercano un senso alla loro vita adulta. Un film, pur con slabbrature e dispersioni, sui sentimenti e sulle relazioni, che per ciascuno di noi comportano sempre  tante paure e incertezze su quale sia la cosa giusta da fare. Dakota Johnson segna con la sua interpretazione questo film che ha un inizio e un finale straordinari e rimane nel complesso intrigante e intelligente.

CHE FINE HA FATTO BERNARDETTE? (2019) Richard Linklater (1960)  è un regista americano (Boyhood) intelligente e qui parte da un libro di Maria Semple. Siamo a Seattle dove lavora alla Microsoft Elgie, sposato con Bernardette Fox (Cate Blanchett) che venti anni prima a Los Angeles lavorava ed era tra i primi cinque archistar del mondo. Tra i due l’adorata figlia sedicenne Bee e un assistente digitale, Manjula. I tre programmano una vacanza in Antartide. Una storia che si segue agilmente e i pensieri e le riflessioni, come in ogni buon film, vengono alla fine: cosa resta alla fine delle nostre vite dei nostri sacrifici, per crescere i figli, per fare il proprio lavoro al massimo, per seguire il partner d’amore? Vedrete che Linklater è più profondo di tante femministe ostentate e di tanti intellettuali ponderosi. Perchè i geni creativi veri devono creare, o no? (su Amazon)

CHIAMAMI COL TUO NOME (2018) Di Luca Guadagnino (1971) avevo visto “Io sono l’amore” (2009) e così ritrovo in questo suo ultimo film ancora una ricca famiglia lombarda, stavolta di intellettuali che parlano molteplici lingue. Il loro “piccino” 17enne in un’estate di vacanza, Elio, grazie all’arrivo di un ospite americano, Oliver, scopre un amore che lo squarcia. Guadagnino confeziona la sceneggiatura di James Ivory in luoghi come al solito incantevoli, vicino il lago di Garda, e la natura, di cui siamo parte, accende tutti i sensi. Si va in bicicletta, siamo nell’83, fanno capolino Grillo (ancora e solo in tv) e Craxi, ma la politica e la società sono lontani,  nella villa incantata Elio (un grande Thimothée Chalamet ) ascolta discorsi alti, suona il pianoforte, legge tanti libri ascoltando musica e si abbandona all’imprevisto. Guadagnino adora Bertolucci, si sa, talvolta diventa decadente quanto Visconti, ma sa come raccontare storie, anzi le valorizza con il suo coraggio e il suo tocco. Il desiderio, i sensi, sono potenti, magari il tollerante discorso finale del padre poteva essere meno invadente, meno suggello del tutto. Guadagnino, per chi non lo sapesse, in Italia era passato inosservato, i suoi riconoscimenti arrivano dall’America. Per qualcuno è un motivo per snobbarlo ancor di più.

5 E’ IL NUMERO PERFETTO (2019) di Igort. Vedibile questa prima volta al cinema dell’autore di graphic-novel Igor Tuveri. Non mi avventuro nella  distinzione (fatta da Servillo) tra i termini graphic novel e fumetto, che pensavo appartenessero ad un unico genere. Il film è pieno di inquadrature da fumetto, in una Napoli piovosa e buia. La mia massima è sempre stata “L’autore è uno che non lo lascia a vedere”, come Truffaut, mentre questo film al contrario dovrebbe cominciare con l’avvertenza “State per vedere un film d’Autore”. Il problema maggiore ce l’ha Servillo, il quale dopo il Jep Gambardella de “La grande bellezza” che commentava tutto non può ripetersi parlando troppo. Prendete la rivelazione finale, che bisogno c’è, al cinema, dopo averla vista, di farla commentare dal protagonista come succede in un romanzo?

COCO (2017) La Pixar, nata dalla Lucas film poi passata a Steve Jobs e ora Disney, dopo il terzo capitolo di Toy story nel 2010, con il regista Lee Unkrich e il co-autore Adrian Molina ha lavorato sulla storia del dodicenne Miguel, figlio di calzolai, cui è proibito far musica a causa delle malefatte di un antenato musicista. Quando però, nel Giorno dei Morti, Miguel si ritrova a suonare la chitarra del defunto Ernesto de la Cruz, viene magicamente trasportato nell’aldilà e costretto a risolvere gli antichi e mai sopiti problemi di famiglia. Qui ritroverà anche un grande affetto, la nonna, Mama Coco. Come si vede qui siamo nel rapporto tra vita e al di là, ma come viene vissuto in Messico nel giorno dei Morti, un incrocio tra festa di Carnevale e rimembranza, scheletri e colori accesi. Ora trovatemi uno al quale questo capolavoro non sia piaciuto, e lo facciamo rinchiudere. Come facciano questi della Pixar (con John Lassiter produttore esecutivo) a costruire storie che piacciano a bimbi e papà, uomini e donne, di tutti i paesi, resta per me il grande mistero della creazione/creatività. Dice: ma la storia non è originale. Infatti, tutte le storie sono state già raccontate, non si tratta di essere originali ma di saper raccontare.

COMANDANTE (2023) di Edoardo De Angelis. Un film non è un messaggio in bottiglia, a me interessa come è fatto. Il grande Sandro Veronesi ha sceneggiato la storia di Salvatore Todaro, comandante di sommergibili della Regia Marina che durante la Seconda Guerra Mondiale contravvenne agli ordini del suo comando per portare in salvo i 26 uomini che avevano provato ad affondarlo. Il film è ben fatto pur con risorse limitate, il dibattito sul messaggio lo lascio ai cretini, che di Veronesi non sanno nulla.

CONTRATTEMPO Un giallo spagnolo 2016 di Oriol Paulo, su Netflix, voto 7. Adrián Doria è un imprenditore di successo che, accusato di omicidio, continua a dichiararsi non colpevole. Per difendersi, contatta l’avvocato Virginia Goodman, con cui lavora una notte intera per trovare un cavillo che permetta di farlo uscire dal carcere. Una trama ben congegnata che sino all’ultimo minuto ti tiene sveglio. Altro che De Giovanni e Lucarelli.

COUP DE CHANGE (2023) di Woody Allen. Il delitto paga, questo è l’imperativo della società in cui viviamo ed è anche quello che sosteneva Woody Allen con Crimini e misfatti nel 1989. I buoni perdono e i cattivi vincono, come nella vita, fortunatamente “quasi sempre”. Matchpoint del 2005 era l’illusione di poter scegliere il proprio destino quando questo in realtà è già scritto. Pertanto con questo accettabile film (Colpo di fortuna) girato in Francia perchè i francesi lo hanno finanziato, Allen continua a spiegarci che è meglio non soffermarsi troppo sul terrificante ruolo del caso nelle nostre vite, ma forse non solo. Nel presentare il film nell’anteprima ci ha voluto ricordare che lui è bravo ma se non fosse stato fortunato il suo successo non sarebbe stato così grande. Prova di modestia? No, di grandezza, perchè la fortuna non aiuta gli audaci e neppure i bravi, talvolta. 

CRAY MACHO (2021)  Nick Schenk aveva sceneggiato bene The Mule e Gran Torino ma stavolta accumula luoghi comuni, senza emozionare più di tanto. Il Messico dei cavalli e delle strade polverose fa da sfondo al rapporto tra il vecchio e il giovane. Novantuno anni e sessantuno di cinema, Clint Eastwood continua a fare i conti con il bilancio di una vita e con il suo personaggio macho. Solo che stavolta non funzionano le due figure femminili, la buona e la cattiva, e Rafael il tredicenne che  ne dimostra 18. Il mondo bucolico, gli animali, Clint in ogni caso va visto e rispettato. 
CREED 2 (2018) di Steven Caple Jr.. Sylvester Stallone, che scrive questo ennesimo sequel, non ha solo muscoli ma anche sale in zucca. Qui si regala un personaggio sulla via del tramonto, col cappellino in testa, in pace con la vita tranne che col figlio (non si sa perchè). Il suo pupillo Adonis Creed è diventato campione del mondo dei pesi massimi, si sposa con Bianca e aspetta una bimba. Ma una nuova sfida gli viene lanciata da Viktor, figlio di Ivan Drago, che 34 prima ha ucciso suo padre Apollo sul ring. Sconfitto da Rocky Balboa, abbandonato dalla consorte e dimenticato dal suo paese, Ivan ha programmato il figlio per ottenere il riscatto finale. Adonis accetta di combattere contro Viktor ma Rocky non lo affianca. Subentrerà soltanto quando il suo pupillo capirà che si deve combattere e vincere non per se stessi ma per la famiglia.

DETACHMENT (IL DISTACCO) (2011) Un film del britannico Tony Kaye con un giovane Adrien Brody nei panni di un supplente, Henry, che insegna letteratura alle scuole superiori. Sembra il solito film sul degrado dell’istruzione pubblica americana e non solo, invece tratta della diversità e dell’isolamento emotivo (tenere gli altri a distanza), temi che riguardano tutte le persone sensibili. Sono presenti attori che poi diventeranno famosi, Christina Hendricks, James Caan, Lucy Liu, Bryan Cranston. Il regista trova varie soluzioni formali per situare la storia tra il realismo di un documentario e i colori vividi del dramma psicologico. La passione che accende Henry per la penna dei poeti sembra non riuscire a penetrare nel distacco emotivo in cui ha deciso di trincerarsi per tenere a bada un’antica ferita che torna a galla nel contatto con una prostituta-bambina scappata di casa e un’allieva sensibile e dotata di talento artistico. Nei fallimenti quotidiani di una istituzione come la scuola, allievi e insegnanti condividono sia l’impotenza che la frustrazione. Ognuno di noi avverte il magma caotico della vita ma a volte serve un appiglio per non cadere giù nel dirupo.  

DOCTOR SLEEP (2019) Ewan McGregor interpreta Danny Torrance, il figlio del custode dell’Overlook Hotel (Jack Nicholson in Shining, l’horror di Kubrick del 1980). Adesso il bambino ormai diventato uomo ricomincia a vivere, liberatosi dell’alcol, in una nuova città grazie all’aiuto di un insperato amico, Bill.  Ma il passato ritorna e questo film narra la lotta di Danny e della bambina Abra contro la banda soprannaturale di  Rose “Cilindro (bravissima Rebecca Ferguson), una sorta di hippie che si nutre della luccicanza uccidendo i bambini che la possiedono. La lotta è lunga, anche troppo, e si conclude proprio nel malefico posto di Kubrick, l’Overlook Hotel. La storia si segue anche se una mezzoretta poteva essere accorciata in sede di montaggio, e l’horror, di cui Mike Flanagan è esperto, è molto contenuto.Tutti gli omaggi a Kubrick e all’indimenticabile Nicholson non fanno altro che far rimpiangere almeno a me la magia di quel capolavoro. Ad un certo punto Abra con la sua telepatia verso Dan mi ha fatto pensare alla ragazzina Undici di Stranger Things, la serie dei fratelli Duffer.    

DOGMAN (2018) di Matteo Garrone. In un luogo immaginario, tra Lazio e Campania, c’è una piccola comunità che sopravvive nel degrado di una periferia vicino il mare d’inverno. Un ComproOro, una sala di slot machine, palazzi cadenti, strade piene di buche, un clima uggioso, e il salone per cani Dogman dove Marcello si prende cura di bestie di tutti i tipi chiamandoli “ammore”. La gentilezza e la mitezza di  Marcello e un malvivente che cavalca una grossa moto, Simoncino, l’ex pugile grosso, violento e cocainomane. Una storia di sopraffazione, tutto qui.  “Qui a me mi vogliono tutti bene” dice sempre Marcello, vittima predestinata del prepotente perché indifeso. Uno splendido film dove Garrone costruisce una storia di violenza psicologica attorno ad attori indimenticabili, Marcello Fonte, una sorta di Buster Keaton, ed Edoardo Pesce, il cattivo, ma anche Adamo Dionisi (il comprooro) e Francesco Acquaroli (della sala giochi). Marcello ama senza limiti i suoi cani e la figlia Alida, ed è questa bambina (una stupenda Alida Baldari Calabria) che ama le immersioni in mare, a darci l’unica sensazione di umanità in un mondo dove i sentimenti non esistono più, ma solo istinti primitivi. Garrone torna, come nel suo primo film “L’imbalsamatore”, a descrivere la sofferenza degli esseri umani che sopravvivono in una natura ostile dove la violenza scaturisce da relazioni senza più affetti. Un grande film che ti resta dentro, di uno dei pochi autori che sono rimasti al cinema italiano.

DOLCEROMA, di Fabio Resinaro, 2019. Un film che consiglio di vedere perchè è una prova-commedia interessante. Un film sul cinema e su un giovane che vuol scrivere film, invece di fare il beccamorto. L’intreccio è tratto dal libro del giallista Pino Corrias, il soggetto è stato scritto con Fausto Brizzi, anche regista di seconda unità, il film è stato prodotto da Luca Barbareschi, che interpreta il ruolo principale, quello di un produttore-mattatore del 3^ secolo. A tutto questo aggiungete la voglia di Resinaro di far vedere che può girare alla maniera di Tarantino o Luc Besson, alternando stili da action movie a quelli di commedia sentimentale. Il risultato è un film che può interessare quelli come me che prima del contenuto guardano la forma, ma che sta tutto dentro la prova di Barbareschi. Egli è piaciuto a tutti, io aggiungo solo che recita come Abatantuono. Lo ricorda nell’aspetto, nella voce, nelle movenze. Ora, Abatantuono nel bene e nel male, cose memorabili non ne fa.

DOMINO di Brian De Palma (2019) Film diretto e rinnegato dal regista, che forse voleva un altro montaggio. Ma è la storia che non regge, anche se c’è il terrorismo islamismo e l’icona del “TdS” Nicolaj Coster Waldau con Carice von Houten e il redivivo Guy Pearce (nel ruolo di un agente Cia). Dispiace per un autore che tra l’80 e l’87 ci ha dato, per dire, “Vestito per uccidere”, “Blow out”, “Scarface”, “Omicidio a luci rosse” e “Gli intoccabili”.

DONT’LOOK UP (2021) su Netflix. Un film intelligente e curioso che riunisce vari generi. Leo Di Caprio e Jennifer Lawrence sono due scienziati che scoprono una cometa- meteorite che si sta dirigendo verso la terra con effetti catastrofici. Solo che nessuno, a partire dalla Presidente degli Stati Uniti (Meryl Streep) sino ai media li prendono sul serio. Perchè? Ecco, qui sta il punto che Adam McKay (1968) (autore de La grande scommessa e Vice-L’uomo nell’ombra) riesce con buonumore e acume a mettere in luce e approfondire. Un’opera dunque che annovera grandi attori (anche Cate Blanchett e Thimotee Chalamet) e dispiega mezzi per intrattenere su una questione che sovrasta le nostre vite: il potere ormai finito nelle mani di venerabili cretini mette a rischio la specie e varie prove (virus, riscaldamento globale) sono sotto i nostri occhi, solo che noi cazzeggiamo, ma che c’emporta ma che ce frega? Solo che stavolta (notatelo) la cometa arriva ma l’uomo che responsabilità ha? Nessuna.

DOWNTON ABBEY (2019)  Questo film diretto da Michael Engler ma soprattutto scritto da Julian Fellowes, già creatore della mitica serie britannica (5 stagioni), oltre che un regalo per i fan è il modo giusto per tutti gli altri di far la conoscenza con la famiglia Crawley che nel suo castello riceve per una notte la visita del re e della regina. Già autore del film di Altman Gosford Park, Fellowes costruisce un ritratto dell’Inghilterra agli inizi del novecento quando cambiamenti epocali stanno avvenendo nella società e nella cultura. Il personaggio più affascinante anche nel film è la contessa madre, una meravigliosa Maggie Smith. Le sue perle di saggezza, tra il cinismo e il disincanto per il tramonto dell’aristocrazia, sono diventate veri aforismi. Un film che sarebbe piaciuto molto a Visconti del Gattopardo e potrà non piacere soltanto agli spettatori sfaticati, che con troppi personaggi si confondono e non si raccapezzano.

DRIVE MY CAR (2021) di Hamaguchi Ryusuke. Tratto da un racconto di Murakami Haruki un lungo film (solo per cinefili) di parole: parole scritte da Cechov, recitate su un palcoscenico, mimate con le mani, create durante gli amplessi o dette nell’abitacolo di un’automobile. Parole che raccontano storie, usate  per ammettere colpe, riconoscere traumi e trovare sé stessi. Ryusuke dimostra a tutti come si fa un film pieno di parole addirittura dentro un’automobile e un teatro. Un film è fatto di movimenti, non solo di parole. Ecco allora che con la cinepresa riesce a cogliere il movimento che nasce nell’intimo di ciascun personaggio. Infine, un film di silenzi, uno legato al linguaggio dei segni, e dunque in grado di comunicare, e un altro che segna il rapporto fra Kafuku (il regista protagonista) e Misaki (la ragazza autista). Annotatevi: «Per comprendere sé stessi bisogna prima comprendere gli altri». Il personaggio cechoviano di Vanja corrisponde a Kafuku, il protagonista della storia, entrambi devono cominciare una nuova vita dopo aver terminato quella precedente senza aver rivolto alla persona che amavano le domande che più contavano. Meraviglia.

DUNE (2021) Denis Villeneuve (1967) l’ho scoperto nel 2010 con “La donna che canta” e amato subito, anche perchè è un Bilancia come me (del 3 ottobre). Dopo Arrival e Blade runner 2049 (a me è piaciuto ma è stato un flop) prova ora il remake di Dune che nel 1984 aveva portato al cinema David Linch. Denis avrà anche un altro ascendente se non gli è mancato il coraggio di misurarsi con le 700 pagine del libro di Frank Herbert, cioè  un classico della fantascienza. Il film, di 150 minuti, è un prologo per una serie, dovete immaginarvi Game of Thrones ambientato nel 10150. Nel sistema feudale che domina l’universo nel futuro il potere è nelle mani di un imperatore sotto il quale lottano tra di loro delle importanti casate. Sul desertico pianeta Arrakis si trova il petrolio del futuro, la Spezia. Alla casata Atreides e al suo capo, il Duca Leto (Oscar Isaac) viene affidato il controllo del pianeta ma in realtà si sta approntando una congiura per eliminarlo. Leto ha però un figlio, Paul (Timothée Chalamet), il quale è dotato di particolari poteri che sta sviluppando con l’aiuto di sua madre Lady Jessica (Rebecca Ferguson). Anche lui finisce quindi con il diventare un ostacolo da abbattere. Il film, accompagnato dalle musiche stupende di Hans Zimmer, vi immerge in un ambiente (per lo più desertico) mai visto prima al cinema, costruito alla maniera di Nolan, cioè senza gli effetti fatti al computer. I due protagonisti, Paul e la madre, sono una coppia molto suggestiva, lui come Amleto alla ricerca di un senso alla sua esistenza, da lei mi aspetto sorprese. Film imperdibile per chi ama il canadese e Il trono di spade.

DUNE 2 (2024) Il mitico viaggio di Paul Atreides unitosi a Chani e ai Fremen sul sentiero della vendetta contro i cospiratori che hanno distrutto la sua famiglia. Di fronte alla scelta tra l’amore della sua vita e il destino dell’universo conosciuto, Paul intraprende una missione per impedire un terribile futuro che solo lui è in grado di prevedere. Due ore e 40 solo per chi ama il cinema (qui tratto dal capolavoro della fantascienza letteraria); se vi piacciono la Buy e Stefano Accorsi lasciate perdere: il canadese Denis Villeneuve è un un geniale visionario.  

DUNKIRK (2017) Il nuovo film di Cristopher Nolan è un altro capolavoro. Stavolta senza effetti speciali, dialoghi ristretti in 40 parole, 104 minuti, sceneggiatura minimale, tutto questo per fare un film sulla guerra senza una goccia di sangue. Non siamo a Games of Thrones, non ci sono atrocità, splatter, duelli, non c’è il nazista cattivo, solo la paura di quello che può accadere. 1940, ci sono inglesi e francesi che combattono contro il “nemico” (lo si chiama così) e cercano di salvare la pelle. Ci sono aerei in combattimento perchè il nemico attacca dall’alto e la morte sceglie a caso i suoi prediletti. Dopo Kubrick e Spielberg, adesso vediamo la guerra alla Nolan. Un film dove c’è la solidarietà, dove non conta di quale nazione sei, ma se puoi aiutare lo devi fare, senti che lo devi fare. Attori perfetti, musica di Zimmer, montaggio da Oscar di Lee Smith. Grazie, Maestro, questo è cinema e della Storia (cosa successe veramente allora) ci importa poco.

EDISON- L’UOMO CHE ILLUMINO’ IL MONDO (2019) Il film di Alfonso Gomez-Rejon è la storia  di  fine ottocento con tre geni, Edison, George Westinghouse e Nikola Tesla, i quali diedero alla umanità la luce, cioè quel sistema di illuminazione che, scusate se è poco, ci consentì di abbandonare le candele. Il film, che esce nel 2019 per le vicende legate al suo produttore Weinstein, pur disponendo di ingenti mezzi e grandi attori,  Benedict Cumberbatch, Tom Holland, Michael Shannon e Katherine Waterston , purtoppo scivola via senza emozionare. Non so di chi sia la colpa, forse della sceneggiatura di Michael Mitnick, il problema infatti di questa storia è che sin dall’inizio lo spettatore capisce che, per il bene di tutti, i tre geni dovrebbero collaborare tra di loro, senza arrivare a sputtanarsi a vicenda, perchè l’unione fa la forza.  In “Prestige” del 2006 Christopher Nolan mise in scena la lotta tra due illusionisti,  un ruolo lo ebbe anche lo scienziato Tesla e riuscì da par suo ad emozionarci. Qui lo stesso momento topico di Manhattan che prende luce scorre via come un documentario.

EL CAMINO (2019) (su Netflix) Nell’episodio finale della V stagione di Breaking Bad, Walter (Brian Cranston) raggiunse il rifugio di Jack, zio di Todd (Jesse Plemons). Jack gli mostrò la condizione di schiavitù in cui si trovava Jess Pinkman (Aaron Paul) e Walt si buttò assieme a lui a terra, fingendo un’aggressione e facendo scattare un meccanismo da lui preparato con ingegno: dal baule dell’auto parcheggiata di fronte spuntò l’M60 montato su un meccanismo girevole ed iniziò a far fuoco uccidendo i presenti. Walt uccise Jack gravemente ferito, ignorando la sua offerta di soldi e Jesse strangolò Todd. Walter poi diede la pistola a Jesse invitandolo ad ucciderlo, ma il ragazzo, vedendo che l’uomo era stato colpito a un fianco da un proiettile gli disse di pensarci da solo e se ne andò. Decise cioè di non essere manipolato ancora una volta dal professore White. In questo film per Netflix Gilligan racconta, alternando la storia con i flashback, cosa ha fatto Jesse dopo, libero ma braccato, mentre i genitori gli chiedono per tv di costituirsi. Un film che ci riporta ai paesaggi, all’atmosfera, ai personaggi indimenticabili di una serie che resterà mitica nella sua perfezione narrativa, nel suo congegno apparentemente semplice, nella sua rigorosa scrittura drammaturgica e letteraria. Vince Gilligan con i suoi colori e  deserti del New Mexico ci consente ancora una volta, per altre due ore, di ri-trovare i nostri personaggi preferiti, ci sono anche i cammei di Cranston e Jonathan Banks. Il tema è quello universale, cosa ciascuno di noi, intrappolato, può decidere di fare della sua vita, cosa vogliamo diventare.

ELLA & JOHN (2017) è un film che Paolo Virzì temeva di girare perché il romanzo da cui è tratto gli sembrava il solito copione on the road dei registi italiani che sbarcano in America. Si è convinto quando ha potuto avere Helen Mirren e Donald Sutherland nei ruoli di Ella e John Spencer. Una mattina d’estate, per sfuggire alle cure mediche e ai figli ormai adulti, con “The Leisure Seeker”, il vecchio camper che usavano per andare tutti in vacanza negli anni Settanta, si avventurano per la Old Route 1, destinazione Key West, la casa di Hemingway. John è il cultore di Hemingway (uno sceneggiatore è Francesco Piccolo) ormai con grossi vuoti di memoria, Ella è acciaccata e fragile ma lucidissima (l’altro sceneggiatore è l’Archibugi). Il film narra il viaggio di questi due vecchietti con l’intento di mescolare a piacimento per ogni spettatore riso & lacrime. Tutto bene, compresi i doppiatori Giannini & Modugno, con due Attori del genere il risultato lo porti a casa, ci mancherebbe. L’unica obiezione che faccio agli sceneggiatori è la seguente, possibile che 2 ottantenni in questa loro avventura sulla East Coast degli States, tra acciacchi e demenza senile, corrano il rischio di essere derubati da tre cretini una sola volta? Sarà la tolleranza zero ma in un qualsiasi paese italiano se non ti ammazzano, ti mandano all’ospedale e il vecchio camper la mattina dopo lo ritrovi a pezzettini. I registi italiani in America riscoprono le favole.

ELLE  (2016) Comincia come un thriller alla De Palma, con un gatto in primo piano che osserva impassibile l’aggressione della sua padrona, Michèle. Proprio come un felino, l’eroina non reagisce mai in maniera prevedibile a quello che accade. Anzi, più apprendiamo qualcosa su elle e meno si riesce ad inquadrarla. E’ folle o solo lucida? Vive da sola in una grande casa della provincia parigina, dirige con piglio una casa editrice di video giochi, ha un ex marito, un’amante che è poi il marito della migliore amica nonché sua socia, un figlio scemo, una madre immatura che si concede un toy-boy. Ma soprattutto alle spalle incombe un padre mostruoso che in un passato lontano ha assassinato ventisette persone. Già detta così la storia fa capire che Verhoeven fa ridere quando uno dovrebbe aver paura e viceversa. Attraverso una meravigliosa sottilissima Isabelle Huppert (1953, ma di età indefinita) si assiste ad un gioco di dominazione tra due estremi, mischiando follia e normalità, innocenza e colpevolezza. Un film perciò moderno, di un director olandese (Basic Instinct, Robocop, Atto di forza) che oggi con la Huppert sconvolge il nostro cinema borghese d’autore così come negli anni ottanta sconvolse Hollywood con l’erotismo di Sharon Stone. Voto 8

ELVIS (2022)  In un film stracolmo di effetti visivi e sonori viene messo al centro il rapporto tra l’imbonitore, il manger “falso”, e il “vero” artista; e l’essenza di Elvis, un bianco cresciuto con la cultura nera  in un quartiere povero di Menphis. Non è un biopic questo su un mito eterno che ha vissuto solo 42 anni, le inesattezze storiche sono tutte volute nel “nuovo strabordante, incontrollato, fiammante film di Baz Luhrmann realizzato a nove anni da Il grande Gatsby”. Prigioniero dell’imbonitore Parker ( un Tom Hanks con pappagorgia che tutto può fare al cinema tranne che il cattivo) e svuotato della sua essenza per diventare un fenomeno da circo, Elvis è corpo e supereroe, erotismo e rockstar dentro le contraddizioni dell’America tra gli anni 50 e 70. Solo il regista australiano può mischiare così la voce del vero Elvis con quella del prodigioso attore Austin Butler. L’apoteosi è mentre canta Suspicious Mind, come un uccello che non potendo mai atterrare continua  a volare fin che può. 

ENEMY Il regista canadese Denis Villeneuve, quello di Sicario e Arrival, è da tenere d’occhio. In questo film del 2013 non distribuito in Italia, l’ho visto su Sky, narra la storia di un prof, che è Jake Gyllenhaal, il quale scova un suo sosia che fa l’attore. Incuriosito lo segue e ne spia la vita. La trama è troppo intrecciata e non posso dire nulla di più perchè il fascino del film sta nello sciogliere con santa pazienza i fili intrecciati. C’è una ragnatela e anche un ragno finale che vanno interpretati in una Toronto molto fredda, c’è una Melanie Laurent molto bella, e compare anche Isabella Rossellini. Da decifrare, voto 7.

ENNIO (2022) di Giuseppe Tornatore. Tornatore comincia dall’inizio e illustra il percorso esistenziale e musicale del maestro. Sino all’apoteosi e al successo mondiale, passando per tutte le sofferenze e i bocconi amari che Ennio ha dovuto ingoiare. Il segreto del suo successo secondo me sta nella sua geniale capacità melodica. Dai Beatles a Morricone (a Battisti in Italia) la melodia è il diamante e i rapper di oggi sono tutti identici perchè non sanno cosa sia. 1964. Allora compravamo i 45 giri, per cui quando ascoltammo Il barattolo di Gianni Meccia, e poi le canzoni di Morandi, Paoli, Vianello, Dino, insomma il repertorio della Rca, noi giovani di allora capimmo che c’era una musica nuova. Chi la produceva? Gli autori, Zambrini, Paoli, Vianello? No, quelli come me appassionati lo seppero ben presto, lo scrissero i settimanali specializzati, alla Rca c’è un giovane arrangiatore che ha idee nuove. Ecco come conoscemmo Ennio e Tornatore comincia da qui, dal punto esatto in cui negli anni sessanta lo conoscemmo noi acquirenti di 45 giri. A sentirle oggi quelle canzoni si capisce bene quanto fossero innovative e moderne (molto più di quelle di oggi), perchè erano piene di “trovate” (e di contrappunti, di suoni, di incipit). Così chiamavamo allora le idee di Morricone che avendo studiato composizione con Petrassi e amando la musica di Stravinski si accostava alle canzonette sperimentando contaminando e rompendo gli schemi della musica, la quale, nonostante tutti i generi, sempre su 7 note è costruita. Per imporre la sua visione e le sue idee Ennio in una vita intera ha dovuto battere l’ideologia dei Petrassi. Morricone per Petrassi era un barbaro (contaminava la musica con le colonne sonore), ma lo è stato anche nella televisione, nel cinema, nelle case discografiche. Oggi ascolti una nota, una nota sola e riconosci Morricone, in tutti i paesi del mondo. 

E’ STATA LA MANO DI DIO (2021) Questo è il decimo film di Sorrentino, un altro regista avrebbe voluto far cinema solo per “dìcere al mondo” (raccontare al mondo) il suo dramma, quella bella stagione adolescenziale spezzata dal destino. Invece Paolè diventato Paolo ha cominciato raccontando (L’uomo in più) la storia di un ex calciatore, di un vecchio allenatore e di un ex cantante di successo. Erano tre soggetti che ha intrecciato in un solo film perchè non sapeva se avrebbe fatto il secondo. Dopo aver avuto successo in Italia Paolo poi si è messo in testa di farsi conoscere in America e colà i cineasti di culto (da Allen a Scorsese) compendiano il cinema italiano con l’arte di Fellini. Per cui gli è stato facile sviluppare la sua ammirazione nascosta (in quest’ ultimo film ne parla) e farla diventare la sua cifra, per cui oggi nel mondo è l’erede di Fellini. Con il riminese Paolo ha in comune due cose, il pensiero che la realtà sia triste e l’immaginario aiuta a vivere meglio; la curiosità per i tipi umani. Fellini ricostruiva la realtà in studio sino a mostrarci un mondo che assomigliava a quello reale ma in fondo era il suo; Sorrentino invece va in giro e guarda curioso le persone, con le sue cuffiette all’orecchio l’orecchino e i basettoni, perchè è rimasto un rocckettaro. La scena iniziale del film vale tutto il film che, come ormai tutta l’opera di Sorrentino, si dipana tra l’esigenza di svelarci qualcosa che pensa e quella altrettanto importante di portarci al cinema. Lui sa cosa vuole il pubblico e lo aggiunge a quello che gli interessa trattare (la serie sul Papa ne è una dimostrazione lunga). E’ diventato furbo e profondo, internazionale e pop, bello da vedere ma con una sola pecca: qualche scivolata di troppo nel fellinismo con i suoi mostri, tipo la “santa” caricatura di Madre Teresa ne La grande bellezza. Quel che Sorrentino non ha capito, secondo me, è che deve evitare il film “alla Sorrentino”. Faccio 2 esempi di grandi. Alfonso Cuaron ha girato Gravity ma anche Harry Potter eppure con Roma ha fatto il suo meraviglioso film più personale. Oppure Spielberg, chi avrebbe mai immaginato che adesso girasse un musical? Il fatto è che il director deve essere al servizio della storia e del film e non viceversa. Sorrentino affronta questo ultimo film con molta sincerità e misura, perchè ha avuto bisogno di almeno trent’anni per “intrattenersi” con il suo dolore profondo e anche per parlare di Napoli e dei napoletani. Infatti la cosa più intelligente che ha fatto l’uomo è stata quella di non ascoltare i consigli del regista Capuano.

ESTERNO NOTTE (2022) Marco Bellocchio (1939) affronta la sua prima serie tv tornando sul caso Moro che nel 2003 aveva affrontato con il magnifico “Buongiorno, notte”. Il trailer è fuorviante, sembra che il maestro piacentino di Bobbio intenda replicare il grottesco del sorrentiniano “Il divo”, invece è un film di 6 ore dove ritroviamo il tocco del nostro autore geniale che è unico perchè assomiglia solo a se stesso. Nelle 6 puntate oltre a Moro ci sono vari personaggi che vengono scandagliati, il bipolare Cossiga (Fausto Russo Alessi) e il tormentato amico Paolo VI (Toni Servillo) che morirà tre mesi dopo lui. Poi ci sono i brigatisti Faranda e Morucci e la moglie di Moro, una Noretta che la Buy rende come meglio non si potrebbe. Le serie tv sono cinema puro che consente appunto agli autori di fare drammaturgia, di scavare dentro i personaggi sino a mostrarne l’anima togliendo loro la maschera, cosa che nel contesto di un film di due ore è molto difficile fare. Bellocchio è un maestro, chiunque ami il cinema lo sa, dai 64 anni in poi  è tornato ad occuparsi della società italiana. Adesso con questa serie, ormai saggio ma sempre inquieto, volge lo sguardo alla nostra “storia” ben sapendo che noi italiani siamo smemorati, a stento ricordiamo quello che è successo un giorno fa. Figuriamoci cosa possiamo ricordare del 1978, dei democristiani, e delle Brigate rosse, dei pazzi sanguinari che incolpavano i comunisti di non aver fatto la rivoluzione e di fare troppe chiacchiere. L’estremismo, malattia infantile del comunismo, ha sempre trovato una culla accogliente in Italia, dove si saldano facilmente rivoluzionari da operetta (ricordate Allosanfan dei fratelli Taviani) e intellettuali ipocriti con le menti finissime, irresponsabili vecchi stalinisti e criminali senza nè arte nè parte. Bellocchio ai miei occhi ha il merito di metterci di fronte certe facce, di mettere a nudo le loro anime, più o meno sporche, costringendoci ad una fatica che non ci piace,  fare i conti con la nostra storia, dove c’è la Resistenza, poi l’antifascismo militante che sfocia nelle sanguinarie Brigate rosse (i neneisti esordirono allora) e nello stragismo nero. A Bellocchio sono mancate soltanto le musiche di Morricone, ma non perdete di vista le figure secondarie, interpretate tutte da grandi attori, come il poliziotto Spinella di Pier Giorgio Bellocchio e il monsignor Curioni di Paolo Pierobon. Infine il tutto è suggellato da schizzi (intuizioni) sublimi di grande cinema d’Autore, come la bambina della brigatista Adriana Faranda sola all’uscita della scuola mentre tutti gli altri genitori si sono precipitati a portare a casa i figli. 

FAVOLACCE (2020) Vista in tv la seconda opera dei gemelli D’Innocenzo conferma quanto avevo scritto dopo il loro “La terra dell’abbastanza”. Da seguire, attenti come sociologi e con il linguaggio del  cinema statunitense anni sessanta settanta, da Penn a Spielberg, come ha scritto Goffredo Fofi,  i  32enni registi  scelgono le villette a schiera della periferia meridionale di Roma durante una torrida estate. Della serie “I bambini ci guardano”, ogni famiglia nasconde delle piccole verità, spesso poco piacevoli. Bruno, sposato con Dalila, è Elio Germano (ormai nel solito ruolo del disturbato)  con due figli dodicenni estremamente educati e bravissimi a scuola. Poi c’è Geremia il timido che vive in un camper col padre cameriere, Vilma che aspetta un figlio e il professor Bernardini che ci ricorda quanto conti la scuola. I bambini, anche ma non solo per i comportamenti rabbiosi dei propri genitori  in realtà non sono per nulla felici e cercano una loro autonomia di giudizio. 

FERRARI (2023) Michael Mann (1943), maestro del cinema di azione (Heat, Collateral) nonchè dai primi anni 2000 fondamentale nello sviluppo e nella diffusione della tecnologia e delle riprese in digitale nel cinema delle grandi produzioni, racconta quattro mesi, nel 1957, della vita di Enzo Ferrari, tra elaborazione del lutto per la morte del figlio, crisi aziendale, Mille Miglia, conflitti sentimentali. Il film è stato snobbato dalla critica ma a me è piaciuto perchè spiega bene (anche grazie ad Adam Driver, Penelope Cruz, Shailene Woodley) il triangolo familiare di Ferrari e la necessità di trovare un socio che salvi la fabbrica. Gli italiani volevano più attori nostrani (Favino? Bentivoglio?) vediamo adesso il pubblico come risponde. Io che sono uno solo del pubblico dico: ok.

FINO ALL’ULTIMO INDIZIO (2021) di John Lee Hancock (su Netflix), l’ho visto per la presenza di Denzel Washington, che non dà mai fregature. C’è il classico serial killer da scovare. E, soprattutto, “c’è la danza perfettamente coreografata tra un detective, un ex detective (ora sceriffo) e un uomo sospettato di essere un serial killer, interpretati  da Denzel Washington, Rami Malek e Jared Leto”. Siamo dalle parti, lontanissime però, di Seven. I tre premi Oscar vengono sprecati e di essi solo Washington si salva (perchè, avevate dei dubbi?).

FIRST MAN (2018) Vado a vedere il film passando tra montagne di spazzatura ai lati delle strade. Sono stati, i critici, così delusi dal film, che non mi pare vero di godermi i 241 minuti di un film bellissimo. Neil Armstrong, ingegnere aereonautico e aviatore americano, è stato il primo a scendere sulla luna nel 1969. Ma la storia non è la realizzazione di un sogno, come in La la land, è l’elaborazione di un lutto. E’ la morte prematura della sua bambina che lo spinge a partecipare al programma Gemini, a diventare un anaffettivo il cui sangue freddo lo porterà a sviluppare quello che la moglie chiama “un’avventura”. Un’avventura che conta fallimenti e tragedie, con sullo sfondo la guerra in Vietnam e le tensioni sociali del ’68,  in mezzo a due figli da crescere e una moglie che non accetta di diventare vedova per i giochini di tecnici che non hanno niente sotto controllo. Ryan Gosling è in parte perché ha sempre una unica espressione, come in tutti i suoi film, la moglie, che è Claire Foy, a me fa impazzire da quando l’ho scoperta in The Crown (dove faceva la vivente regina Elisabetta). Con la musica sempre stupenda di Justin Hurwitz, nel suo quarto film Damien  Chazelle copierà qua e là, ma racconta la sofferenza oltre ogni limite. Perché, per quale dovere da compiere, contro le proteste dell’opinione pubblica? Siamo andati sulla luna, abbiamo sconfitto l’oscurantismo della Chiesa, le epidemie, le politiche totalitarie, viviamo a lungo, perché non riusciamo a risolvere problemi quotidiani come la spazzatura?

FIRST REFORMED (2017) Per questo film Paul Schrader (1946) ha ricevuto la nomination agli Oscar 2019 per la migliore sceneggiatura originale. Il film ha per protagonisti Ethan Hawke, nei panni di un prete e Amanda Seyfried. Per me, con tutto il rispetto per lo sceneggiatore di Taxi Driver e Toro scatenato di Scorsese, questo film è una boiata pazzesca, soprattutto per un finale invedibile.

FORZA MAGGIORE (2014) Il regista svedese Ruben Östlund riprende le scene da un matrimonio del suo connazionale Bergman ma siccome viene dai documentari sciistici, ambienta stavolta il film sulle Alpi francesi, dove Tomas e Ebba con i due figlioletti si godono una vacanza sulla neve. Nelle relazioni umane, e in quelle di coppia, c’è una parte oscura che magari emerge quando meno te lo aspetti. Ostlund è un maestro delle relazioni psicologiche, per fortuna non ha il pessimismo cosmico di Bergman, e soprattutto gira benissimo anche se talvolta con una lentezza che può essere intollerabile. Gli uomini non facciamo una bella figura e qua e là il regista ama presentare senza parole scenari simbolici, come nella scena finale.  

FRANCES HA (2012) La coppia Noah Baumbach-Greta Gerwig  costruisce questo delizioso film in bianco e nero il cui punto di forza è la naturalezza. Per chi come me ha adorato Truffaut e Rohmer, ritrovare in un film dei dialoghi senza capire se siano scritti o improvvisati, significa che sei davanti ad un Autore. Quando Sophie, l’amica del cuore e convivente la abbandona per un uomo, Frances (la Gerwig), 27enne danzatrice precaria, non può permettersi un appartamento ed è costretta a coabitare con 2 coetanei radical-chic. Una ragazza di oggi, goffa, pochi soldi e tante aspirazioni, gioiosa e attiva. Ma sa quel che vuole, trovare “quel momento”. Non si perde d’animo questa ragazza che come tante non ha il talento per imporsi nella sua compagnia di ballo. Un film romantico e che ti resta impresso, frutto di un’alchimia tra regista e attrice che sono una coppia anche nella vita. La Gerwig (la regista di Piccole donne) è semplicemente deliziosa. 

FREAKS OUT (2021) di Gabriele Mainetti. Ecco il film da vedere senza prima aver letto nulla, per star lontano da quelli che Caprara chiama gruppi di lodatori e odiatori. L’ambizione è fare un film sui supereroi con la tecnologia e l’immaginario filmico italiano. A me Avengers-Endgame dei fratelli Russo (italoamericani) è piaciuto molto di più, per dire, vedremo se questa scommessa internazionale costata 12 milioni riuscirà. 2 ore e 20 mi sono sembrati troppo per un film con un finale prolisso ed insopportabile (gente che spara al buio non si sa  a chi), che parte da Fellini (con le sue ricostruzioni in studio) e passa per Monicelli (i freaks), Leone, Burton, Spielberg, Tarantino, Lenzi, essendo Mainetti un enciclopedico del cinema nonchè musicista. Il problema è il contenuto di Guaglianone, sceneggiatore molto sopravvalutato. Mi deve spiegare, per esempio,  come il cattivo nazista con sei dita possa sognare di vincere le guerra assoldando le 4 figurine dei supereroi. E perchè mai i supereroi non si diano da fare per farla perdere la guerra ad Hitler. Tornando alla forma, il Fellini passaporto per il cinema italiano all’estero già non lo sopporto con Sorrentino, figuriamoci se posso abbonarlo in versione circense a Mainetti. Il film è stato girato anche a Camigliatello e la resistenza parla in calabrese perchè la Calabria ha finanziato il film. Complimenti per il coraggio e auguri. 

GET OUT Un film 2017 scritto e diretto dal comico Jordan Peele, al suo debutto. Un “Indovina chi viene a cena”, una commedia, in stile horror. Siccome il genere horror non lo vedo, e invece a me questa opera prima è piaciuta molto, voto 8, lo consiglio vivamente. C’è satira, intelligenza nella storia, e una simpatica critica al moderno liberalismo Usa (“ad Obama lo avrei votato per la terza volta”).

GLI UOMINI D’ORO (2019) Un film godibile tratto da una storia vera, un noir girato a Torino su una rapina ad un furgone portavalori. Vincenzo Alfieri si dimostra un regista più che promettente, crescono giovani registi che non hanno l’ossessione di essere Autori. Guardatelo come gira le scene in discoteca, o le scene d’amore, piccoli test per vagliare un film di genere. Fotografia perfetta, di Davide Manca, un montaggio incisivo in tre capitoli di cui l’ultimo è il meno riuscito. Il problema sono gli attori, che il produttore Lucisano (presumo) ha voluto riconoscibili: Edoardo Leo costretto a parlare in torinese pur dicendo poche parole è in evidente difficoltà; Fabio De Luigi che dovrebbe fare il Brian Cranston di Breaking Bad era meglio con la Gialappa’s. Giampaolo Morelli può recitare solo in napoletano e quindi fa sempre Giampaolo Morelli, Tognazzi fa quel che può nel ruolo di uno strozzino. I migliori sono Mariela Garriga e Giuseppe Ragone. Annotiamoci i cognomi degli  sceneggiatori Stasi, Sannio, Aronadio, con Alfieri ci daranno di sicuro altre ore di divertimento. Alfieri (Salerno, 1986) lo raccomandiamo al conterraneo Servillo, due volte con Donato Carrisi bastano ed avanzano

GLI SPIRITI DELL’ISOLA (THE BANSHEES OF INISHERIN 2022) Condivido e cito Teresa Marchesi: E’ la scrittura, la visione, la mano di un drammaturgo di mestiere come Martin McDonagh, cui dobbiamo un capolavoro come “Tre Manifesti a Ebbing, Missouri”. E’ un drammaturgo celebre, Mc Donagh, ripeto, come regista ha fatto quattro film, ma il suo primo, “In Bruges”, del 2008, è stato acclamato dalla critica. La coppia irlandese al cento per cento di “In Bruges”, Colin Farrell e Brendan Gleeson, ritorna in “The Banshees”. E’ l’universo di oggi su scala minima, quello di McDonagh. Rinverdisce i dialoghi di “Cannery Row”, sfiora il teatro dell’assurdo di Thomas Beckett, parla di outcast come quelli di Steinbeck, più propensi a lavorare per soccorrere un cane che per provvedere al loro stesso sostentamento. Parla di indifferenti alla Grande Storia che sono interpreti, in piccolo, del precipizio del mondo, dello scannamento insensato che sta trascinando il pianeta in una voragine. E’ misteriosa la via per cui un film in costume, sulla periferia apparentemente indenne del pianeta, riesce a parlare del nostro presente. Questo grande film di grande scrittura, di grandi attori che non aspirano al rango di star di richiamo, lo fa. E’ immediato il riferimento alla scrittura e ai personaggi picareschi di John Steinbeck e di “Cannery Row”, anche se siamo in una piccola isola al largo dell’Irlanda e l’epoca sono gli anni ’20 della guerra civile irlandese. L’isola è pastorale, povera,  isolata, si vive di capre, mucche, asini e sbronze al pub. Padraic (Farrell) e Colm (Gleeson) sono fratelli di bevute, ma d’improvviso il sodalizio si spezza, senza ragione apparente. McDonagh ritaglia ruoli simbolici, ma senza caricarli di ideologia posticcia. Così l’inimicizia senza un vero perché dei due amici precipita, situazione che suona universale. Cosa lascia più tracce nella memoria degli uomini? La gentilezza o l’arte, la musica? La  domanda vale per tutti noi. Colm ha il sentimento della vecchiaia, del poco tempo che resta: meglio impiegarlo per pensare e comporre che per chiacchierare con un individuo ’noioso’. Nel dissidio che precipita, irrompe il teatro dell’assurdo di Beckett.

GIFTED- IL DONO DEL TALENTO (2017) è un film delizioso diretto da Marc Webb e scritto da Tom Flynn. Ha come protagonisti Chris Evans e la piccola Mckenna Grace, zio e nipote nella storia di una talentuosa bambina matematica. Il film funziona perchè ci si immedesima, se fossi lo zio che scuola sceglierei per questo genio? Naturalmente gli americani testa e croce della moneta prima le illustrano e poi la riassumono dinnanzi un giudice. Ma tra diritto e rovescio non sempre c’è il lieto fine. Per tutti

GLORIA BELL (2019) Il regista cileno Sebastian Lelio (1974), sodale dell’altro Pablo Lorrain qui produttore, fa il remake del suo film “Gloria” premiato a Berlino  nel 2014. La storia è sempre quella,  una donna di 50 anni , ma portati benissimo come Jiulianne Moore, rimasta sola a Los Angeles con due figli grandi e un nipotino, in cerca ancora di qualcosa. Lo cerca nelle canzoni, lo cerca nelle sale da ballo, lo cerca negli uomini che incontra e in particolare in uno, che pare capirla ma talvolta sparisce e troppo è preso da un’altra vita con due figlie. Gloria gira in macchina, canta canzoni pop, è forte e debole, deve portare avanti, come tutti, una vita che spesso non è quella che vorremmo. Grande film con due grandi meriti per me. Uno, Julianne Moore, è scontato (Turturro  è di una tristezza indicibile come sempre). Il secondo è la musica. Lelio ha il merito di farci ascoltare tutte le hit che io metterei in un cd (giusto mancano i Supertramp e i Procol Harum). E alla fine, per andare a casa felici, ascolterete la canzone che vi spiega tutto.  

GREEN BOOK (2019) Chi poteva immaginare che uno dei fratelli Farrely (quelli di Scemo & più scemo), Peter, da solo, dirigesse questo gioiello? Storia vera del 1962, da New York al profondo Sud, in viaggio due straordinari Viggo Mortensen e Mahershala Ali. Un buttafuori italoamericano in veste d’autista accompagna un talentuoso pianista nero che deve fare un giro di concerti col suo trio. Storia di un’amicizia quando è difficile farsi accettare come nero, come musicista e come uomo. Il solito viaggio attraverso gli States, con soste e hotel, tipi ed imprevisti (come Virzì in “Ella & John”) dove però i protagonisti cambiano, vengono via via messi a fuoco, accompagnati da una musica meravigliosa. Ben vengano i 5 Oscar. Unica nota stonata: Pino Insegno che doppia Tony Vallelonga, detto Tony Lip, basta ascoltare la voce originale di Mortensen! 

HAMMAMET (2020) di Gianni Amelio. Quando nel 1972 Francesco Rosi diresse “Il caso Mattei” non c’era una controinformazione e per questo il regista incaricò il giornalista Mauro De Mauro di approfondire i fatti “ufficiali”; l’operazione fu così pericolosa e minacciosa che De Mauro scomparve. Ma oggi, in cui le fonti di informazione sono  molteplici, non si può fare un film su un personaggio pubblico basandosi in prevalenza su fonti giornalistiche. Amelio è regista sensibile, delicato, onesto. Qui un sosia di Craxi, uno  strepitoso Favino capace di interpretarlo bene anche con voce e mimica, parla molto (ad un giovane, personaggio inventato come spalla da Amelio) ripetendo concetti e idee che la stampa e la tv hanno già diffuso. Prendiamo invece la serie tv britannica “The Crown” sulla regina Elisabetta e la sua famiglia. Anche della British Royal Family pensiamo di sapere già tutto, solo che lo showrunner, Peter Morgan (1963), è un grande sceneggiatore e drammaturgo britannico capace di approfondire l’animo dei personaggi. Gli italiani (i santini televisivi lo testimoniano) con i biopic movies hanno grandi difficoltà perchè l’impianto teatrale (in questo film evidente), i dialoghi, le location non sono quasi mai sorrette da una drammaturgia, unico strumento che consenta di scavare dentro i protagonisti. Non è sufficiente che essi dicano cose che hanno effettivamente detto, che i fatti siano davvero avvenuti, che la villa di Hammamet sia proprio quella in cui ha vissuto Craxi in esilio: semplicemente in questo film, ben fatto e con le musiche di Piovani, non c’è il Craxi che non conosciamo, i suoi sentimenti più veri, che magari ci spiegherebbero le sue azioni.

HAPPY WINTER (2017) di Giovanni Totaro (1988). Un documentario sulla spiaggia di Mondello (PA) , con tantissimi personaggi che la abitano durante l’estate 2016 in cabine di legno arredate secondo gusti personali. Il tentativo è quello di raffigurare uno spaccato del paese in crisi ma a parte una fotografia suggestiva il resto sono chiacchiere e canzoni. La figura più interessante è comunque quella del bibitaro, l’unico che sgobba sotto il sole per racimolare qualcosa, mentre l’aspirante politico che ce l’ha con i parolai ci riempie di parole. Se questa è l’Italia in crisi, siamo messi bene.

HELL OR HIGH WATHER  Scritto da Taylor Sheridan (già dietro a Sicario), la cui sceneggiatura finisce nella Black List e viene giudicata la migliore del 2012, e diretto dallo scozzese D. McKenzie, questo film su Netflix del 2016 (il  titolo è un modo di dire, tipo “ad ogni costo”) è un bel western postmoderno. Voto 6,5. C’è la miseria (causata dalle banche) e la prepotenza (determinata dalle armi)  della fine di un’epoca  in un ‘America dove conta solo il denaro. Tutto un pò amaro come in tanti film, ma io quando vedo un personaggio come il Texas ranger di Jeff Bridges, mi ritengo soddisfatto. Ben accolto da critica e pubblico nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes, in Italia non è stato distribuito.

HOUSE OF GUCCI (2021) A me di Ridley (e di Tony, compianto) Scott non dovete parlar male. Per cui questo film di 158 minuti che molti dicono bruttissimo (soap opera) io l’ho veduto senza soffrire ma chiedendomi perchè il mio amato Ridley lo ha voluto fare. Di bruttissimo c’è Lady Gaga (nella parte di Patrizia Reggiani) di cui non capisco il fascino di cassiera ( la scena in cui tanti operai fischiano ammirati come se vedessero la  Bellucci nuda è follia pura) ma ci sono tanti grandi attori sprecati, compreso un Adam Driver che pare chiedersi “che ci sto a fare?”. Se Scott avesse visto una intervista alla vera Reggiani uscita dal carcere (dove lei dice sia stata in vacanza) si potrebbe render conto che ha fatto un fotoromanzo su una donna che un drammaturgo come Peter Morgan (quello di The Crown) potrebbe scandagliare nella sua psiche piena di cavità nascoste e sottofondi.

I CARE A LOT (2021 di J. Blakeson) Marla Grayson (Rosamund Pike) è una tutrice legale senza scrupoli che con false perizie fa rinchiudere in case di cura decine di anziani non autosufficienti per poi appropriarsi dei loro averi. Il problema del film, che pure vorrebbe essere ironico, è la mancanza di empatia dello spettatore. Sgradevole  lei, leonessa, lesbica, insensibile, predatrice in un mondo di uomini che la giudicano per il suo genere e per questo credono di surclassarla (la Pike è quella dell’Amore bugiardo di Fincher). Ma sgradevole anche il suo nemico, il mafioso nano mefistofelico Peter Dinklagee (quello del Trono di Spade). Insomma, siamo sul grottesco e la storia si rivela poco avvincente e prevedibile. Quindi, i care a lot (ci tengo molto) a non farvi sopravvalutare questo film su Amazon.

I DON’T FEEL AT HOME IN THIS WORLD ANYMORE di Macon Blair, esordiente, vincitore del Gran Premio della Giuria al Sundance film del 2017, è delizioso. Voto 8. Ruth è una depressa assistente infermiera che lavora in una clinica, ed è molto sola. Dopo essere stata derubata in casa, vista l’indifferenza dalla polizia, Ruth inizia ad indagare per conto suo, scopre un’impronta di scarpa nel suo giardino e chiede informazioni porta a porta ai vicini da casa, facendo la conoscenza di Tony, un metallaro strambo e solitario. Un film sulle nostre vite poco socievoli e anonime. Su Netflix.

I DUE PAPI (Netflix, 2017) Il regista brasiliano Fernando Meirelles (1955) (del quale ricordo City of God del 2002) e il drammaturgo neozelandese Antony McCarten (1961), autore di “L’ora più buia” e di “Bohemian Rhapsody”, confezionano un film intelligente che i due superbi protagonisti rendono suggestivo. Sono Jonathan Pryce (1947) (Bergoglio) e Antony Hopkins (1937) (Benedetto XVI) il vero valore artistico di un film con un chiaro impianto teatrale, scritto benissimo e confezionato in una location vaticana ancora più interessante di quella sorrentiniana del Young Pope. Infatti, a riprova, dove il film viene meno (da un punto di vista formale) è nella parte del giovane Bergoglio nell’Argentina del dittatore Videla, non all’altezza di tutto il resto. La sceneggiatura di questo biopic è il vero punto di forza, il suo valore è riuscire a mettere in luce due personalità e due dottrine diverse ma con una leggerezza e uno humour davvero incredibili. Pryce è così bravo che fa dimenticare subito dopo la prima scena la sua interpretazione dell’Alto Passero di GoT, e lo fa senza neppure doversi stravolgere con un trucco pesante. Hopkins è perfetto perchè solo lui poteva rendere in questo modo così profondo, nella complessa personalità di Ratzinger, il “rottweiler del Vaticano” e il musicista colto consapevole della sua inadeguatezza a fronteggiare l’enormità dei problemi.

IL CALAMARO E LA BALENA (2005)  E’ divorzio tra Bernard, scrittore senza più editori e con problemi economici, e l’esasperata Joan, aspirante scrittrice in ascesa decisa a uscire dal cono d’ombra del marito. I figli Walt e Frank si troveranno a far la spola tra gli appartamenti dei due genitori e mentre tentano di costruire il proprio “sé” aumenta la loro confusione adolescenziale e la voglia di fuggire. Babbo e mamma intraprendono relazioni improbabili, con un giovane istruttore di tennis e un’acerba lolita, e i loro esempi fanno del male ai ragazzi (16 e 12 anni) che vorrebbero stabilità e equilibrio.
Noah Baumbach scrive e dirige forse l’autobiografia tragicomica della propria adolescenza, è prodotto da Wes Anderson, del quale è stato sceneggiatore, e talvolta i Tenembaun (il richiamo al tennis) fanno capolino. Ma è un film pieno di citazioni, letterarie e cinematografiche, mai come stavolta funzionali al racconto, dal momento che il padre è un presuntuoso che considera “farisei” quelli che non leggono libri e però in tutti i suoi libri non trova più le risposte ai suoi problemi.  La moglie intende affrancarsi ma le sue avventure destabilizzano lei e i figli. Jeff Daniels e Laura Linney sono perfetti, Jesse Eisemberg e Owen Kline fanno tenerezza. Su Netflix. 6,5

IL CITTADINO ILLUSTRE (2016) Tra il discorso iniziale di accettazione del Nobel per la Letteratura e la conferenza stampa finale, Daniel  Mantovani (Oscar Martínez) diventa completamente un altro uomo, forse migliore o forse no. Il film è una geniale commedia acida molto applaudita a Venezia 2016 dove Martínez  ha avuto il riconoscimento come Miglior Attore.
Mariano Cohn e Gaston Duprat sono due registi argentini intelligenti, cattivi e davvero maestri di una nuova grande tragi-commedia sudamericana. Il nostro Premio Nobel Mantovani torna da trionfatore a Salas, il poverissimo paesino argentino natale che ha lasciato  da molti anni. Daniel è diventato un cittadino illustre e a lui verrà addirittura dedicato un busto (somigliante?) nella piazza principale. Un altro trionfo da mettere in agenda. O forse no? Ecco Ulisse che ritorna ad Itaca. Solo che Salas, quel luogo povero, ignorante e degradato che lui ha nobilitato attraverso i romanzi, si ribella improvvisamente contro il suo autore. Uno troppo pieno di sé e convinto, anche grazie alla sua dialettica manipolatoria, di essere sempre superiore perché innocente o sempre innocente perché superiore.
Attenzione al finale con il portiere dell’albergo, e fatevelo piacere.

IL CLUB DEL LIBRO E DELLA TORTA DI BUCCE DI PATATA DI GUERNESEY (2018) su Netflix.  Un film romantico e commovente che a me ha ricordato, per il paesaggio e le emozioni, il Troisi del Postino. Il regista è Mike Newell (Quattro matrimoni e un funerale), la protagonista è Juliet, una scrittrice famosa che in procinto di sposarsi entra in contatto con un club di lettori che vive in una isola sperduta e splendida, Guernesy. L’incontro con quella comunità per scrivere un articolo diventa poi l’occasione per capire cosa è successo loro durante la guerra con i nazisti.  Un film dove i libri e il piacere della lettura sono il mezzo per parlare del nostro destino e del coraggio di perseguire i propri sogni. Insomma, della nostra necessità di creare uno spazio in cui potersi sentire liberi. Per stare con gli altri dobbiamo trovare qualcosa che ci unisce e  la torta di bucce di patata del titolo è quello di cui in tempo di guerra e di razionamento di cibo da parte dei soldati tedeschi dobbiamo accontentarci.

IL COLIBRI’ (2022) Quello di Sandro Veronesi è un libro del 2019 originale dove c’è tanta morte, tantissima. Il film della Archibugi, scritto con la Paolucci e Francesco Piccolo, non lo tradisce, va avanti e indietro nel tempo sino a stordirti. Per la prima volta, per quanto mi riguarda,  Pierfrancesco Favino (Marco) con la sua faccia da cane bastonato, è credibile. Kasia Smutniak invece ormai si contende con Micaela Ramazzotti le parti di spostata, Laura Morante e Nanni Moretti (che però parla scandendo ogni santa parola) recitano i soliti personaggi. Se volete passare al cinema una serata rilassante non andate a vederlo, anche se Marco Carrera è un eroe dei nostri giorni, sopporta strenuamente i tiri mancini della vita e lo fa perché proprio come ognuno di noi, non ha una scelta. Marco è il colibrì che riesce a resistere a qualunque urto, disgrazia, crudeltà che la vita gli ha imposto. Resistere, resistere, resistere. 

IL COLLEZIONISTA DI CARTE (2021) Stati Uniti, oggi. William Tell (Oscar Isaac, perfetto) è un ex militare americano  excarceriere ad Abu Ghraib, si è reso colpevole di orrendi maltrattamenti ai prigionieri e fatica a convivere con i suoi demoni.  Malgrado otto anni di detenzione per i suoi crimini, William è distrutto, e per dominare i suoi pensieri, si guadagna da vivere come giocatore di poker professionista, vagando come un cacciatore notturno tra un casino e l’altro. Il dover contare le carte e gestire la tensione delle partite impegna il suo cervello al punto da riuscire a “spegnere” i suoi ricordi di Abu Ghraib. Il suo passato oscuro torna a tormentarlo quando  nella città in cui soggiorna appaiono il maggiore John Gordo, suo ex terribile superiore, e Cirk, il figlio di un altro suo commilitone, al quale si dedicherà con amore. Paul Schrader, collaboratore e amico di Scorsese, dirige un film di attesa, come il gioco del poker, e di colpa/redenzione, alla quale tutti i suoi personaggi ambiscono. Le sue città sono grigie e piene di luci, ma non sono gioiose, è un film con una rabbia repressa che non trova sbocchi.

IL CORRIERE (2018) Clint Eastwood (1930) dirige e interpreta un personaggio reale, un produttore di fiori che si ritrova, ad una età in cui si dovrebbe vivere tranquilli, a dover sbarcare il lunario facendo il corriere di un cartello di droga. Il film si segue bene perchè il corpo dinoccolato  di Clint (è alto 1,93) incarna bene la generosità di un vecchio che ha trascurato per tutta la vita la famiglia per i suoi amati fiori e gli amici. Il fatto che nel film la figlia sia Alison, sua vera figlia, è un altro dato autobiografico, in un film che non sarà un capolavoro, ma è sincero e secco come tutte le opere di Clint. Da lassù Sergio Leone segue questo suo allievo ben riuscito.

IL DIRITTO DI OPPORSI (2020) di Destin Daniel Cretton, con Michael B. Jordan, Brie Larson, Jamie Foxx. Film da vedere perchè la storia vera americana che racconta (dei primi anni novanta) è emozionante. Storia di razzismo, pena di morte, giustizia e speranza. Lo stomaco si attorciglia fino alla fine quando una didascalia ti informa che il poliziotto cattivo è stato rieletto altre sei volte dalla comunità dell’Alabama che egli tutela mandando a morte innocenti purchè neri. Per chi crede nel progresso inarrestabile dell’umanità.

IL DIRITTO DI UCCIDERE (non era meglio tradurre il titolo originale? Occhio nel cielo) è un film inglese del 2015 diretto da Gavin Hood. E’ l’ultimo film del grande Alan Rickman. A Nairobi, Kenya, gli inglesi in collaborazione con gli americani devono scegliere di eliminare con un drone un gruppo di terroristi islamici  che stanno per compiere un attentato in un mercato. Ma ci sono i danni collaterali, una bambina che vende il pane vicino la casa dei fondamentalisti. Sganciare o no? E chi prende la decisione? Il film, con Hellen Mirren e Aaron Paul, lo farei vedere a quelli che vogliono sempre la botte piena e la moglie ubriaca. Didascalico, voto 6.

IL GIOCO DELLE COPPIE (2018) di Olivier Assayas. Presentato come “commedia”, è un film francese intelligente solo per intellettuali. Guillaume Canet è un grande editore, la splendida Juliette Binoche è sua moglie che fa l’attrice, l’altra coppia è Vincent, scrittore e Valerie, segretaria di un politico. Libri, cinema, letteratura, internet, la vita e gli amori in dialoghi serrati. Impossibile fare in Italia un film del genere, sono morti tutti quelli che erano in grado di fare per davvero una commedia (detta all’italiana per disprezzarla).

IL MONDO DIETRO DI TE (2023) Questo thriller apocalittico Netflix di Sam Esmail (Mr Robot), tratto da un libro e finanziato anche dai coniugi Obama, è angosciante anche se fatto molto bene, visivamente ma soprattutto attraverso dialoghi molto ben costruiti.
Immaginate, come succede alle due famiglie di Ethan Hawke (se c’è lui un film è buono) e di Mahershala Ali, se il nostro mondo non funzionasse più, radio, tv, internet, se gli animali impazzissero e fenomeni incomprensibili si accumulassero. Non sai se è un attacco cyber dei nemici degli Usa, o le conseguenze del cambiamento climatico, o il risultato casuale di tanti fattori che l’umanità ha accumulato. Siccome gli eventi che si vedono nel film sono veramente accaduti, qui e là e non tutti insieme fortunatamente, a cominciare dall’11 settembre, per finire al colpo di Stato volto a scatenare una guerra civile negli Stati Uniti d’America di cui Trump si è intestato i diritti d’autore, non ci resta che discutere del finale di questo film. Io ho una mia teoria ma non intendo fare spoiler, per cui mi limito a dire che nelle intenzioni è una nota leggera e distensiva

IL PADRE D’ITALIA (2017) Un film è come quando t’innamori, prima ci caschi e poi capisci perché. Al contrario di tanti, nel film di Fabio Mollo (1980, Reggio Calabria) non sono caduto. Mia (Isabella Ragonese) è una sbandata incinta, la maternità è inaspettata e poco sentita; Paolo (Luca Marinelli) fa il commesso in un simil Ikea, è stato appena lasciato dal compagno, cerca un rapporto da ricostruire insieme a un altro uomo. Paolo e Mia si incontrano, Mia lo coinvolge, poi sarà lui che cercherà di riportarla a casa, in senso anche metaforico. Per farlo, gli toccherà attraversare tutta l’Italia, sino a Gioia Tauro.”Un inno al coraggio di chi insegue il proprio futuro”, ha spiegato Mollo. Perché mi è piaciuto poco, voto 5? Perché non sopporto quelli che si prefiggono di fare gli Autori o i cantaAutori. Monicelli o Fellini, se li chiamavi Autori, ti scansavano. Loro si consideravano “director”, all’americana. Come lo sono David Fincher (1962) e Sam Mendes (1965). Autori erano Zavattini, Flaiano, Sonego, Age & Scarpelli, Scola, Pinelli. Anche Sorrentino una volta dirigeva film, poi ha scoperto che nel suo corpo si è incarnato lo spirito di Fellini. Autore, per capirci, è un Michelangelo Frammartino (Le quattro volte), un Matteo Garrone, un Moretti. Mollo è bravo ma pretenzioso.

IL PRIMO RE (2019) Matteo Rovere (1982), romano, è uno che guarda lontano, non solo come regista ma anche come produttore (v. “Smetto quando voglio”). Con questo film mette insieme tanti richiami, da Apocalypto a Revenant, dal Signore degli Anelli a Games of Thrones (la vestale è proprio Melisandre), per dimostrare che oltre Sorrentino e Garrone l’Italia ha altri talenti internazionali. Il risultato è buono, ma non entusiasmante. La storia di Romolo e Remo è riscritta nel senso che Romolo è più moderato perchè si lascia guidare dagli Dei. Remo segue il suo destino, è forte ma non tocca a lui essere il primo re. Alessandro Borghi (Remo) è meraviglioso, truccato alla Viggo Mortensen, perchè, ancora una volta, si mette al servizio del film, e non costruisce il film su di lui, come fanno tutti gli altri (Mastandrea e Favino, per dire). 

IL PROCESSO AI CHICAGO 7 (2020) di Alan Sorkin. E’ la storia del processo, tenutosi nel 1969, che il governo degli Stati Uniti intentò contro otto attivisti (poi diventati sette nel corso del dibattimento) di sinistra, accusati di aver causato rivolte di massa nella Convention dei Democratici a Chicago del ’68.  Gli accusati sono Abbie Hoffman, esponente della controcultura americana dal carattere irascibile e con precedenti penali; il suo amico e compagno di lotta Jerry Rubin;  il giovane del fronte democratico Tom Hayden e il suo collaboratore John Froines; il pacifista David Dellinger e Lee Weiner. Sono difesi dall’avvocato William Kunstler (un grande Mark Rylance). E poi c’è anche il leader delle Pantere nere Bobby Seale. Il film, scritto da Sorkin già  2007 e poi passato alla regia su invito di Spielberg (qui produttore), è davvero un film sull’America di oggi anche se parla del passaggio dal presidente Johnson a Richard Nixon. La destra si riassume nel «Voglio tornare all’America in cui sono cresciuto», come dice subito il neo ministro della giustizia dell’amministrazione Nixon, John N. Mitchell (tutto deriva dal suo risentimento verso il suo predecessore, il  democratico Ramsey Clark). La sinistra si manifesta attraverso le sue varie anime che sono gli hippie (all’estremità del banco degli imputati), al centro i pacifisti e democratici  e infine le Pantere nere coinvolte ma estranee al processo. In mezzo sta la figura del pubblico ministero Richard Schultz (Joseph Gordon-Levitt), servitore dello Stato che agisce più per obbedienza che per convinzione, vicino per età e toni pacati al pensiero liberal (e talvolta ipocrita) del più cauto fra gli accusati, Tom Hayden. Molto istruttivo.

IL QUINTO SET (2021 su Netflix) Quentin Reynaud è un giovane regista francese che a modo suo riesce a portare a casa un risultato molto difficile, fare un film sul tennis che si lascia vedere (tipo Borg vs Mc Enroe). Il protagonista è un tennista 37enne che lotta contro l’età e gli infortuni e fa le qualificazioni per il Roland Garros. Il suo canto del cigno si avvale delle interpretazioni di Alex Luz, Ana Girardot e Kristin Scott Thomas nella parte della madre.

IL SIGNORE DELLE FORMICHE (2022) Come in Hammamet, Amelio parte dalla realtà per raccontare il come eravamo di una società. La condanna nel 1968 di Aldo Braibanti, poeta, drammaturgo, mirmecologo, ex partigiano, ex dirigente comunista, avvenne per un reato, il plagio, al quale ricorse l’Italia bigotta degli anni ’60. La famiglia e l’amore fra Braibanti e un suo giovane allievo, consenziente e maggiorenne (un bravissimo Leonardo Maltese), sviscerato in un processo di cui si riportano veri stralci degli atti.  Il resto è creazione artistica compreso un immaginario cronista dell’Unità (Elio Germano) sempre col cappello in testa. Germano serve per spiegare le prudenze e il perbenismo del  PCI, e di suo riesce solo nell’ultima scena a riproporre il solito personaggio di spostato. Qualcuno glielo spiegherà che non sarà mai il Joaquin Phenix italiano? Sono dovuti passare 54 anni perchè il cinema si occupasse dei tempi in cui in Italia si pensava che l’omosessualità fosse una malattia, da provare a guarire magari con l’elettroshok. Il cinema di Amelio, nonostante un personaggio macchiettista di Catanzaro, assomiglia talvolta a Bellocchio, ricorda talvolta Bertolucci, e quindi unisce forma e sostanza, impegno civile e cura dei particolari.

IL SOL DELL’ AVVENIRE (2023) Da quando Sorrentino si è proposto come l’erede di Fellini perchè ha capito che il cinema italiano nel mondo è il riminese, Nanni Moretti, che ha sempre amato La dolce vita e Otto e mezzo, si sarà detto: e allora io? Ecco quindi, ora che è abbastanza tranquillo, il suo film più felliniano, col circo, le musiche alla Rota, mescolato con il repertorio morettiano che ormai ha 50 anni sulle spalle e si vede. Moretti è sempre “vorrei ma non so”: vorrebbe esser capace di fare un musical alla Damiene Chazelle con le musiche di Justine Hurwitz e invece sa solo alternare dialoghi (cioè parole) con canzonette (oltre Battiato De Andrè e Tenco la new entry è nientemeno che Noemi). L’idea politica è la solita illusione che se il Pci avesse rotto  con l’Urss nel ’56 la storia italiana avrebbe svoltato. Ma quello che mi manca è il cinema, che è un’arte dove si parla poco e si vede molto. Dopo di che se Moretti stravede per Kieslowski e si rifiuta di studiare Breaking bad, lo capisco sino ad un certo punto, perchè siamo quasi coetanei. In “Io sono un autarchico” (1976) Nanni fece partecipare Beniamino Placido e Mughini (erano amici del fratello Franco), in questo film non si rende conto che le comparsate di Renzo Piano, Augias e Valerio sono imbarazzanti, insomma sono d’accordo con chi più che Fellini ha intravisto qua e là Pupi Avati. Margherita Buy è meravigliosa, gli attori Moretti da sempre li sa far recitare. Ad ogni modo è un film congegnato per Cannes e lì deve funzionare. Per questo c’è Mathieu Almaric, ma ai 4 sceneggiatori l’unica idea che è venuta in mente è stata quella di fargli usare un monopattino.

IL SOSPETTO (2012) di Thomas Vinterberg (1969, danese, uno dei fondatori di Dogma 95). Bellissimo e angosciante film sulla caccia. Il cacciato è Lucas, divorziato 40enne con un figlio adolescente, Marcus. Disoccupato, è assunto nell’asilo-nido e amoreggia con una collega. La piccola Klara, figlia del suo più caro amico, accenna alla maestra qualcosa di “poco chiaro” nei suoi rapporti con Lucas. Partendo da un assioma (“I bambini non mentono mai”), una comunità intera pensa di difendersi. La domanda del film è chiara (Klara): da dove nasce tanto accanimento? Lucas (un magnifico Mads Mikkelsen premiato a Cannes 2012) è taciturno e tutti noi con lui scopriamo (qui siamo nella civile Danimarca) che c’è del marcio nelle nostre vite dove festeggiamo il Natale, andiamo a messa e vogliamo proteggere i bambini senza riuscire ad ammettere i nostri errori. La caccia all’innocente cervo diventa il rito per essere ammessi nel mondo degli adulti. 

IL TALENTO DEL CALABRONE (2020) Un film claustrofobico ma ambizioso dove Milano sembra Los Angeles  e Radio 105 una radio di New York. Lo dirige Giacomo Cimini, che dopo 12 anni di vita a Londra, grazie soprattutto alla fotografia di  Maurizio Calvesi, confeziona un prodotto medio ma ambizioso. La storia è la tipologia di Speed, dover fare qualcosa per evitare un attentato, ma soprattutto il riferimento per me è il Locke di Steven Knight con Tom Hardy. Tre attori italiani reggono il tutto, un credibile Sergio Castellitto (il professore), un antipatico Lorenzo Richelmy (dj Steph) , e una insopportabile Anna Foglietta (tenente colonnello Rosa Amedei). Di quest’ultimo personaggio va chiesto conto allo sceneggiatore Lorenzo Collalti perchè farle indossare stivali da combattimento e una pistola sopra uno scollato abito da sera sembra, involontariamente, richiamare il tema del film, il rapporto tra vero e falso. Su Amazon Prime per emergenza covid, il film è vedibile

IL TRADITORE (2019) Marco Bellocchio ama di tanto in tanto occuparsi della vita politica italiana, lo ha fatto con Aldo Moro e adesso si occupa di mafia, attraverso la storia del pentito Masino Buscetta. Personaggio controverso ma che consentì a Falcone di far condannare capi e gregari della mafia a cominciare da Riina e Pippo Calò.  Il film è pieno di sparatorie ed è sorrentiniano ma asciutto come non riesce più ad essere Sorrentino da quando si è messo in testa che Fellini rivive in lui. Bellocchio è un grande, lo dimostra facendo recitare Favino come nessuno. Non è un capolavoro da vincere Cannes ma si apprezzano anche la musica di Piovani e i dialoghi. 

IN BRUGES (2008) di Martin McDonagh (1970). Il film è scritto e diretto da un drammaturgo inglese di origini irlandesi che con “Tre manifesti a Ebbing- Missouri “(2017)  è ormai conosciuto in tutto il mondo. Il film racconta le vicende di due sicari , interpretati da Colin Farrell e Brendan Gleeson che, dopo un colpo andato male, vengono spediti dal loro capo (Ralph Fiennes) nella tranquilla città belga medievale di Bruges. La pace del luogo è in contrasto con la “coscienza” dei tre uomini, che dovranno prendere decisioni importanti. Dialoghi, trama, storia, ironia, se non conoscete ancora l’arte di  McDonagh questo film la rivela.

IO CAPITANO (2023) Mentre guardavo questo bellissimo film (ma io sono un garroniano da quando vidi nel 2002 L’imbalsamatore) pensavo che non ci sono onde alte mentre il barcone si dirige verso la Sicilia, e la natura fotografata dal grande Paolo Carnera è bellissima, non è matrigna. Garrone dimostra, se ce ne fosse bisogno, che il “come” è fondamentale, il cosa può essere vario ed eventuale. Mette la cinepresa dietro i due cugini protagonisti, come faceva Rohmer con i suoi giovani, e li segue. I due protagonisti lasciano il Senegal  per raggiungere il paese dei balocchi e dopo Il Racconto dei Racconti e Pinocchio anche stavolta una fiaba ci rimanda alla realtà. Infatti il sedicenne Seydou dice bugie alla mamma, poi nel viaggio incontra Geppetto che è un muratore, viene raggirato da vari Gatto e la Volpe e il viaggio finisce in mezzo al mare, forse dentro una balena. Non sappiamo, quando la fiaba finisce con quella meravigliosa faccia sporca e matida di sudore di Seydou che grida “Io capitano” (tutto il film ha detto di averlo costruito da quella immagine), se in realtà lo scambieranno per uno scafista e gli faranno il processo. La fiaba è verità, secondo Calvino, e quindi Garrone resta un artista che non ha bisogno mai di alzare la voce, di denunciare, di protestare, di indignarsi, di far vedere crudeltà e cose orribili, oppure sesso e nudità. Anche alcuni inserti onirici che qui ci sono non li ha messi per sottolineare che lui è un Autore/Artista (non un director americano) ma perchè li produce la testa del suo protagonista.

I PREDATORI di Pietro Castellitto (2020) Un giovane laureando in filosofia abbastanza strambo della Roma bene, padre medico, madre regista; Claudio, un titolare insieme col fratello di un’armeria patito di Mussolini che  trascorre le sue giornate con moglie, figlio, croci celtiche e parenti pregiudicati. Le due famiglie si intrecciano attraverso la figura di un truffatore, Vinicio Marchionni, che abbindola la vecchia madre dell’armiere.  L’esordio di Pietro Castellitto, figlio d’arte ventottenne, è interessante per i dialoghi efficaci, la fotografia superlativa di Carlo Rinaldi, la musica giusta. Ma soprattutto per l’impiego di attori bravi che non sono le solite facce del cinema italiano. Avremmo potuto ritrovarci Gassman, Giallini, Favino, invece per fortuna ci sono, per esempio, due straordinari, Massimo Popolizio e il suo collega Dario Cassini nella parte di due primari medici. Popolizio è un attore teatrale fuoriclasse, Cassini un cabarettista. L’intreccio corale della storia qua e là si strappa, ma Castellitto è uno da tenere d’occhio se trova una misura e non vuol diventare il figlio di Sorrentino.

I MOLTI SANTI DEL NEW JERSEY (2021) di Alan Taylor. Prequel imperdibile  per gli appassionati della serie tv I Soprano, confezionato da David Chase. Un gangster movie alla Scorsese che racconta mafiosi italoamericani dalla vita piccolo borghese, travolta dal mondo che cambia intorno a loro. Siamo a fine anni Sessanta, quando Tony Soprano (Michael Gandolfini, figlio dello scomparso James) era solo un ragazzino indisciplinato ed era educato dallo zio Dickie Moltisanti , che lo prepara ad affrontare lo spietato mondo del crimine organizzato. Tutto inizia con lo scontro tra “Hollywood Dick” Moltisanti che dall’ Italia è tornato con una nuova moglie (una brutta copia di Penelope Cruz) e  suo figlio Dickie Moltisanti  (Alessandro Nivola). 

IO SONO TEMPESTA (2018) L’ho visto perchè il regista Daniele Luchetti mi evoca sempre “Il portaborse”, la sua opera più riuscita; perchè ha scritto questo film con Sandro Petraglia, e ha dichiarato di aver voluto riprendere la commedia all’italiana (!). Come se non bastasse, la critica gli ha dato tre stelle (su 5). Però è un film inutile, dove non si ride neppure per sbaglio, e non si pensa a nulla, con una musica di Critelli onnipresente (Luchetti sorrentineggia). Marco Giallini come al solito borbotta con la voce cavernosa e senza che si riesca a capire bene cosa farfuglia; Elio Germano fa Elio Germano. Inutili e montati. Alla larga.

IO, TRAFFICANTE DI VIRUS (2021) Ilaria Capua, al cui libro autobiografico è ispirato questo  film diretto da Costanza Quatriglio e da lei sceneggiato insieme a Francesca Archibugi, appare sempre in tv (dalla Florida) con Floris su La7. Laureata in medicina veterinaria e specializzata in igiene animale, è una ricercatrice in virologia, nonchè accademica ed ex parlamentare di Scelta civica di Mario Monti. Nel 2006 ebbe notevole risonanza internazionale la sua decisione di rendere di dominio pubblico la sequenza genica del virus dell’aviaria, decisione che contribuì alla diffusione dell'”Open access” ai contributi scientifici. Fu costretta ad espatriare dopo una inchiesta dell’Espresso che la fece diventare un mostro per quel combinato disposto “pm & stampa giustizialista” che ancora rappresenta uno dei nostri buchi neri più profondi. La successiva assoluzione giudiziaria, come avviene nel nostro Belpaese, non risarcisce dai danni subìti e così si spiega la visibilità televisiva che la Capua ricerca ora che il sistema si è liberato di lei perchè da noi non c’è posto per il merito e il coraggio. In questo film di denuncia dove c’è più sceneggiato e politically correct da Rai1  che grande appassionato cinema si intravede il generone romano, dove tutto si tiene. Può l’intellighenzia di sinistra muover contro l’Espresso, con tutta la sua tradizione storica da Benedetti e Eugenio Scalfari a Claudio Rinaldi? No, e quindi tutto è edulcorato sino a rappresentare come “cattivo” la figurina dimessa del Ferrari (l’attore Roberto Citran). Insomma, i cattivi qui sono tutt’al più invidiosi, e i giornalisti a caccia di scoop sono “compagni che sbagliano” (non so se vi ricorda qualcosa) perchè tutti possono sbagliare, o no?

I SEGRETI DI WIND RIVER (2017) Taylor Sheridan è lo sceneggiatore che ha scritto per Denis Villeneuve “Sicario”, primo atto di una trilogia che affronta il tema della moderna frontiera americana, seguita da “Hell or High Water” (David Mackenzie)  e si conclude con questo film da lui anche diretto. Cody Lambert (un grande Jeremy Renner) aiuta una inesperta agente FBI a  fare l’indagine sull’omicidio di una giovane amerinda (scomparsa come tante altre). Siamo all’interno del Wind River, una riserva indiana nel Wyoming, luogo inospitale dove freddo neve e silenzio innescano una dura lotta per sopravvivere. Questo ennesimo crimine fa riemergere il dolore di Cory che ha perso tre anni prima una figlia in circostanze altrettanto brutali. Un grande film un pò western un pò thriller, scritto benissimo. All’uscita ci si porta a casa il freddo. Siamo anche noi sofferenti e cerchiamo un mondo e un posto migliore dove vivere. Dopo questo film il tema “sheridano” del rapporto dell’uomo con la natura è stato sviluppato con la serie Yellowstone (4 stagioni) con Kevin Costner nel Montana.

I VILLEGGIANTI (2019) di Valeria Bruni Tedeschi. Confesso: il critico di Repubblica Morreale mi ha indotto a vedere un film che non avrei mai visto. Perchè non lo avrei fatto? Perchè una volta li chiamavano i film “cucina e tinello”, film in un ambiente teatrale dove il regista o è Polansky oppure ti ammazza. Adesso invece, da “La piscina” in poi, vanno in Costa azzurra, in una bellissima villa, si portano gli amici e girano un film. Come la Bruni. Nella parte, ma guarda un pò la fantasia, di una regista che deve preparare il film durante le vacanze estive in compagnia della figlioletta, dei familiari e dei domestici. Due complicazioni: un divorzio da gestire e la morte del fratello avvenuta anni prima. La Bruni tenta quindi di fare un film dove i ricchi piangono, ma anche i domestici, in una baraonda che lei gestisce, da regista vera, come lo fa la regista falsa: facendo la parte della Bruni Tedeschi, sbrindellata, talvolta simpatica, scombiccherata. Un film che forse è autobiografico, non so (la mamma di sicuro è vera), ma che solo un regista vero può dirigere. Perchè un film è tante cose, non solo storia e scenografia, ma musica, recitazione, luci, recitazione, inventiva. 

JACKIE Questo film americano 2015 del cileno Pablo Larrain (1976) è interessante, voto 7, perché dimostra agli italiani come si può inventare una storia su un personaggio pubblico del quale il pubblico sa già tutto. Natalie Portman è Jackie Kennedy ed è sempre presente nelle inquadrature. Larrain racconta il suo lutto, un dolore immenso, il suo privato, senza farle versare una lacrima. Una regina che ha perso tutto, che si aggira nelle stanze della Casa Bianca e sente la necessità di un’ultima grande cerimonia, che testimoni la grandezza del Presidente della Speranza. C’è l’omicidio, il viaggio in aereo con la salma, il funerale, ci sono le lotte negli uffici per ottenere una celebrazione a livello di un Lincoln, di un vero sovrano.

JERRY AND MARGE GO LARGE (2022) di David Frankel. Questo non è un film sul “tempo che resta”, come Ella & John o Supernova, ma sul “tempo della propria vita”. Basato sull’articolo pubblicato da Jason Fagone sull'”HuffPost” nel 2018, racconta la storia vera di una coppia, Jerry e sua moglie Marge, che vince ripetutamente alla lotteria Winfall dopo che l’uomo riesce a trovare una scappatoia nel sistema. La presenza del grande Brian Cranston e di Annette Benning rende il film godibile anche se non c’è suspence, e quando arriva il giovane hacker cattivo, si sgonfia da solo.

JOJO RABBIT (2020) di Taika Waititi. I critici di una volta uscivano di sala alla fine del primo tempo per non lasciarsi influenzare dalla storia e dal finale. Non è proprio il caso di far questo con il film del neozelandese Waititi (1975) che ha nello stupendo finale, anzi proprio nell’ultima scena, la sua sintesi poetica. Anche se c’è qualche battuta incisiva e gli interpreti sono davvero bravi (i due ragazzini, Scarlett  Johansson  e Sam Rockwell) non direi proprio che ci sono situazioni esilaranti e molta comicità come i trailer inducono a pensare. Siamo dalle parti di Wes Anderson. C’è una donna che attraverso l’amore, la resistenza e la danza cerca di salvare il suo ragazzo dall’indottrinamento e una giovane ebrea dalla morte. Poesia e  un tocco leggero. Abbiate pazienza sino alla fine.

JOKER (2019) Arthur Fleck nel 1980 vive a Gotham City in ristrettezze economiche con l’anziana madre, la quale spera che il candidato sindaco si ricordi di lei dopo tanti anni in cui ha lavorato per lui. Si mantiene facendo il clown per strada e in ospedale, sognando di diventare un comico. Dopo un pestaggio subìto da alcuni ragazzacci, un suo collega gli regala una pistola per difendersi. E’ l’inizio di  un incontrollabile processo di trasformazione in un vendicatore, come il tic nervoso che lo fa ridere a sproposito e ha reso la sua vita sociale impossibile. Ma la città comincia a eleggere la sua maschera come quella di un eroe degli oppressi e la tv (il simil Letterman è Robert De Niro), per ridere di lui, finisce senza saperlo  per dargli la possibilità di chiudere la partita. Un film livido, feroce, scritto da Todd Phillips, che poi è quello di “Una notte da leoni”, anche lui desideroso di trasformare una commedia in tragedia e viceversa. Ma il personaggio (per il quale era stato pure in lizza Di Caprio) lo poteva rendere al meglio solo il più geniale disadattato degli attori in circolazione, Joaquin Phoenix. E’ dal malvagio imperatore Commodo de “Il gladiatore”, passando per i film di M. Night Shyamalan, sino a “Her” e “The Master” che Phoenix (1974), qui scheletrico, fa il matto come nessuno. Ma come al solito è un matto attraverso cui passano tutte le miserie, le ingiustizie, la malvagità, le sofferenze di una società. Film bellissimo, con la musica affascinante della islandese Hildur Guõnadóttir. 

KILLERS OF FLOWER MOON (2023) Martin Scorsese in ogni film parla di soldi e avidità. Qui, in un film buio (fotografia spiacevole) siamo negli anni 20 nella Osage County dove i nativi indiani hanno scoperto il petrolio e Robert De Niro è lo sceriffo. Leonardo Di Caprio è suo nipote, e i due mostri sacri reggono un film di 3,5 ore. Accanto a loro c’è Lily Gladstone (bravissima) che fa Molli ed è ricca. Di Caprio l’avrà sposata per interesse o amore? Un noir che alla fine diventa una tragedia, ma non mi accodo a tanti che gridano al capolavoro. Di Caprio alla fine ha la mascella di Brando nel Padrino, ma che si è messo in bocca?

YESTERDAY (2019) Richard Curtis è lo sceneggiatore britannico di “Quattro matrimoni e un funerale”, dei film di Mr. Bean, ma ha anche diretto “Love actually”. Questo film che ha scritto lo ha affidato a Danny Boyle, perchè la storia aveva bisogno del suo talento visivo tra Lowestoft e Los Angeles. L’idea l’aveva avuta Troisi in “Non ci resta che piangere”, che effetto fanno le canzoni dei Beatles a chi non le ha mai conosciute? Difficile era sviluppare l’idea per quasi due ore,  il film ci riesce con qualche sforzo, concentrandosi sui due protagonisti, Jack Malick e la sua amica Ellie. Le sliding doors della nostra vita,tra vita normale e successo, sono lo spunto per arrivare al dunque: una frase-chiave del film che io non svelerò. C’è stato un musical colorato nel 2007 con la colonna sonora delle canzoni dei Beatles, “Accross the universe”, dove il protagonista era un operaio navale di Liverpool che si chiamava Jude e ben 33 canzoni erano sceneggiate. Non mi ha emozionato per nulla, mentre “Yesterday” non può non deliziare chi ama i Beatles. Siccome il mondo è vario ci sono anche quelli che li hanno considerati sdolcinati, dimenticando che nel 1963 chi ascoltava “Please please me” era considerato un depravato. Se amate i Beatles quindi un film imperdibile e lasciate ai critici la libertà di smontare il film. Che ognuno faccia il suo lavoro, però senza puzze sotto il naso. Nel film compare infatti Ed Sheeran, ha sostituito lo stupido di Chris Martin che ha rifiutato

L’AFIDE A LA FORMICA (2021) Nel suo esordio nel lungometraggio il calabrese Mario Vitale (1985) ambienta la  storia nella sua città di nascita, con protagonista Giuseppe Fiorello e la Rai come partner. Il suo merito maggiore è che riesce a confezionare un film per le sale, accessibile a tutti, anche se qua e là lancia qualche richiamo agli intenditori (i deliri onirici del protagonista, le scarpette da corsa lanciate in alto sul filo).  Pur partendo da un tema importante ma abbastanza abusato, l’inclusione e il riscatto, il film non si risolve, secondo il canone dei film di corse e maratone, nell’epica finale del traguardo raggiunto dopo sforzi, allenamenti, speranze e tanto running. La corsa è un momento del film, non la sua apoteosi. Bene, Lamezia dopo quasi trent’anni vede nell’opera prima di Vitale un richiamo al Carlo Carlei de “La corsa dell’ innocente” forse perchè “correre vuol dire anche scappare”. Da una realtà difficile e tormentata come Lamezia si deve fuggir via per poi ritornarvi con maggiore consapevolezza, così mentre Carlei, nella sua prima straordinaria opera prima, la osservava da lontano e dal mare, Vitale vi si immerge dentro. Un esordio riuscito dunque che piacerà agli appassionati di cinema perché, come al solito, il banco di prova non è cosa racconti ma come riesci a farlo. A me pare apprezzabile la sincerità dell’autore, il quale non ricorre ad alcuna forma di furbizia, pur nella ristrettezza dei mezzi a disposizione. In Italia ogni regista tende a pro-porsi subito come Autore e non accetta di essere il semplice  “director” all’americana. Vitale è una piacevole eccezione.

L’AMICA GENIALE L’anteprima al cinema (1,2,3 ottobre 2018) delle prime due puntate della serie tv tratta dalla quadrilogia di Elena Ferrante mi è piaciuta. Saverio Costanzo ci ha ridato l’atmosfera che noi lettori avevamo respirato, con stile neorealista dichiarato compresa la citazione di Anna Magnani che rincorre la camionetta (Roma Città Aperta). Elena Greco, ormai settantenne, scopre che la sua amica di una vita, (Raffaella) Lila, è scomparsa nel nulla senza lasciare alcuna traccia di sé, così decide di scrivere la loro storia, iniziata negli anni ’50 sui banchi di scuola in un rione popolare di Napoli. Elena scrive un racconto che copre circa sessant’anni di vita e, mentre prova a svelare il mistero nascosto dietro a quell’amica così speciale, riassume la storia del nostro paese. Una storia (epica) d’amicizia al femminile, quella di Lenù Greco e Lila Cerullo, due bambine  molto intelligenti che si conoscono alle elementari, con la maestra che lotta contro le famiglie perché entrambe possano continuare gli studi (idea non contemplata per le donne) mentre tutto intorno a loro gli adulti si fanno la guerra in un ambiente degradato per la miseria economica e morale. Saverio Costanzo e i suoi sceneggiatori (Paolucci e Piccolo) hanno colto quello che anche a me era parso il senso più moderno della storia: non c’è più una maestra come la Oliviero (la interpreta Dora Romano), capace di affermare il valore della conoscenza e cambiare la vita di queste due bambine. Detto che il tutto è accompagnato dalla bella musica di Max Richter, in una scenografia ricostruita a Caserta, una sola cosa mi ha disturbato, la voce fuori campo di Elena, affidata ad Alba Rohrwatcher (compagna del regista). Siccome Elena nel romanzo è bionda e soda, sentirla parlare con la voce dolente di questa attrice, bionda e smunta, mi ha creato un corto circuito.

LA BATTAGLIA DEI SESSI Ecco l’ennesimo film dove il cosa (la lotta contro il sessismo e la discriminazione di genere) prevale sul come. Racconta ciò che succedeva in Usa nel 1973, quando gli uomini bianchi potevano sostenere che nel tennis il pubblico vuol vedere gli uomini, sono più forti e divertenti e perciò vanno pagati più delle donne. La tennista Billie Jean King (Emma Stone) chiede uguale dignità e pertanto deve battersi, per scommessa, in un epico incontro a Huston con l’ex campione Bobby Riggs (Steve Carell). Ma la King, sposata, ha anche un’altra battaglia da combattere con sé stessa e il suo privato.  Consiglio questo film? Sì, per il contenuto, ma la forma non mi è piaciuta, tutti primi piani e canzoni dell’epoca. Un solo mio appunto scorretto. La King me la ricordavo più brutta della Stone, ma come si cantava, “oltre le gambe c’è di più”.

LA BATTAGLIA DI HACKSAW RIDGE Un altro guerriero per Mel Gibson, un altro film di guerra, mi siedo scettico ma esco soddisfatto (voto 6). La storia vera di Desmond Doss obiettore di coscienza, “avventista del settimo giorno”. I suoi comandamenti erano non uccidere e non toccare mai un’arma. Doss partecipò come assistente medico alla terribile battaglia di Okinawa, che lasciò sul campo 4.000 morti. Riuscì a salvare 75 uomini, riuscendo a calarli, con delle corde e con sforzi sovraumani, lungo una parete altissima. Con un fucile fece anche una barella. Fu insignito della Medaglia d’onore del Congresso, la più alta onorificenza militare. Desmond, prima oppresso da un padre alcolizzato, poi maltrattato, insultato e deriso da commilitoni e da superiori,  riuscì ad essere un soldato ma senza armi. Quando la tenacia e la fede rendono possibile l’impossibile.

LA CASA SUL MARE (2017) di Robert Guediguian. Un delizioso film francese di un autore di 64 anni di Marsiglia che ha visto gli immigrati prendere il posto dei proletari di una volta. “Scompaiono dei vasetti di marmellata, una coperta, e nascosti tra gli arbusti della collina Armand e Joseph scoprono tre bambini dai grandi occhi neri, spaventati, silenziosi: due maschietti, una materna bambina, come sono stati loro, Ariane, Armand e Joseph: sono quelli che i militari stanno cercando, ma i tre fratelli non sono diventati lepenisti e neppure leghisti”, ha scritto Natalia Aspesi. C’è una scena favolosa  che vale tutto il film. Ad un certo punto irrompe un brano dei Rolling Stones e si vedono i protagonisti  giovani su una Dyane nel 1968. Nessun trucco. Il regista aveva girato con gli stessi attori un altro film in quei tempi e ne ripropone un frammento. Il passato, il “come eravamo” ti spacca l’anima con la forza del  grande cinema. La Francia che amiamo: Jean-Pierre Darroussin, quello della serie tv “Le Bureau”, è meraviglioso, incarna “la gauche”.

LADY BIRD (2017) Cinque nomination all’Oscar per il primo film scritto e diretto da Greta Gerwig (1983). Per un modesto film è davvero troppo, ma Greta, la bella moglie del mio amato Noah Baumbach, racconta con sincerità forse la sua storia, quella di una liceale di Sacramento che sogna New York. Si chiama Christine ma si fa chiamare “Lady Bird”. Vive con il padre disoccupato ma comprensivo, la mamma infermiera ma tosta, un fratello adottato e la sua fidanzata. “Quando si perde la verginità?” domanda alla mamma Marion, e lei risponde: Al college. Racconto di formazione con Saoirse Ronan protagonista credibile e Timothèe Chalamet nella sua solita parte, bello ma stronzo. Primo capitolo della Gerwig (poi ha diretto “Piccole donne”) ormai dedita solo a storie femminili e al “me too”.   

LA FAVORITA (2019)  Che brutta figura fanno tutti gli uomini in questo film ambientato alla corte inglese di Anna Stuart, regina dal 1702 al 1707. Vanno in guerra oppure si incipriano, si mettono parrucche e giocano come tanti imbecilli. La regina (Olivia Colman) ha la gotta, ha perso 14 figli, è capricciosa e non le rimane che il piacere fisico con la vera regina, che è la sua favorita, Lady Sarah (Rachel Weisz), il cui scopo è vincere la guerra con la Francia  a tutti i costi. Ma arriva a corte una cugina di Sarah caduta in bassa fortuna,  Abigail Masham (Emma Stone) e da sua cameriera intraprende la scalata al potere. Grande sceneggiatura (di Deborah Davis e Tony McNamara) per Yorgos Lanthimos. Dopo due ottimi film surreali e metaforici (“The Lobster”, 2015 e “Il sacrificio del cervo sacro”, 2017), il regista greco si butta nel film storico e grottesco, con un uso frequente del grandangolo e con riprese dei personaggi sempre dal basso. Pur con una colonna sonora troppo ambiziosa per i miei gusti, il risultato è ottimo. Avevo scoperto Olivia Colman nella bellissima serie Broadchurch e mai avrei immaginato che diventasse una star da Oscar. Ed Emma Stone? Qui è stupenda, la sua migliore interpretazione, ed è così felice che ci regala anche un piccolo nudo. Certo, quando a 3 attrici si regalano ruoli così belli, non si lasciano fuggire l’occasione. Film imperdibile anche per sapere come la guerra femminile si evolve e se i conigli ci assomigliano.

LA FIERA DELLE ILLUSIONI (2021) Nightmare Alley è un romanzo pubblicato nel 1946, Guillermo Del Toro non poteva non amarlo per cui la prima parte di questo film di 150 minuti lo gira in un circo-luna park con i personaggi tipici e l’atmosfera di La forma dell’acqua. Poi il film diventa un noir con le sigarette succhiate di Bradley Cooper che mi sembra vestito da Indiana Jones, l’ingenua Rooney Mara e un cast super da Cate Blanchet a Willem Dafoe e tanti altri. Premesso che Del Toro è un Autore che adoro, mi sono un pò perso nel dramma psicologico, anche se credo che a lui tutto sommato interessi parlare del suo mestiere. I protagonisti non sembrano ma sono terribili, tengono esseri umani rinchiusi e trattati come bestie, non esitano di fronte a niente e hanno paura solo della polizia. Ingannano il pubblico come fa un mentalista o un regista, se ne fregano dei sentimenti e sono disposti a tutto per i soldi. Noi pubblico in sala siamo disposti a credere a tutto e magari scambiamo la truffa per il trascendentale. Un tema già affrontato da C. Nolan in “Prestige”

LA FORMA DELL’ACQUA (2017) Il film che ha vinto “Venezia 74”. 1963, durante la Guerra fredda, una strana creatura anfibia, una specie di uomo-pesce, viene portata in un segretissimo laboratorio governativo guidato dal cattivo di turno, interpretato da Strickland (Michael Shannon). Elisa (Sally Hawkins), giovane donna muta, che lavora come donna delle pulizie si innamora dell’uomo-pesce. Lei, la sua amica afroamericana Zelda (Octavia Spencer), il suo vicino di casa Giles (Richard Jenkins), pittore omosessuale discriminato sul lavoro, lo scienziato-spia Hoffstetler (Michael Stuhlbarg ), sono i diversi. La famiglia del cattivo è immersa nel  sogno americano.  Guillermo del Toro (1964) continua ad incantarmi, dopo averlo scoperto con “Il labirinto del fauno” (2006), con le storie che sa raccontare, dove c’è sempre un mondo incantato che si sovrappone alla realtà. Egli mischia tutti i generi del cinema, l’horror, il noir, il fantasy, il musical, il sentimentale, la favola, in una sola parola è un poeta visionario. E’ un messicano che con i suoi amici Alfonso Cuaron e Alejandro Inarritu ci ha regalato un nuovo immaginario. Non mi piacciono i film con i mostri  ma da “La bella e la bestia”e Frankstein a ET e Lo squalo gli artisti ci mostrano come l’umanità si ritrova nel confronto con i non umani e con la vita del sottosuolo. Oltre che per tutte le scelte tecniche (stedicam e altri effetti) che lo rendono quello che è, La forma dell’acqua è un film per amanti e conoscitori dei film per le sue tante citazioni. La più evidente e insistita è con Il mostro della laguna nera, un horror di fantascienza del 1954.  Il cattivo Strickland è doppiato da Pino Insegno, peccato, perché tutti gli altri doppiatori italiani sono perfetti per un cast eccezionale che merita tutte le nominations agli Oscar.

LAGGIU’ QUALCUNO MI AMA (2023) Mario Martone è regista teatrale e cinematografico. L’unico film in cui si è occupato di comicità è “Qui rido io” sul drammaturgo Scarpetta.  Qui, con l’aiuto di Anna Pavignano sceneggiatrice di Troisi, indaga le qualità di un genio nato nel 1953 a S. Giorgio a Cremano. L’autore Martone in questo bellissimo docufilm si evidenzia quando usa un metodo comparativo (tra Truffaut e Troisi) oppure (ecco il Quaggiù del titolo) quando scruta sui volti di giovani che assistono all’aperto alla proiezione di un film di Troisi. Perchè la sua arte, racchiusa in troppo poco tempo, come quello di Truffaut, è stata comica e civile, è stato un manifesto di vita che ha portato al cinema e in televisione. Pertanto la scelta di Martone di farsi vedere, lui autore serio, impegnato, accreditato e credibile, nella ricerca sul genio, gli consente di non liquidare Massimo come “quel napoletano che faceva ridere”. In questa categoria ce ne sono migliaia, da Salemme a Siani, ma Totò e Troisi sono fuoriclasse. Non è stato intervistato Lello Arena, ma la cosa ci lascia indifferenti.

LA GRANDE PARTITA Biopic del celeberrimo campione di scacchi americano Bobby Fischer, interpretato per l’occasione da Tobey Maguire. Il film racconta l’ascesa di Fischer nel mondo degli scacchi negli anni ‘60 fino alla “sfida del secolo” in Islanda contro Boris Spassky (interpretato da Liec Shreiber) nel 1972, il match che segnò la prima vittoria di un americano su uno scacchista sovietico, tutto questo in piena Guerra Fredda. La vittoria del mondo libero contro i russi bugiardi bari ed ipocriti, la definì il folle Fisher. Scritto da Steven Knight (regista di Locke) e diretto da Edward Zwick nel 2014, è un film non su un trionfo ma sul “prima della caduta” di un genio vittima dei suoi demoni personali.Voto 6,5.

LA LA LAND voto 10. Avendo amato Wiplash, il film del 2014 sul giovane batterista alle prese con un insegnante inflessibile, mi ero segnato il nome di Damien Chazelle (1985) per le sue indubbie competenze musicali. Così ho appreso che il suo progetto iniziale del 2010 era un musical, avendo già nel cassetto le musiche del suo amico Justin Hurwitz. Chiunque al suo posto, con almeno 3 temi musicali favolosi a disposizione, avrebbe pensato ad un musical ma costava troppo, perciò in fretta e furia dovette rinunciare e realizzare Wiplash, film a basso costo. Il successo del batterista ha reso possibile la storia di Mia e Sebastian e l’ingaggio di Emma Stone e Ryan Gosling. Una storia autobiografica per un regista che è (anche) un musicista e omaggia la città dei sogni Los Angeles, chiedendoci: pur di ottenere il successo che prezzo siete disposti a pagare? Una storia d’amore (con l’iniziale piano sequenza di 5 minuti in autostrada con 100 ballerini) che riconcilia con il cinema, la musica e l’amore, se non l’avete già perso rincorrendo l’ambizione.

LA NAVE SEPOLTA (2021 su Netflix) Il giovane regista australiano Simon Stone si cimenta in un period drama ambientato in Gran Bretagna nel 1939 e con il conflitto mondiale ormai imminente. La storia di un lavoro che va portato a termine prima che la malattia abbia il sopravvento o che scoppi la guerra. E’ la storia (vera?) del legame tra Edith Pretty, ricca vedova di un celebrato colonnello dell’esercito, e Basil Brown, archeologo dilettante esperto di storia e astronomia, alla ricerca  di un tesoro archeologico nella località di Sutton Hoo, vicino la città di Woodbridge. Due anime affini  si riconoscono il reciproco profondo bisogno di conoscenza costruendo un’amicizia sulla base di un amore trattenuto ed inespresso. Entrambi sanno che “siamo parte di qualcosa di continuo. Quindi non moriamo davvero”. Poi nel film ci sono altre storie secondarie meno riuscite, come quella del rapporto tra Peggy e Rory o quella degli accademici del British Museum. E’ sempre una lotta contro il tempo, nel contrasto tra fragilità e resistenza. Carey Mulligan (che ha sostituito la Kidman) e Ralph Fiennes reggono il film che ha nella fotografia di una natura mutevole il suo punto di forza. Noiosetto qui e là ma vedibile. 

LA PAZZA GIOIA  È la storia, scritta con Francesca Archibugi,  di due donne, Beatrice e Donatella, ricoverate in una casa di cura. La prima, Valeria Bruni Tedeschi, è una ricca decaduta, mitomane che vuole comandare tutto e tutti, l’altra è Micaela Ramazzotti, una tossicodipendente, alla quale hanno tolto il bambino per darlo in affidamento. Fuggono dalla comunità e ne combinano di tutti i colori. Ma alla fine, confrontando i reciproci drammi e patologie, staranno meglio. La Bruni Tedeschi è perfetta, forse si limita ad esser sè stessa, ma Virzì dopo “Il capitale umano” sembra in stato di grazia. Voto 7,5. La sua forza sono sempre stati la scrittura ed i dialoghi, per questo mi è sembrato un allievo diligente della grande commedia all’italiana, quella degli Age-Scarpelli-Maccari-Scola. Ma adesso, allontanatosi da Livorno, sembra diventato un regista che nobilita il prodotto medio (dove infilo pure Zalone), e che sa descrivere l’Italia di oggi come nessuno. La commedia all’italiana altro non era se non il superamento del realismo e così per esempio Dino Risi con “Il sorpasso” descrisse il nostro boom economico meglio di un sociologo. Purtroppo non ci sono più Gassman, Tognazzi, Manfredi, Mastroianni, ma Germano, Giallini, Gassman Ale., Favino.

LA PERSONA PEGGIORE DEL MONDO (2021) Joachim Trier, danese naturalizzato norvegese, fa di Oslo e della trentenne Julie i protagonisti di un romanzo attuale. Senza giudicare osserva le vicende dell’erratica ragazza indecisa su cosa fare nella vita e della vita, tra scelte, uomini, sentimenti, paure, incubi, un padre assente, organizzandole in 12 capitoli, un epilogo e un prologo. Meno male che c’è molta commedia nel peregrinare di Julie fra uomini e case e soprattutto prevale, sull’ironia nordica e su (tutti) i temi del femminile contemporaneo, una nota romantica. Magnifico l’incontro con l’uomo col quale Julie esplora i limiti del tradimento e suggestive le immagini di Oslo che commentano gli stati d’animo della protagonista, una stupenda Renate Reinsve. Il personaggio Axel è invece l’alter ego del regista alle prese con i trentenni di oggi (tutto sommato dei ventenni di ieri), instabili e irrequieti. Solo la leggerezza del regista rende sopportabili i riferimenti a tutte le questioni pregnanti dei nostri giorni, dal #MeToo al nuovo femminismo social, e proprio per questo il Woody Allen che qualcuno ha tirato in ballo per me c’entra poco. Al netto di tutta l’ironia di cui Trier è capace, il film fa interrogare lo spettatore sulla sua volubile eroina.

LA PRIMA PIETRA (2018) Un film da vedere (dove? a Catanzaro Lido, nella nostra Lamezia/Paperino non si può) perchè è tratto da uno spettacolo teatrale del canadese Olivier Lepage, adattato in Italia dal grande Stefano Massini. Con tutto il rispetto, se fosse stato del solo regista, Ravello, mi sarei astenuto (non mi pagano per vedere film). Un bambino di una scuola elementare rompe una vetrata e ferisce il custode e sua moglie. Il ragazzino è italiano ma di origini musulmane. Riuscirà il preside Guzzanti, il giorno 23 dicembre, a poche ore dalla recita di Natale, a gestire la situazione? Situazione reale, non realistica. Se facessi ancora il preside, metterei nel mio ufficio la foto di Corrado Guzzanti. Massini più Guzzanti più Lucia Mascino più Valerio Aprea fanno un bel film. Se questo testo teatrale di Lepage, poi, fosse stato diretto da Roman Polansky (ricordate Carnage, il film con 4 attori in un interno basato sull’opera teatrale “Il dio del massacro” della drammaturga e scrittrice francese Yasmina Reza?) sarebbe stato un capolavoro. Dopo questo film intelligente voglio sentire quelli che parlano ancora dei presidi-sceriffi. Ideologia, ideologia, ma non era scomparsa?

LA RAGAZZA NELLA NEBBIA Il film (2017) scritto e diretto da Donato Carrisi è un thriller ambientato in Alto Adige con una storia ben costruita che non ti fa sentire i 127 minuti. La presenza di Toni Servillo e Jean Reno dimostra le ambizioni internazionali dell’autore, mentre la presenza di Alessio Boni le scorie televisive. L’autore ha visto le grandi serie tv alla Fargo, guardate i cappelli delle poliziotte, ma avrebbe dovuto lasciare il copione ad un regista vero. Il film è claustrofobico, hanno risparmiato sulle luci e in mano a David Fincher sarebbe stato un bel film. Ci saremmo accontentati anche del nostro Andrea Molaioli (ricordate La ragazza del lago?). Peccato.

LA RUOTA DELLE MERAVIGLIE (2017) di Woody Allen. Un film in un unico ambiente che può piacere solo a chi ama il teatro. Per me il Polansky di “Carnage” (2011) con Kate Winslet e Christoph Waltz  resta insuperabile. Allen avrà girato questo film in due settimane, ha risparmiato su tutto, pure sulla colonna sonora, una canzone che si ripete. Affidata ai colori di Vittorio Storaro, la storia è ambientata a Coney Island-New York negli anni ’50 e ruota (appunto) intorno a Kate Winslet (Ginny), una donna di 40 anni, sposata con Jim Belushi (Humpty). Kate (Ginny) ha già un dodicenne con la manìa di appiccicare fuochi, Belushi una figlia sposata (Juno Temple) in fuga da un gangster. Justin Timberlake è il bagnino con velleità drammaturgiche. Tutto scontato e rimasticato. Allen mi infastidisce perchè è come se fosse costretto a realizzare certi film per contratto. Se fosse uno studente direi che non si applica abbastanza. Prova di attori, ma Polansky è su un altro pianeta.

LASCIATI ANDARE di Francesco Amato. Ero scettico di vedere Toni Servillo in una commedia con Carla Signoris, la moglie di Crozza, mentre fa esercizi fisici per tornare in forma. Invece la storia è piacevole e Servillo psicanalista si confronta con una incisiva allenatrice Veronica Echegui, dimostrando ai Verdone che nella commedia non c’è bisogno di far smorfie per far ridere e che il personaggio può rimanere tale senza trasformarsi in macchietta. Voto 7,5 di stima.

LAST FLAG FLYNG (2017) . Piccolo gioiellino, in Italia visibile solo su Amazon, è co-sceneggiato e diretto da Richard Linklater, con protagonisti Steve Carell, Bryan Cranston e Laurence Fishburne. Sequel del film del 1973 “L’ultima corvè”  e tratto dal romanzo (2005) “The last detail” di Darryl Ponicsan, narra di tre marinai (Doc, Sal e Mueller) che sono stati insieme in Vietnam e si ritrovano 30 anni dopo, quando vanno a prelevare la salma del 21enne figlio di Doc deceduto in Siria. La presenza di tre interpreti eccezionali, capitanati da un Cranston ormai sempre più carismatico, fa dei dialoghi di questo film una insuperabile prova d’attore. Un film di una profondità e di una intelligenza che mi ha ricordato “Il grande freddo” di Lawrence Kasdan

LA STRANEZZA (2022) Roberto Andò racconta Luigi Pirandello che torna in Sicilia per un funerale e incontra Ficarra e Picone. La genesi e la prima rappresentazione di “6 personaggi” in un film che praticamente si occupa di teatro e del rapporto tra realtà e finzione. Con la fotografia del sempre perfetto Maurizio Calvesi, Andò alleggerisce il tutto con la grazia e la simpatia dei due comici siciliani, aspiranti teatranti, e la interpretazione di un Servillo a suo agio nei panni di un futuro premio Nobel, il quale, prima di ottenere il successo e la consacrazione, ha dovuto ingoiare i bocconi amari di tutti quelli che gli gridavano “Manicomio”. Le vie dell’arte sono tortuose e faticose. Ma, voi del sud fateci caso, tutto, anche l’inventiva artistica che ne scaturisce, nasce da una mazzetta e dagli eterni malandrini meridionali.

LA TENEREZZA Il film del nostro Gianni Amelio vede uno strepitoso Renato Carpentieri nei panni di un anziano avvocato appena sopravvissuto ad un infarto. Vive da solo a Napoli in una bella casa del centro, da quando la moglie è morta e con i due figli adulti non si vede più. Al suo rientro dall’ospedale, entra in contatto con la famiglia dei nuovi vicini, Michela, una giovane donna solare, il marito Fabio, ingegnere settentrionale, e i figli Bianca e Davide. Quando senza accorgersene i vicini entreranno nella sua vita, un evento imprevedibile lo sconvolgerà al punto di rivedere tutto. Carpentieri vale il film, voto 6, Elio Germano non è ancora uscito dal personaggio di Leopardi e Micaela Ramazzotti da quello di Donatella de La pazza gioia (anoressia compresa)

LA TERRA DELL’ABBASTANZA (2018) dei Fratelli D’Innocenzo. Damiano e Fabio D’innocenzo sono due gemelli di 30 anni che si firmano volutamente come una ditta di un negozio. Piccoli Garrone crescono. Con una serie di primi piani e macchina sempre ferma si racconta la storia di due studenti amici romani, Manolo e Mirko, alla ricerca “dà svorta”, di cambiare la vita di periferia. “Abbiamo svortato”, pensano ad un tratto. Alle loro spalle due genitori deboli, il padre di Manolo (finalmente un ruolo per il mio amatissimo Max Tortora) e la madre di Mirko (Milena Mancini, bravissima). Un quartetto che tiene il film, asciutto, “reticente”, come amano definirlo gli autori, poche parole e molti primi piani. Un pò troppo autoriale per i miei gusti, considerato da alcuni critici “esordio folgorante”, mantengo alcune riserve. Quando vidi “L’imbalsamatore” di Garrone non ebbi riserva alcuna. Le musiche inoltre mi hanno dato fastidio.

LA TRUFFA DEI LOGAN (2018) di Steven Soderbergh. Il regista, nonchè grande direttore della fotografia, di Ocean’s eleven-Fate il vostro gioco (2001)  e seguenti, continua ad inventarsi grandi colpi a caveau impossibili. Il problema di questo film è che si ride poco, è tutto scontato e convenzionale in una commedia che ricorderò per una bimba di dieci anni. Vince un concorso di bellezza truccata come un mostro. Non ho capito se la mostruosità sia stata voluta o no dal regista.

LA VITA E’ FACILE AD OCCHI CHIUSI Un film piccolo ma affascinante, voto 7, è di David Trueba, con Javier Càmara nella parte di un professore che insegna inglese attraverso le canzoni dei Beatles. Il suo viaggio è alla ricerca di un incontro con John Lennon che sta girando un film in Almeria con Richard Lester (tutto vero). Ci si immedesima troppo in questo film e adesso mi accorgo che è già il secondo film che ha per protagonista un docente, ma non è colpa mia.

LE MANS ’66 – LA GRANDE SFIDA (2019) Questo bel film segue le vicende degli ingegneri e dei membri della scuderia statunitense Ford, guidata dal progettista Carroll Shelby (Matt Damon) e dal suo pilota britannico Ken Miles (magnifico Christian Bale) , ingaggiati da Henry Ford II e Lee Iacocca col compito di costruire una vettura, la Ford GT40, in grado di vincere la 24 Ore di Le Mans del 1966 contro l’avversaria Ferrari.
I due eroi battono prima di Enzo Ferrari i manager con cravatta della Ford realizzando un sogno che l’uno consegna all’altro. Adrenalina pura perchè tutta la parte tecnica del film è perfetta e il regista James Mangold (1963) padroneggia la messa in scena che ha  sottofinale e finale imprevedibili. Storia di grandi uomini prima che di macchine, di talenti prima che di marketing. Bellissima l’irlandese Caitriona Balfe e struggente il ragazzino Noah Jupe.

L’EQUILIBRIO Ecco un film a tesi dove l’autore Vincenzo Marra sta dalla parte di don Giuseppe, un prete missionario che, per sfuggire una tentazione, si fa mandare a Ponticelli, quartiere di Napoli, al posto di don Antonio. Questi ha mantenuto gli equilibri occupandosi solo dei tumori provocati dai rifiuti tossici interrati. Don Giuseppe invece ci prova: fa sloggiare una capra che un boss ha chiuso in un campetto impedendo ai bambini di giocarvi; si occupa del figlio di  un’ ammalata che prima di morire glielo affida; infine di una bambina di 10 anni violentata. La trama è esile esile, la macchina da presa sta addosso al prete con movimenti disturbanti. Ecco il tipico film dove il “contenuto” apre il talk show e la confezione non conta più nulla. Per uno spettatore come me conta solo la prova del protagonista, il regista e drammaturgo Mimmo Borrelli.

LE 8 MONTAGNE (2023) Due registi fiamminghi, Felix Van Groeningen (1977) e Charlotte Vandemeersch per la trasposizione del libro di Paolo Cognetti “premio Strega”. In un formato ristretto (quasi da documentario) la storia in Val d’Aosta di una grande amicizia tra Pietro bambino torinese di città e il montanaro Bruno. “A un certo punto uno deve fermarsi e capire cosa è capace di fare. Io sono capace di vivere da solo in montagna, non è poco, no? “, dice dopo più di due ore Bruno, perchè la montagna unisce ma può anche dividere. Un film poetico con due grandi attori, Marinelli e Borghi, ma forse squilibrato tra la parte “fanciullesca” e quella “adulta”. Questioni di gusto, io avrei sfrondato la seconda. Con le musiche di Morricone sarebbe stato da Oscar

LICORICE PIZZA (2022) Paul Thomas Anderson (Los Angeles, 1970) ci regala gli anni settanta attraverso l’incontro di Gary (15 anni) e Alana (23). Questi due ragazzi divisi dall’anagrafe sono anime gemelle che si attraggono e si respingono, perché vivono anche di grandi contraddizioni. Tra loro c’è ammirazione ma anche competizione, gelosia e invidia, l’ingenuità del primo amore e il cinismo dell’adolescenza. Lei, una splendida Alana Haim, alla ricerca di un lavoro e dell’amore, lui Cooper Hoffman (figlio di Philip Seymur) con il pallino degli affari. Lei rincorre lui, lui rincorre lei, è un film dove si corre molto. Tutti scappano, si prendono, si lasciano. E’ l’Hollywood dei Seventies, con i cameo di Bradley Cooper, Sean Penn e Tom Waits, un ritorno del regista agli anni della sua formazione e a quel vento di libertà che si respirava. 

L’IMMENSITA’ DELLA NOTTE (2019) su Amazon prime. Film di fantascienza che di  certo piace a Spielberg. 90 minuti di un esordiente regista autodidatta, Andrew Patterson (1982 Oklaoma). Stati Uniti degli anni ’50, lo speaker della piccola radio locale (Everett) e la giovanissima centralinista di Cayuga (Faye), poche case al confine con il Messico, s’imbattono in un misterioso suono che si propaga per le frequenze radio e su quelle telefoniche del centralino. Il resto degli abitanti di questo pugno di case in New Mexico sta seguendo la partita di basket della squadra locale nella palestra del liceo. Dopo un avvio lento e un pò noioso il regista dimostra, con riprese magistrali sulla location delle valli desertiche del New Mexico, come il fascino del racconto orale attraverso la radio ci possa affascinare sino ad un finale che non va spoilerato.

L’IMMORTALE (2019) di Marco D’Amore. Buon spin-off della serie tv “Gomorra”, costruito sul personaggio Ciro di Marzio, scritto da Leonardo Fasoli e Maddalena Ravagli che della serie tv sono sceneggiatori essenziali. Una operazione furba perchè il film può essere visto anche da chi non ha visto la serie, mentre i seriali non possono perderlo. Sul regista D’Amore posso dire che certo non è Sollima, la fotografia di Guido Michelotti è troppo algida, mentre l’attore Ciro si fuma 875 sigarette succhiandole. Niente contro il fumo ma questi stereotipi di recitazione non li capisco, cosa mettono in scena, lo stress?

L’INCREDIBILE STORIA DELL’ISOLA DELLE ROSE (2020 su Netflix). Sidney Sibilia (1981) è un autore (quello di Smetto quando voglio) per film piacevoli. Qui torna al ’68 quando la fantasia al potere partorì l’idea dell’ingegnere Rosa (che Sibilia omette di dire che fosse fascista) di costruire in acque extraterritoriali al largo di Rimini una piattaforma con la convinzione di poter vivere in un mondo nuovo. La questione, vera, finì a Strasburgo e Sibilia la ricostruisce con tono vanzianiano avvalendosi di un gruppo credibile di attori tra i quali il protagonista, Elio Germano, come al solito fa la parte dello strambo (da Leopardi in poi, più o meno poetico). Quando hanno bisogno di uno che non è normale pensano ormai solo a lui. Visto l’accento bolognese ci poteva capitare Accorsi.

L’INCREDIBILE VITA DI NORMAN Chi è Norman Oppenheimer, il protagonista del primo film in inglese dell’israeliano Joseph Cedar, un Richard Gere che supera una prova impegnativa? E’ un faccendiere ma è anche un agnello fra i lupi. Solo, ma nobile, untuoso e bugiardo ma in cerca di sincerità nelle relazioni , cerca un riscatto o forse solo il rispetto. Non sembra avere una famiglia, benché finga di averne una, né affetti oltre un nipote, né casa: si rifugia saltuariamente in una sinagoga dove si ristora e si ripara dal freddo. È il suo luogo di lavoro, la sede della sedicente “Oppenheimer Strategies” che Norman ostenta sui biglietti da visita. Grazie ad un paio di scarpe, si fa ben volere da un deputato israeliano (Lior Ashkenazi) che a distanza di pochi anni viene eletto Primo Ministro. Ha puntato sul cavallo giusto e il film racconta cosa questa amicizia riuscirà a procurargli. Un bel riuscito racconto, con qualche collage stravagante e inutili lentezze, che si segue con interesse. L’ho visto perché qualcuno ha usato l’aggettivo “coeniano” e dei Coen c’è il personaggio centrale, che vuol farsi un nome ed è condannato all’anonimato più sublime che vi sia.

L’INGANNO 1864. In piena guerra di Secessione nel profondo Sud degli Stati Uniti, c’è un collegio femminile tenuto da Miss Martha (Nicole Kidman) che è completamente isolato dal mondo esterno. Un giorno viene trovato nei paraggi un soldato ferito, il caporale John (Colin Farrell). Viene soccorso e condotto al riparo. La sua presenza altera però ben presto tutti i rapporti tra le protagoniste, di età e aspirazioni diverse, e scatena rivalità. Remake di uno dei Siegel più feroci, La notte brava del soldato Jonathan (1971) (con Clint Eastwood), Sofia Coppola, Palma d’Oro 2017 per la regìa a Cannes, continua ad indagare il microcosmo femminile. Con le stesse attrici, poi, Kirsten Dunst e l’inquietante Elle Fanning. In una casa fuori del mondo che forse sarebbe l’illusione di un mondo incontaminato, arriva il desiderio e  provoca fratture. Un film di guerra senza vedere mai la guerra, con il bosco ed i rumori che provengono dall’esterno. Con l’erotismo fatto di sguardi o di mani che si sfiorano. Nonostante la fotografia magistrale di Philippe Le Sourd, un film che si può perdere per la semplice ragione che il soldato sciupafemmine e la frigida direttrice del collegio ci annoiano.

L’ORA PIU’ BUIA (2018) Il film di Joe Wright (regista di “Orgoglio e pregiudizio”) racconta nel 1940 Winston Churchill , da pochi giorni Primo ministro, il quale deve decidere se negoziare un trattato di pace con la Hitler, o continuare la guerra per difendere gli ideali e la libertà dell’isola. Il film mi ha ricordato “Il discorso del re”, per l’importanza che la comunicazione ha nella storia, oltre che “Dunkirk” di Nolan perchè  la guerra e le vittime non si vedono.”Ha mobilitato la lingua inglese e l’ha mandata in guerra”, è la frase riassuntiva di un film costruito su Gary Goldman trasformato in Churchill, per la gioia del nostro doppiatore calabrese pizzitano Stefano De Sando. Due cose. Avendo visto la prima stagione di “The Crown”, la serie scritta da Peter Morgan, il Churchill di John Lithgow per me resta insuperabile. E infine. Lezione per il cinema italiano: recitare significa sapersi trasformare, come sa fare Goldman. Invece da noi gli Accorsi, Savino, Verdone, Giallini, Zingaretti Zalone & C. qualsiasi ruolo gli venga assegnato interpretano sempre e solo sè stessi.

LORO 1 (2018) “Ce n’è una che si fa chiamare la francese ma è di Pizzo Calabro”. Paolo Sorrentino costruisce tutti i suoi film su un personaggio, intorno al quale circumnaviga scandagliando anima e corpo. In questo film (ambientato nel 2006, prima del bunga-bunga) si introducono i 2 personaggi, destinati ad incontrarsi come sesso e  danaro: l’imprenditore tarantino Morra ( Scamarcio) e il Caimano. Scamarcio si allea con una delle favorite del Cavaliere (Kasia Smutniak, il personaggio meno riuscito e seducente), arruola una schiera di escort e le piazza davanti a Villa Certosa in Sardegna. Silvio Berlusconi ( Toni Servillo)  ha perso le elezioni (da Prodi) e tenta invano di far ridere e riconquistare una Veronica Lario (Elena Sofia Ricci) persa nei libri di Saramago. La seconda parte del film (esce il 10 maggio) chiuderà il cerchio, ma per adesso Sorrentino non delude. Ormai reincarnatosi in Fellini (per piacere agli americani), stavolta riscopre lo Scorsese del Wolf of Wall Street (2013). La dolce vita e lo squallore. Ci sono i soliti animali, le pecore, un bisonte, un cammello, un topo; molta cocaina, Loro (quelli che contano), Lui (il Caimano), Dio (perdona), Formigoni e Bondi, Bertolaso, Noemi Letizia e l’Ape regina Sabina Began. Ci sono cose imbarazzanti come il camion della spazzatura che esplode o Veronica che accusa Silvio di non aver mai fatto in tv programmi culturali! Non c’è la cronaca pop del Potere come nel Divo (e purtroppo non c’è più  D’Avanzo come consulente), qui si rappresentano  soldi e sesso come mezzi e fini del mondo in cui viviamo (“abbiamo tutto, ma mai abbastanza”). Noi che guardiamo Loro in tv, come la pecorella che guardando il condizionatore, rimane congelata.

LORO 2 (2018) Ammiro Sorrentino dal primo film “L’uomo in più” (2001), e continuo anche  quando un film come questo mi persuade poco. In un film di 3 ore (diviso in due parti) il nostro Fellini redivivo non può concentrare in due dialoghi memorabili tutto il senso del film. Il resto, olgettine, Sardegna, amici, balletti, è tutto contorno visivo, talvolta pure televisivo. Mi sono fatto quindi l’idea che Sorrentino sia ormai dispersivo, accumula materiale perdendo di vista l’obiettivo. Al contrario de “Il Divo” qui non siamo nei palazzi del potere, siamo (2006-2010) in una grande villa in Sardegna, dove l’istrione progetta di riprendersi il potere e deve fronteggiare la moglie Veronica che alla fine lo lascia. E’ stato scritto che è un film sulla vitalità di un uomo che non accetta il declino e il tramonto. O sul Berlusconi che è in noi, anche se non abbiamo la dentiera. E’ anche questo, senz’altro, ma innanzitutto è il film che tenta (è il mestiere di Sorrentino) di smontare la sua mitologia. Toni Servillo è meraviglioso, non intende farci dimenticare che sta rappresentando Berlusconi (è cioè un attore, una finzione), mentre l’autore mette in bocca a Veronica e al banchiere-socio (Mediolanum) Ennio Doris tutto il male e tutto il bene che si può dire di lui. Il dialogo di Silvio con Veronica e la vendita di un appartamento ad una signora scelta a caso sull’elenco telefonico sono due momenti di grande cinema. Il resto è tutto già visto, lo ha già fatto Scorsese, e la tragedia di questo uomo ridicolo che la sinistra ha mantenuto al potere per 20 anni non si descrive facendo vedere le macerie dei nostri terremoti (chiedere dal 1994 che fine ha fatto la legge sul conflitto di interessi).

L’UFFICIALE E LA SPIA (2019) di Roman Polanski. Il caso Dreyfus del 1895 con l’ufficiale dell’esercito francese Jacques Piquart che scopre per caso come sia falsa l’accusa di tradimento, a favore dei tedeschi, dell’ufficiale ebreo Alfred Dreyfus. Un film senza luce e sole, di attori (Jean Dujardin, Louis Garrel, Emmanuelle Seigner) diretti da un grande maestro. Polanski è sempre secco, senza fronzoli, essenziale. Tanti registi che amano volteggiare con le carrellate e i droni e le macchine a spalla per far vedere che ci sono e sono Autori, dovrebbero ricordarsi talvolta di lui. La maledizione dell’antisemitismo e le cose più difficili per gli uomini, il senso del dovere e saper ammettere gli errori. Storie vecchie? No, attualissime, basti pensare in Italia al caso Cucchi e al caso della povera Serena Mollicone. “Questo è l’esercito” gli dice un ufficiale e Piquart risponde “No, questo è il suo esercito, non il mio”. Polanski è come l’Emile Zola raffigurato nel film, dice una sola battuta e assiste impassibile alle menzogne.

L’ULTIMA NOTTE DI AMORE (2023) Andrea Di Stefano, romano, 1972, al suo terzo film da regista fa centro. Tre attori, Favino (Franco Amore),  Linda Caridi (la moglie), Antonio Gerardi (il suo cugino), bastano per imbastire un action decente nella metropoli Milano. Ci sono i calabresi, moglie e cugino, e i cinesi. Favino nel suo personaggio migliore, il cane bastonato, è credibile e finalmente ci sono scene girate con l’elicottero e non con i droni. Senza spendere molto si può fare cinema e non tv.

L’UOMO FEDELE (2018) L’attore Luis Garrel dirige la sua compagna Letizia Casta in un film scritto con lo sceneggiatore di Bunuel Jean-Pierre Carriere. Un film imperdibile per chi ama i film francesi che nei primi minuti presenta questa situazione: una donna annuncia al suo compagno che è incinta, non è lui il padre e sta per sposare il padre del suo bambino. Nel corso degli anni questo bambino diventerà centrale nella storia che assumerà contorni “gialli”. Per chi ama i francesi e Letizia. (su Amazon)

L’UOMO SUL TRENO (2018) di Jaum Collet-Serra. Non mi piacciono i film d’azione, tranne la saga di Jason Bourne, perchè sono film che diventano videogiochi o fumetti. Se il protagonista viene massacrato da un energumeno e invece di essere ricoverato si alza e claudicante continua la sua azione, perdo la pazienza. Succede anche in questo film ma Liam Neeson fa B movie senza scendere al livello di Nicolas Cage. Insomma, un film che tranne una parte inverosimile, si fa seguire per la dose di suspence che riesce ad introdurre.

LUTHER, VERSO L’INFERNO (2023) In 5 stagioni Luther si è rivelata una delle serie inglesi (showrunner Neil Cross) meglio costruite del panorama televisivo, facendo conoscere Idris Elba come una vera star. Ora il film sembra preoccupato di voler dare al pubblico ciò che desidera, un cattivo memorabile (Andy Serkis) e un notturno thriller con sequenze pulp e momenti raccapriccianti. I personaggi  non hanno psicologia e soltanto nel finale la tensione si accumula creando la curiosità di come possa sciogliersi. Chi come me ha amato la serie rimane un pò deluso, ma nella storia si ricorda il mostro, una sorta di hacker milionario che adesca le sue vittime dopo averle spiate grazie a webcam e internet, per poi ricattarle. I segreti di ciascuno sono a rischio?, tutto qui?

MAESTRO (2023) Scritto (con Josh Singer), diretto e interpretato da Bradley Cooper, è “il racconto di una dualità profonda di Leonard Bernstein che coesiste in nome della libertà creativa e personale: performance coinvolgente e composizione solitaria, estroversione pirotecnica e tristezza interiore, etero e omosessualità”. Cooper non tratta per niente il processo creativo, gli interessa solo il rapporto coniugale fra Leonard e Felicia in due parti, la prima in bianco e nero e la seconda a colori. Magari vorrebbe essere Alfonso Cuaron, ma la sua recitazione del genio con la sigaretta sempre attaccata alla bocca che non fa sentire neppure bene quello che dice, è indisponente. Il personaggio di Felicia, interpretato da Carey Mulligan, nella seconda parte non è più l’anima gemella di Leonard ma moglie rancorosa e ostile. Fatto per vincere Oscar, è un film che non rivedrei. 

MALCOM & MARIE (2021 su Netflix ) Sam Levinson gira in 106 minuti un film in bianco e nero con due soli interpreti e un impianto teatrale. Lui è il John David Washington visto in Tenet, lei è la magrolina Zendaya vista nei film di Spider-Man ma anche nella celebrata serie TV Euphoria. I due tornano a casa dopo il successo della prima del film di Malcolm, confidando in recensioni positive. Lei è un’ex tossica, i due stanno insieme da tempo. Nella notte cominciano a sviscerare il loro rapporto, che è anche una relazione  tra un regista nero e un’attrice. In un fiume di parole, con Spike Lee e l’impegno sullo sfondo, pian piano emergono i sentimenti di ognuno e si continua, estenuati, per vedere come va a finire. Autoriale e ambizioso, magari in più giorni è vedibile. 

MANCHESTER BY THE SEA (2016) di Kenneth Lonergan. Due premi Oscar a questo film, al protagonista Casey Affleck e al regista-autore. Lee Chandler è un arrabbiato, conduce una vita solitaria in un seminterrato di Boston, tormentato dal suo tragico passato. Quando suo fratello Joe muore, è costretto a tornare nella cittadina d’origine, sulla costa del Massachusetts , e scopre di essere stato nominato tutore del sedicenne nipote Patrick. La gioventù e le pulsioni del nipote, che ha bisogno di crescere, e ha bisogno di calore umano in una natura dove predominano il freddo e il ghiaccio, provocano crepe nel cuore ormai indurito di Lee. Un film difficile ma che si ricorda.

MANK (2020 su Netflix) David Fincher (1962), il regista di Seven (1995) ci regala proprio su Netflix un’opera in rigoroso bianco e nero che tutti gli appassionati di cinema ameranno come non mai. La sceneggiatura è del 1990 ed è stata scritta dal padre di David, Jack. E’ un biopic sullo sceneggiatore Herman J. Mankiewicz (1897-1953) chiamato a scrivere nel 1941 “Quarto potere” (Citizen Kane) per l’esordio hollywoodiano di Orson Welles. 
La sceneggiatura di Citizen Kane undiventa così l’occasione per riflettere sul ruolo dei media nel XX secolo. Quel film sarà il frutto di un incontro tra due geni, il materiale incendiario dello script assumerà una forma rivoluzionaria. Tutto sommato Fincher non può che sposare l’evidente simpatia di suo padre Jack per il protagonista (un Gary Oldman maestoso) e per le sue rivendicazioni di “sceneggiatore principale” di Quarto potere. Nello stesso tempo però il suo film è pieno di segni wellesiani perchè come avviene in Quarto Potere ci sono traiettorie narrative frammentate che scompaginano ogni rimando al biografico. Lo sceneggiatore ne è consapevole: “non si può restituire l’intera vita di un uomo in due ore, ma solo provare a darne un’impressione”. A Fincher quell’uomo di cinema interessa per arrivare a delineare un mondo intero, ”un mondo dominato dallo spettacolo”, come profetizza Charles Kane (che in realtà è il magnate della stampa William Randolph Hearst). L’America e per estensione l’Occidente ci restituiscono grazie ai Fincher quello che stiamo vivendo, una modernità sempre più mediatizzata che intercetta nel cinema e nei suoi diretti discendenti il campo di forze privilegiato per una guerra delle immagini virale: “puoi fare tutto se hai il potere di far credere che King Kong è alto dieci piani o che Mary Pickford è vergine a 40 anni”. “Se continui a dire cose false alla gente gridandole a lungo è probabile che ti credano”.  

MA RAINEY’S BLACK BOTTOM (2020 su Netflix) di George C. Wolfe, prodotto da Denzel Washington, si svolge quasi interamente in un pomeriggio del 1927, in uno studio di registrazione di Chicago nel quale la celebre cantante Ma Rainey – realmente esistita, nota anche come la madre del Blues – sta incidendo un nuovo album di inediti. Tra questi la canzone Ma Rainey’s Black Bottom. Ad accompagnarla la sua storica band, insieme a una new entry: il talentuoso cornettista Levee il cui desiderio di affermarsi con le proprie idee innovative crea tensioni nel gruppo.
George C. Wolfe sceglie di riproporre quasi intatta in un film la meravigliosa pièce del 1982 di August Wilson da cui nasce il film. Un cast eccezionale tra cui spiccano le star principali: Chadwick Boseman (Levee) e Viola Davis (Ma Rainey).
Boseman (1976-2020) che nei panni di un rabbioso ventenne offre un’interpretazione incredibilmente energica e sopra le righe, ha girato il film nelle ultimissime fasi della sua malattia terminale (è morto ad agosto 12 giorni dopo la fine delle riprese).
A rubare però la scena è un’incredibile Viola Davis, che trasformata da un superbo make-up in una corpulenta matrona del blues dai modi ispidi e imperiosi, offre una performance impossibile da ignorare per gli Oscar 2021.

1917 (2020) Sam Mendes dopo quattro anni da 007 Spectre scrive e dirige questo film bellico con una trama semplice: 6 aprile, 1917. Blake e Schofield, giovani caporali britannici, ricevono un ordine di missione suicida: dovranno attraversare le linee nemiche e consegnare un messaggio cruciale che potrebbe salvare la vita di 1600 uomini sul punto di attaccare l’esercito tedesco. Il fatto è che la storia viene raccontata in 110 minuti (l’azione dura invece 24 ore) con un unico incredibile piano sequenza (come in Birdman) in cui lo spettatore si accorge solo di un unico stacco (buio-giorno). Tranne un momento  all’inizio del secondo tempo in cui il film sembra un videogioco (nella città distrutta), lo spettatore segue in trincea e a piedi i due protagonisti con una tensione e una emozione che si ricordano.

MISSION IMPOSSIBLE-FALLOUT (2018) 147 minuti velocissimi per il sesto film della serie, con protagonista Tom Cruise nei panni dell’agente della IMF Ethan Hunt. Il nome da memorizzare è il regista e sceneggiatore Christopher McQuarrie (1968), autore degli ultimi due episodi (oltre che la garanzia di JJ Abrams tra i produttori). Per me, il migliore film di una saga cominciata da De Palma. Cerco di dirlo in breve. Questo genere di film è una sommatoria di scene d’azione dove tutto si gioca con la location e la potenza delle sequenze. Se però il tutto non viene governato da un autore-sceneggiatore, abbiamo videogiochi meccanici. In Fallout  invece  c’è una trama che finanche io riesco a padroneggiare. Fate così, godetevi il film e poi andate su youtube a vedere “mission impossible fallout behind the scenes”. Capirete come realizzano film come questo, con Tom Cruise che non usa stunt man, si frattura una caviglia, guida auto e moto,e si lancia davvero da un aereo. Comunque la scena del combattimento nel bagno a me sembra di una perfezione assoluta. Tra gli altri interpreti del film Simon Pegg e Alec Baldwin mi fanno impazzire sempre. Sulla trama vi dico che se voi vi perdete le chiavi di casa Ethan stavolta perde tre nuclei di plutonio. E’ un Hunt stanco, stressato, che dorme poco, ma fedele ai suoi amici e alla sua etica. Questo film è vivamente sconsigliato a chi ama il cinema di Ozpetek e Pupi Avati.

MISS MARX (2020) Susanna Nicchiarelli (1975), laureata in filosofia, ha cominciato con Nanni Moretti e poi nel 2017 a Venezia presentò “Nico, 1988”. Il suo secondo film è incentrato su  Eleanor Marx, detta Tussy, la figlia minore di Karl Marx, la sestogenita. Traduttrice, intellettuale, militante socialista, Eleanor è stata tra le prime donne a partecipare alle lotte operaie, a lottare per i diritti delle donne e per l’abolizione del lavoro minorile.  Nel film ha l’espressione malinconica di Romola Garai, infagottata in abiti pesanti e alle prese, dopo l’ingombro di un padre amorevole ed importante, con un amore tormentato.  Lui è  Edward Aveling, un commediografo e pure militante, ma innanzitutto ingrato, scialacquone e fedifrago. Al cuor non si comanda, anche se si possiede un cervello enorme, e quindi Tussy si mantiene questo imbecille non dotato, come lei dice, di alcun senso morale. La Nicchiarelli racconta con una grande padronanza della scena, usa molto la macchina dall’alto e interrompe il melodramma con l’irruzione di musica punk. La scena più bella è quella di un ballo da sola di Tussy libera del cappotto sulle note di una cover di Dancing in the Dark di Springsteen. Al contrario quando parla in macchina allo spettatore di questioni sindacali, è una scelta stilistica che non ho gradito.

MEMORIE DI UN ASSASSINO (2003) Bong Joon-ho (1969), il coreano di Parasite, racconta a modo suo una storia vera ambientata nella provincia coreana degli anni’ottanta, quando anche la parte meridionale della penisola era sottoposta ad un regime autoritario. Si cerca un serial killer che ha ucciso donne dopo averle violentate, la polizia locale si rivela subito inadeguata. Cerca subito tra i disadattati della prefettura e cerca di ottenere  confessioni con la violenza; anche un detective della grande Seul, venuto a dar man forte, e abituato a leggere le carte, si allinea quasi subito ai metodi dei suoi colleghi di campagna. Chi è il colpevole?
Forte condanna di Bong al regime di polizia e alla natura pavida di chi è abituato a vivere nella paura, film di un autore che padroneggia tutta la macchina e ha le idee chiare.

MEKTOUB, MY LOVE: CANTO UNO Una spiaggia del sud nella Francia del 1994. Un giovane aspirante sceneggiatore (che è poi l’alter ego del regista) torna a casa in vacanza e osserva per tre ore (preparatevi) i suoi amici e familiari. Abdel Kechicke (1960) è il regista tunisino-francese che nel 2013 si impose a Cannes con “La vita di Adele”, e nei primi cinque minuti sembra voglia ricordarcelo. Ma poi pian piano, attraverso dialoghi realistici e un chiacchiericcio continuo, si scopre che lo sguardo innocente, direi puro, del protagonista Amin (che Kechicke seguirà nei prossimi film) osserva i corpi, e il film diventa per davvero quello che voleva essere nelle intenzioni, un inno alla vita, all’erotismo e al nutrimento. Il destino (significato della parola mektoub) c’entra poco, ma piuttosto sono le pretese dei corpi ad imporsi sia nei ragazzi che negli adulti, quelli che non vogliono rinunciare alla esuberanza giovanile (lo zio Kamel), e quelli che valutano a partire dalle apparenze fisiche. Un film realista, una specie di documentario sui giovani degli anni novanta, sulle loro pulsioni ed esigenze, sui loro desideri, sul sesso che discrimina e accoglie. Qualcuno alla fine si chiederà se tre ore non potevano essere contenute in due, ma vi faccio l’esempio dell’ultima mezzora, tutta girata in discoteca. Se vi estenua e affatica vedere per così lungo tempo cosa succede in quel tempio del divertimento, Kechicke ci potrebbe chiedere: Ma ci siete mai stati, oppure dopo 5 minuti siete usciti, per non vedere e sentire quello che succede? Io, dice Kechicke, non giudico, guardo. 9 di cuore

MIXED BY ERRY (2023) Sydney Sibilia (1981) è il salernitano della saga di “Smetto quando voglio” e dunque i suoi prodotti sono piacevoli e ben girati, visivamente colorati. Il penultimo “L’incredibile storia dell’isola delle rose”, tratto da una storia vera, mi aveva abbastanza deluso, ma quest’altro racconto vero sui fratelli Frattasio di Forcella (Napoli), tratto dal libro di Simona Frasca, è godibile. A metà degli Ottanta tre fratelli che campano di espedienti, aiutando il  padre che vende al mercato bottiglie di finto whisky, si mettono a realizzare compilation musicali su cassette. Come facessero a vendere le cassette con tutte le canzoni di Sanremo il giorno dopo l’esibizione, cioè come si procurassero le matrici originali dei dischi, nel film non viene spiegato. Il commissario Francesco Di Leva sulle loro tracce è una macchietta, d’accordo, ma far passare per spirito imprenditoriale una economia illegale del tutto simile a quella camorrista, è assurdo. “Napul’è ‘na carta sporca” cantava Daniele.

MY WAY  Su Netflix, imperdibile  il documentario sulla vita di Silvio Berlusconi tratto dal libro di Alan Friedman, diretto da Antongiulio Panizzi e prodotto dalla Leone film Group (dei figli di Sergio Leone), oltre 28 ore di registrazione in cui il Cavaliere racconta la sua incredibile vita. Voto 8. Descrivo solo 2 scene che serviranno ai nostri posteri per capire quello che tanti italiani adorano. Nella prima si vede il Cavaliere che dice all’intervistatore, Alan Friedman: «E adesso le faccio vedere – ( a stento trattenendo gli angoli delle labbra) questa sala cult del famoso bunga bunga». Cult è pronunciato cult (e non calt). La seconda è la visita negli spogliatoi con Berlusconi che catechizza l’allenatore del Milan Inzaghi, dicendogli che deve urlare «AAttaccare», davanti ai suoi giocatori. I calciatori di tutto il mondo che ha di fronte lo guardano sgomenti, a metà tra il perplesso e il divertito, mentre Inzaghi è imbarazzatissimo. Il Trump italiano nostro Maestro di Vita, perchè lui sa tutto e ha fatto tutto, visto al cinema ci fa capire che solo un Alberto Sordi diretto da un Rossellini avrebbero potuto raffigurarlo.

MOLLY’S GAME (2018) Il primo film diretto da Aaron Sorkin, grande sceneggiatore di The social network e della serie tv The newsroom, merita di essere visto solo per questo. Ma poi c’è la sua solita scrittura fatta di lunghi intensi dialoghi (più che di azioni) e di voce fuori campo, per raccontare una storia vera. Quella di Jessica Chastain nei panni di una ragazza  che da ex sciatrice olimpionica si ritrova a gestire il gioco clandestino di poker a Hollywood. Il padre, Kevin Costner, è fedifrago e psicologo, due fratelli hanno più successo di lei che pure ha un QI superiore, insomma alla fine Molly forse intende misurarsi con uomini potenti, tutto qui. Grazie ad un avvocato che crede nella sua integrità riuscirà a non essere imprigionata, punita dalla mafia russa o dai numerosi clienti celebri che preservano i loro segreti? Il film merita, ma a me la Chastain non mi affascina mai (Interstellar,The tree of life, The martian…)

MOTHERLESS BROOKLIN – I SEGRETI DI UNA CITTA’ (2019) Edward Norton nell’arco di venti anni riesce a scrivere dirigere e  interpretare una storia tratta dal bestseller di Jonathan Lethem. Nella New York del 1950 il detective privato Lionel Essrog intende vendicare la morte violenta del suo mentoreFrank Minna (Bruce Willis). E’ dotato di una memoria prodigiosa ma affetto dalla sindrome di Tourette, con tic, contrazioni, urla, esclamazioni involontarie. Il personaggio autistico di Hoffman in Rain Man viene subito in mente. Il film è un noir che si segue bene, sullo sfondo di una città che cresce devastando i quartieri poveri, demolendo tutto quello che trova sul suo cammino, con il razzismo istituzionale e una forza dispotica che deride e mortifica la democrazia. C’è molto jazz, una bellissima colonna sonora di Daniel Pemberton, un brano di Thom Yorke, grandi location che il direttore della fotografia Dick Pope illumina con maestria. Pope ha conosciuto Norton girando L’illusionista e anche quel film ci ritorna in mente. Da vedere.

NAPOLEON (2023) Rydley Scott (per me un grande) all’età di 86 anni intende fare quel film che Kubrick non era riuscito a fare. Nelle sale si vede un film di 160 minuti ricavato dalle 4 ore che aveva realizzato. Napoleon è un villain, un delinquente corso, un rompiscatole, un outsider più a suo agio sul campo di battaglia (questione di geometria) che in camera da letto. La sua è una scalata sociale fallimentare perché non è mai davvero accettato nonostante quello che fa, le altre potenze europee non lo sanno né battere né tollerare e però, al primo errore, si alleano per liberarsene. Scott da sempre se ne frega della Storia, qui vorrebbe raccontarci un Napoleone traballante tra patria e Giuseppina ma le psicologie non sono il suo forte. Riesce a costruire grandi scene di battaglia, epiche e serie, e procede per simboli: fa bombardare le piramidi a Napoleone perché è il simbolo perfetto del dominio sull’Egitto, lo mostra in avanscoperta che spia mascherato gli avversari come una vedetta qualsiasi, per simboleggiare il suo metodo e il suo non somigliare agli avversari.

NERUDA è un film molto difficile e sorprendente del cileno Pablo Larrain (1976), già autore di “Jackie” (vedi sopra). E’ un noir dove trovate un poliziotto e un fuggitivo, non è un biopic sul poeta Neruda. Ma i due protagonisti si raccontano come se ciascuno fosse protagonista di un romanzo o un film, come fece Sorrentino con Andreotti.  “Quindi tutto è finzione, trasparenti in macchina, sogni, visioni ed espedienti teatrali”. Insomma Larrain non vuol fare un film su Neruda, che già era uno pseudonimo, ma sul desiderio umano di essere altro. L’inizio è meraviglioso, quando nei bagni del parlamento avviene una battaglia dialettica degna di un film di mafia. Come Jackie Kennedy imbastiva uno spettacolo per la morte del marito, affinchè lo raccontasse e lo tramandasse con la grandezza che lei pretendeva, allo stesso modo i due personaggi tentano di prendere il controllo del film e della loro mitologia. Un film ripeto difficile sulla forza del falso, del simulato, del non verosimile, dove i fatti sono piegati dall’immaginazione e però ti avvicinano al vero.

NIENTE DA NASCONDERE (2005) Il regista austriaco Michael Haneke (1942) vi farà scervellare con le immagini finali e silenziose davanti alla scuola ma una sola cosa posso dire con certezza: per lui non è affatto importante che lo spettatore risolva il giallo. Una spiegazione ve la darete e fatevela bastare. Quello che a lui interessa è l’apologo morale, universale e inquietante, che va ben al di là della coppia di coniugi della sofisticata borghesia parigina, immersa nei libri ma incapace di riconoscere i propri peccati, preoccupata della reputazione più che dei rapporti veramente importanti. Per quanto cerchiamo di nasconderli,  tutti i mali non potranno essere rimossi perché la Storia, prima o poi, li farà tornare a galla, con tutto il carico di dolore che hanno provocato e che continueranno a provocare.
La verità si fa strada, anche se si tenta di dimenticarla, di rimuoverla, di nasconderla. Gli adulti continuano a mantenere i loro segreti, affermano di non ricordare bene, ma il male fatto, non solo in Algeria ma in tutto il mondo, continua a produrre conseguenze. E il tempo che passa non lenisce nulla, non cura ferite purulenti, non fa dormire bene e anche la coppia o il matrimonio scoppiano. Forse i più giovani tra loro riescono a parlare di più e quindi dal dialogo potrà derivare rispetto e serenità mentre gli adulti (qui i magnifici Daniel Auteuil e Juliette Binoche) restano arroccati sulle proprie posizioni e chiusi nel loro egoistico individualismo (che sin dalla tenera età fa i suoi danni). Un film senza musica, lento, con immagini fisse che talvolta si scopre provengono da una telecamera nascosta. Certo, a chi non piacciono i francesi, gli verrà il nervoso.

NYAD (2023, su Netflix) Tratto dall’autobiografia “Find a Way” di Diana Nyad, il film racconta la vera storia dell’atleta nota per le sue maratone marine, che l’hanno portata ad essere l’unica persona ad aver percorso a nuoto l’oceano che divide Cuba dalla Florida. Circa 52 ore in mare aperto, trascinata da correnti, circondata da cubomeduse fatali e squali affamati. Un film come questo su un’impresa impossibile non è roba da documentaristi quali sono i registi statunitensi Jimmy Chin e Elizabeth Chai Vasarhelyi. Annette Benning aspetta  un Oscar da 30 anni e qui dà tutta se stessa insieme a Jodie Foster che raffigura benissimo la sua amica di una vita. Un film dove manca la psicologia ai personaggi e quindi basato solo su logoranti nuotate. Allo spettatore alla fine giunge la lezione. Prima cosa: Mai mollare. Mai e poi mai. Seconda cosa: Non si è mai troppo vecchi per inseguire i propri sogni. Terza cosa: Sembra uno sport solitario, ma ci vuole una squadra.

NOI (2019) di Jordan Peele. Confesso che io (ma non sarò il solo) dopo la visione del film avevo capito la metà. Le certezze sono che il secondo film di Peele, 40 anni, ex comico, dopo “Get out” (Scappa!) lo conferma come un autore formidabile. Perché sa girare, e tiene tutto sotto controllo, dalla musica alla recitazione, alle citazioni, alla fotografia. Certo, “Get out” era, per me, più divertente e dissacrante, una presa in giro del “politically correct”, e gli ultimi 20 minuti erano horror. In questo secondo film Peele non ci parla di “noi”, ma di “loro”, gli altri, e di tutto ciò che ci mette paura. Chi siano questi altri, le nostre “ombre”,  non è proprio chiaro, i diversi, i più poveri, i terroristi, o forse tutto insieme. Perché, almeno questo è il mio parere, ognuno di noi non è che abbia paura o tema una sola cosa. Anzi, più ci si evolve e più le nostre paure aumentano, e la stessa tecnologia (si veda nel film la musica che parte con l’ordine dato alla Alexa di turno) non rassicura ma appunto intimorisce. Ecco la storia. Una bambina a una fiera entra da sola in una casa degli specchi e incontra quella che forse è un’altra come lei. Decenni dopo Adelaide è adulta, ha una bella famiglia con due figli, ma è tormentata  dal suo passato e sconvolta da una serie di inquietanti coincidenze; sente che qualcosa di brutto sta per accadere alla sua famiglia con cui va a passare qualche giorno al mare proprio in quel luogo dell’infanzia. Di notte infatti riceveranno la visita violenta di 4 sosia, in tutto e per tutto uguali a loro ma dall’atteggiamento primitivo, sociopatico, pericoloso. Ognuno di noi è Adelaide, il passato ci tormenta e non è che si viva spensierati…io ho capito questo. Ma fatevi spiegare tutto il resto, perchè chi sono  i sosia, cosa vogliano e cosa succede davvero è tutto nel film. Ci vuole molta attenzione.

NOMADLAND (2020 su Disney plus) Dopo aver perso il marito e il lavoro durante la Grande recessione, la sessantenne Fern lascia la città industriale di Empire, Nevada, per attraversare gli Stati Uniti occidentali sul suo furgone, facendo la conoscenza di altre persone che, come lei, hanno deciso o sono state costrette a vivere una vita da nomadi moderni, al di fuori delle convenzioni sociali. L’esatto contrario della freddezza di “Into the Wild” di Sean Penn dove l’inquietudine di un giovane benestante lo portava a viaggiare a piedi per due anni sino all’Alaska. Qui invece la regista Chloé Zhao sta addosso ad una strepitosa Frances McDormand e per tutto il film cerchiamo di capire cosa la spinge a vivere in un furgoncino e a spostarsi facendo lavori precari (potrebbe stare accanto ad una sorella o ad un amico). Il dolore, il lutto, i ricordi, in un ritratto di personaggi dolenti eppure forti che non ce la fanno più a vivere come prima. Le musiche di Einaudi, i paesaggi, un film che sembra un documentario, ma ci caschi dentro e non lo dimentichi più

NON SUCCEDE, MA SE SUCCEDE (2019) di Jonathan Levine. Charlize Theron è bellissima e intelligente, non dà mai patacche ai suoi ammiratori. Perciò nonostante il solito titolo idiota dei distributori italiani ho visto questa commedia che è carina. Il protagonista maschile è Fred Flarsky (Seth Rogen), un giornalista disoccupato e moralmente integerrimo, il quale ad una festa scopre che Charlotte Field (la Theron), Segretario di Stato che punta a diventare la prima Presidente donna degli Stati Uniti anni prima era stata la sua babysitter. Il film parte col ritmo del binomio imbranato-bellissima ma poi diventa anche stuzzicante in qualche riflessione sul compromesso in politica.  Infatti la sceneggiatrice Liz Hannah che ha scritto il film con Dan Sterling  è anche autrice dello script di The Post .

NOTIZIE DAL MONDO (2021 su Netflix) Il regista britannico Paul Greengrass (1955) (a me caro per i film con Jason Bourne) dirige Tom Hanks che fa l’esordio in un western. Il capitano Kidd che legge le notizie spostandosi nel Texas del 1870 aiuta una ragazzina tedesca a tornare dagli zii dopo che la sua carovana è stata sterminata. La guerra è terminata da cinque anni, Kidd ha perso ma si muove in una terra  da conquistare mentre per le tribù dei nativi è un tutt’uno con il cielo. Nel paesaggio tipico dei western Tom Hanks, l’attore più espressivo del mondo, riesce a comunicare con lo sguardo. Quando parla lo fanno doppiare di nuovo da Chevalier  con la voce di un ragazzo. Due ore per chi ama il genere.

NO TIME TO DIE 007 (2021)  A me Daniel Craig non è mai piaciuto. Troppo basso e rozzo.  Il nuovo James Bond ora piange (addirittura) e consola le donne. Il gentiluomo Connery che poteva permettersi di dare manate sul sedere a una signora e allontanarla dalla stanza, insomma, non esiste più («Di fatto, il personaggio interpretato da Sean Connery», ha spiegato il regista Fukunaga  «era uno stupratore»). I parametri sono diversi e pian piano la spia di una volta cambia pelle. Il tempo passa. Dopo cinque film finisce dunque l’avventura di Daniel Craig, chiamato a chiudere un lavoro iniziato nel 2006 e segnato da alti (Casino Royale, Skyfall) e bassi (Quantum of Solace, Spectre). Bond ritorna dopo 25 film e 59 anni preparando il dopo Craig.  Cary Joji Fukunaga, primo regista americano, arriva dalla difficile eredità di Sam Mandes che ha diretto i due Bond precedenti. Il primo è il mio preferito in assoluto (Skyfall, 2012) perchè c’è l’accoppiata regia-fotografia di Mendes & Roger Deakins (il genio dietro “1917”).  Il film, drammatico e cupo ma anche tenero e divertente,  gioca con i generi, comincia (la fotografia è dello svedese Linus Sandgren, premio Oscar per La La Land) con un tono a metà fra l’horror e il noir scandinavo, per poi immergerci nelle immancabili atmosfere tra Matera, Giamaica, Cuba, Inghilterra, Norvegia. Per giungere alla sperduta isoletta tra Russia e Giappone dove regna un moderno Dr. No, l’über-villain poco carismatico di  Safin (Rami Malek), il cui piano non l’ho capito per nulla. Ma è tutta la trama dove i passaggi logici non contano tanto, perchè al centro c’è il tempo che passa e il ruolo di Bond nel mondo moderno (le chiacchierate con M sui tempi che sono cambiati). Ben 163 minuti che scorrono via con personaggi adorabili, dove spicca Paloma, la divertente agente cubana interpretata da Ana de Armas. Quando Nomi, la 007 che ha preso il suo numero dice al pensionato  Bond  “Il mondo è andato avanti”, lui sa che “il mondo non cambia mai”. Infatti l’arma del nemico è in tutto e per tutto un virus. Per altro prelevato a forza in un laboratorio dove si scherza di Ebola e Vaiolo. “Il nemico è nell’etere” dice Bond. 

NOTTI MAGICHE (2018) Pensavo che Paolo Virzì con “Il capitale umano” avesse fatto il salto internazionale. Invece con questo film e quello precedente americano ha scelto due soggetti ormai stantii: il viaggio on the road in America, un classico, e adesso, il film sul cinema ambientato a Roma. Stracult. Tre sceneggiatori (Virzì, Livorno; Piccolo, Caserta; Archibugi, Roma) si sono applicati per scrivere un film sulle loro storie autobiografiche. Il risultato a me è piaciuto, Virzì ha classe, non può essere paragonato ad un Paolo Genovese qualsiasi, non si ripete come un Muccino, e tuttavia non è Ettore Scola. Non basta un grandioso Giannini, non bastano tre giovani che via via impari ad apprezzare, non basta una storia dove quelli come me indovinano a chi alludono i vari personaggi. Il fatto è che non se ne può più delle trattorie romane, del generone romano e delle terrazze e degli appartamenti storici, così come non se ne può più dell’America scoperta in viaggio. Voglio dire: i film sul cinema possono piacere a chi sa chi fossero Ennio De Concini, o Furio Scarpelli. Ma per il pubblico sono “perfetti sconosciuti”. Infine, il calcio in questo film è un semplice cavolo a merenda.

ODIO L’ESTATE (2020) di Massimo Venier. Aldo Giovanni e Giacomo tornano sui loro passi e si affidano (dopo averlo ingiustamente accantonato) al regista dei loro primi successi. Venier si autocita talvolta, ma confeziona un film che una volta era un “genere”, il film sulle vacanze estive (da Walter Chiari e Marisa Alassio al Virzì di “Ferie d’agosto”). In una riconoscibilissima Puglia tre coppie e tre figli in vacanza pian piano si conoscono e la diversità riesce a convivere. Si sorride, le attrici sono brave, e i tre dialogano come ai tempi belli, soprattutto in auto. Per le musiche in un film si affidarono a Samuele Bersani, in questo a Brunori sas, non capisco perchè.

OMICIDIO NEL WEST END (2022) L’attore Sam Rockwell (come Wenzel Washington) non dà mai bufale allo spettatore per cui nei panni di un poliziotto, accompagnato da Saoirse Ronan, l’agente Stalker zelante novellina che lo accompagna, si muove tra il mondo del teatro e quello del cinema. Trattasi di un film su un film tratto da una commedia tratta da un racconto tratto dalla realtà, e alla fine compare pure Agatha Christie. Si prende in giro il vizio di saltare a conclusioni affrettate dell’agente Stalker, che è lo stesso di tutti i lettori di gialli. Tom George e Marck Chappell, regista e sceneggiatore, esperti di “comedy” televisiva, offrono un film brillante come un classico, senza rinunciare ad aggrovigliare la trama gialla quanto basta perché lo spettatore ci provi gusto. 

OPPENHEIMER (2023) La domanda che mi facevo durante le tre ore di proiezione era la seguente: questo film con la musica di Morricone lo avrei apprezzato di più? La colonna sonora di Ludwig Göransson è debordante e quando Nolan nell’ultima parte la usa per rafforzare tensione e pathos è francamente insopportabile. A me poi questo duello (o bipartizione) tra Strauss e Oppenheimer (Robert Downey Jr. e Cillian Murphy) nel primo film biografico di Christopher Nolan ha ricordato troppo Salieri e Mozart. Un film di grande impatto che non so ai tanti giovani accorsi a vederlo (il marketing Barbenhaimer sarà studiato negli anni) cosa lasci nel profondo. La storia di uno che non si è mai pubblicamente pentito per l’uso della bomba atomica su due città giapponesi, ed è capace di rischiare “con probabilità vicine allo zero” la distruzione del mondo con una bomba, per me era adatta a Kubrick. “E’ meglio che la facciamo noi che i tedeschi”, inoltre, è un discorso tutto da fare. Uno dovrebbe uscire da un film del genere terrorizzato e segnato per sempre, ma non mi pare. Ce la prendiamo sempre con i politici ma forse gli scienziati sono meglio? Il meglio di tutti è Einstein.

PANAMA PAPERS (2019) Steven Soderbergh (1963) è quello di “Sesso, bugie e videotape” o di “Traffic”. Qui con tutta l’ironia e la classe di cui è capace assolda Meryl Streep, Oldman e Banderas per spiegare quanto è successo davvero nel 2006. In ogni opera artistica la forma è importante quanto il contenuto. Solo che i critici quando ti dicono che  un film è  “alla Michel Moore” intendono suggerire che prevale il contenuto didascalico. Ma Soderbergh ha vinto Oscar e premi, non è uno qualsiasi, per cui ti spiega come farebbe il migliore dei docenti l’origine della moneta, dalle banane alle mucche al “credito” che ti consente di acquistare beni senza avere la moneta in mano. Sino all’esigenza per chi ha molto danaro di volerlo nascondere al fisco e ai creditori. Però poi racconta una storia che inizia quando Ellen Martin perde il marito in un tragico incidente durante una crociera sul Lake George. Convinta di poter essere indennizzata dall’assicurazione scopre che ciò non è possibile a causa di una lunga serie di scatole cinesi, gusci vuoti, creati da uno studio legale, Mossack Fonseca, proprietario di 250mila società offshore, con sede a Panama. Il racconto alterna le indagini di Ellen con le considerazioni dei due soci e il tutto, dopo 90 minuti consente al più sprovveduto degli spettatori di capire teoria e pratica dell’evasione fiscale nonchè la diffferenza con l’elusione fiscale. Siccome il film è impeccabile, curato in tutti gli aspetti, fotografia, grafica, musica, invenzione, e si avvale di tre attori magnifici, ne sono rimasto estasiato. Lo consiglio anche a tutti quelli  che non sanno nulla dei cosiddetti Panama Papers, i dossier confidenziali creati dalla Mossack Fonseca nei quali figuravano tutti i nomi degli azionisti, anche capi di stato, i quali volevano nascondere i loro beni al controllo statale.

PARASITE (2019) Bong-Joon-Ho (1969) è lo Spielberg sudcoreano e con questo capolavoro ha vinto a Cannes. La prima parte è divertente, una famigliola che vive in un tugurio sotto la strada cerca di sbarcare il lunario e solo con l’astuzia riuscirà, uno alla volta, a far lavorare i suoi quattro componenti, come se fossero perfetti estranei, al servizio di una ricca famiglia di un manager informatico. Quando una sera la famiglia povera rimasta sola nella villa stupenda sta finalmente assaporando come vivono i ricchi, alla porta suona la vecchia governante. Da questo momento la commedia diventa nera e la tensione sale in un crescendo incredibile. L’atmosfera talvolta è quella di Jordan Peele talvolta di Tarantino, ma c’è chi ha pensato a  Bunuel. Ad un certo punto nella colonna sonora irrompe “In ginocchio da te” di Gianni Morandi e la storia diventa universale, tra quelli che vivono sopra e quelli che vivono sotto. Un film sulle scale e sui limiti che non si devono superare, pensate a Icaro. Speranza non c’è, si può forse sognare ma speranza ormai non c’è più. Un film che ci parla delle nostre vite, con realismo, perchè è vero che si vive meglio senza fare piani, così non si subiscono delusioni, ma niente si può controllare. Neppure noi stessi. La domanda dello spettatore alla fine è inevitabile: chi sono i parassiti?

PINOCCHIO (2019) Matteo Garrone ai  miei occhi è un ottimo regista-pittore al quale interessa in egual misura la realtà e la favola, che si alternano nel suo cinema. Sa anche far recitare gli attori e quindi stavolta vedrete recitare finanche Ceccherini o un Benigni mai così misurato. Perchè riproporre nel 2019 Collodi (forse sopravvalutato) con il suo burattino che diventa bambino dopo essere stato educato? Secondo me Garrone da quando ha visto quello sbagliato di Benigni si è convinto che il mondo aspetti ancora la nostra favola più famosa raccontata bene da un italiano. Vedremo se sarà così. Poi il successo internazionale del messicano Guillermo del Toro con i suoi mostri simbolici ha incoraggiato un artigiano come Garrone: qui c’erano tutti i personaggi sino alla balena e al tonno da inventare con gli artisti di Makinarium. Il risultato per me è buono ma non esaltante perchè il prodotto non emoziona abbastanza. Da evidenziare la colonna sonora del pisano Dario Marianelli (1963) che è già un artista internazionale riconosciuto.

PINOCCHIO di GUILLERMO DEL TORO (2022) Il regista messicano ha dovuto aspettare 15 anni per fare questo film animato in stop-motion con Mark Gustafson. Una riflessione sull’amore, sul potere, sulla libertà. Sul lutto. Il film Disney del 1940 lo impressionò nel profondo: “per la prima volta ho sentito quello che di fragile e terribile si prova da bambini. In tutta la letteratura saranno al massimo una decina i personaggi capaci di essere veramente universali: Pinocchio, appunto, e poi Frankenstein, Tarzan, Sherlock Holmes. Pochi altri”. È una storia di padri e figli, uno dei perni del fascismo è la figura paterna, il paternalismo come forma di dominio ed educazione all’uniformità e al conformismo. La nostra storia è costellata di padri e figli: Gesù Cristo in chiesa è figlio di un figlio che non vuole deludere il padre e che per questo viene crocifisso. Geppetto e Pinocchio, certo. E il personaggio del Podestà, il padre di Lucignolo. Diverse rappresentazioni di paternità, tenera e anche terribile. Per me era importante portare la vicenda in un momento della storia d’Italia in cui il potere pretendeva obbedienza assoluta”. « Il burattino è l’unico che si rifiuta di seguire le regole mentre tutti gli altri obbediscono. Ai miei occhi, invece, è la disobbedienza a essere una virtù necessaria, soprattutto oggi. Volevo dire che Pinocchio deve essere amato senza cambiare. Pretendere che qualcuno si trasformi come requisito per amarlo mi sembra un ricatto terribile. Inaccettabile. E abbiamo pensato fosse bello mostrare come Geppetto, Grillo e Spazzatura, cambino per amore di Pinocchio».

PLAY (2011) Lo svedese Ruben Östlund parte da un fatto vero, la vicenda di una baby-gang che portò a compimento una quarantina di furti con il cosiddetto “numero del fratellino”, ovvero incolpando le vittime designate di possedere un telefono cellulare di proprietà del fratello di uno di loro. Qui sono dei ragazzi neri che adocchiano tre ragazzini bianchi benestanti e cominciano una manipolazione, un gioco di ruolo, per cui il ladro accusa implicitamente l’innocente di furto e sfrutta la sua naturale rivendicazione di innocenza per intrappolarlo definitivamente, alla ricerca della “verità” lungo la città.
In questo gioco di ruolo in cui la tensione ti sfibra, non capisci bene chi sono i più forti. Ostlund, che sembra girare un documentario, dirige alla perfezione, con lunghissime inquadrature fisse, i giovani interpreti che recitano come se fosse una candid camera. La società ha creato i ruoli in gioco, chi sono i buoni e chi i cattivi? Chi i ricchi e chi i poveri? Chi i vessati? Chi gli ingenui?

POVERE CREATURE (2023) Il regista greco Yorgos Lanthimos (1973) è ormai regista amato dai Festival, dalla critica, ed anche dagli attori perchè sembra che lasci loro molta libertà rispetto al copione. Il suo cinema dopo il periodo greco è cambiato con The lobster e si basa sulla capacità di evocare fastidio e disagio, creando situazioni improbabili e paradossali all’interno di scenari molto ordinari.
Questo film costato 35 milioni e scritto con Tony McNamara è incentrato in un mondo di fantasia sul sesso come strumento per soggiogare o essere soggiogati. Mostra cosa può diventare una donna senza sensi di colpa per i propri desideri e che non ha mai sviluppato un senso di sudditanza verso gli uomini. Il problema è che mentre in “La favorita” lo spettatore partecipava emotivamente alla lotta tra le due dame di compagnia (Emma Stone e Rachel Weisz), in questo rimane freddo perchè il personaggio di Bella (Emma Stone) si muove per l’intero film come un automa. Non è mai in pericolo e sa come districarsi in ogni frangente. Questa Alice nel paese degli uomini idioti ( il dandy Mark Ruffalo è una macchietta) non emoziona e quindi Lanthimos con tutta la sua potente macchina di immagini, costumi,  ambienti, uso delle lenti deformanti, con il trucco e la musica molto presente, incuriosisce, diverte, ma finisce per risultare freddo. Che poi è l’accusa che facevano a Nolan, il quale al contrario con Dunkirk e Opphenaimer l’ha rispedita al mittente. 

QUAGGIÙ QUALCUNO MI AMA (2023) Mario Martone replica Tornatore/ Morricone e ci spiega l’ arte di Troisi. Operazioni che riescono meravigliose perché pensate da Autori per il cinema e non per la TV, dove invece l’ artista viene ricordato dai soliti noti. Qui sono scelte rilevanti le assenze, mancano i sodali Arena e De Caro e gli amici, ma c’è Anna Pavignano, coautrice di tutti i film. Per la prima volta spiega il processo creativo e mostra le carte segrete. Cinema, Truffaut, la televisione è falsità.

QUELLA NOTTE A MIAMI (2020 su Prime Video) di Regina King.  Miami, 25 febbraio 1964, a ventidue anni Cassius Clay diventa campione mondiale dei massimi battendo Sonny Liston.  Con gli amici più cari sembra voler festeggiare tutta la notte e invece si ritrova in una buia stanzetta di un motel a parlare. Ci sono il re del soul Sam Cooke, il campione di foootball Jim Brown e Malcom X, uno dei più grandi e discussi leader afroamericani del XX secolo, che morirà l’anno successivo. All’origine del film c’è l’omonima pièce di Kemp Powers, qui anche sceneggiatore del film, che affronta temi essenziali, il rapporto tra impegno pubblico e benessere privato, e ancora attualissimi, come il ruolo che si può chiedere alle celebrità per sostenere una causa politica. Malcom vorrebbe che i suoi tre amici, ognuno «campione» nel suo campo, usasse la propria popolarità per difendere la causa nera con la stessa radicalità che lui mette in campo. Ma nessuno dei tre sembra davvero disposto a seguirlo.  Quando Sam Cooke è costretto da Malcom X ad ascoltare “Blowin in the wind” di Dylan,  il film ha il suo punto più alto. Nel dicembre dello stesso anno Sam Cooke con la sua voce da seta, il Frank Sinatra dei neri, morirà in circostanze mai chiarite non prima di aver scritto “A change is gonna come” la sua canzone testamento, una preghiera, poetica e piena di fede. La prima di Regina King regista (dopo una lunga carriera da attrice con un Oscar per Se la strada potesse parlare e una gavetta come regista tv) è riuscita perchè appare chiaro il messaggio del testo, che la lotta per i diritti dei neri passa per prima cosa attraverso il coraggio delle proprie scelte personali.

QUI RIDO IO (2021) Eduardo Scarpetta famoso per la sua ‘maschera’ (Felice Sciosciammocca) non poteva non interessare Mario Martone, ottimo autore napoletano sia di cinema che di teatro. Siamo agli inizi del Novecento e  Martone assume il punto di vista di Eduardo De Filippo, appena promosso dallo “zio” al ruolo di Peppiniello.  Figliastro o nipote, Eduardo osserva la famiglia allargata di Scarpetta che tradiva la moglie Rosa De Filippo con la nipote acquisita, Luisa De Filippo. Due famiglie parallele, tre figli legali da una parte e tre figli illegali dall’altra (Titina, Eduardo e Peppino De Filippo), educate per incontrarsi a teatro. Ma al centro di questo film che Martone dirige con un discreto budget (il rischio era di farne un prodotto televisivo) sta la causa con D’Annunzio per la parodia di “La figlia di Iorio”. Servillo bravo ma truccato abbastanza alla Berlusconi. 

RICHARD JEWELL (2019) Clint Estwood tratta la vicenda vera di una guardia di sicurezza che lavora nel 1996 ad Atlanta.  Non solo con il suo coraggio limita i danni di un’esplosione causata da una bomba durante un concerto in un parco, ma poi viene ingiustamente accusato dall’Fbi di essere l’attentatore sulla base di nessuna prova ma di un ipotetico ritratto psicologico. Con l’aiuto di un avvocato (che è il bravissmo Sam Rockwell), sua vecchia conoscenza, si batte per la sua innocenza, sia contro gli idioti dell’FBI ma anche contro la stampa che, pur essendo a conoscenza della sua innocenza, lo perseguitano distruggendo la sua vita e quella della madre. Estwood è come al solito asciutto e va diritto al punto, solo che la storia si segue bene ma è senza mordente. Infatti la lotta tra un povero cristo e una massa di cretini non entusiasma, prevale la commiserazione (su Now tv). 

RIFKIN’S FESTIVAL (2021) Stavolta penso ai produttori di Woody Allen, per esempio l’italiano Lorenzo Mieli: perchè produrre un film diretto soltanto a cinefili e appassionati? Siamo forse tanti da giustificare l’investimento? Allen la fa facile. Si sceglie un posto vacanziero (qui S. Sebastian in Spagna), gira con quattro attori e affida al geniale Storaro la fotografia di un film pieno di citazioni di altri film: Orson Welles (Quarto potere); Fellini (8 e mezzo); Bunuel (L’angelo sterminatore); Bergman (Il settimo sigillo); Godard (Fino all’ultimo respiro); Truffaut (Jules and Jim); dulcis in fundo, Claude Lelouch (Un uomo, una donna). Woody è la replica di se stesso, ma a 86 anni trova ancora chi lo produce. 

ROCKETMAN (2019) Il regista Dexter Fletcher dopo il successo inaspettato di Bohemian Rhapsody (film completato dopo il licenziamento di Bryan Singer) si cimenta con la vita di Elton John, da bambino paffutello e simpatico a rockstar multimilionaria, finito tra gli alcolisti anonimi per rimettere in sesto la sua vita dissoluta. Prodotto dallo stesso Elton, scritto da Lee Hall, già autore dello script di Billy Elliot, il film lo regge il protagonista Taron Egerton dotato anche di indubbie doti vocali. Jamie Bell, il ragazzo protagonista di Billy Elliot, qui fa la parte di Bernie Taupin, il paroliere che scriveva i testi che poi Elton metteva in musica. La confezione è la solita sesso droga e rock’n roll ma siccome la storia è vera Elton ripulito vive e lotta ancora insieme a noi. In buona sostanza un musical.

ROMA (2018) Nel 2018 il cinema può ancora incontrare la poesia? Come successe con De Sica, Fellini, Olmi…Sì, cercate di vedere il film (su Netflix) che ha vinto il Leone d’Oro a Venezia, questo film del messicano Alfonso Cuaròn (1961), quello di “Gravity”. Roma è un quartiere medioborghese di Mexico City, nel 1971, che affronta una stagione di grande instabilità economico-politica. Due grandi personaggi al centro della storia, due donne che realmente si sono prese cura del regista da piccolo:  Cleo è la tata, la domestica tuttofare di una famiglia benestante che accudisce marito, moglie, nonna, quattro figli e un cane. E Donna Sofia è la mamma di Cuaron, abbandonata dal marito. Cleo è india, mentre la famiglia che l’ha ingaggiata è di discendenza spagnola e frequenta gringos altolocati. Un film in bianco e nero e senza colonna sonora, sul quale non voglio dirvi una parola in più, c’è tutta la nostra vita. Non ci sono discorsi, vaniloqui, dialoghi, impegno, azione, insomma non c’è la prosa di tantissimi film, c’è soltanto la poesia. Alla fine di 135 minuti uno si chiede, perchè finisce? Cuaròn è semplicemente un maestro. 

ROMANTICHE (2023) Su Prime. Opera prima della trentenne Pilar Fogliati, con l’aiuto di Giovanni Veronesi, quattro episodi di donne che cercano di realizzarsi a Roma, raccontandosi ad una psicoterapeuta. A parte l’ interpretazione verdonesca della Fogliati, c’è una introspezione divertente e una mano sicura nel dirigere. Una bella scoperta femminile per il nostro cinema sempre più in difficoltà di rinverdire la nostra tradizione della commedia.

RUMORE BIANCO (2022) Mi era piaciuto molto Storia di un matrimonio, per Noah Baumbach un deciso salto in alto. Ma poi, complice la pandemia, quando tutti la morte l’abbiamo incontrata per strada, Noah ha ripensato al libro di De Lillo, un romanzo postmoderno complesso. Il libro di De Lillo è spezzato in due momenti (pre e post nube tossica) e questa struttura Baumbach la segue ma senza riuscire a riadattarla veramente a una sceneggiatura cinematografica. Da una parte la storyline della nube tossica, che si risolve in breve tempo e che regala splendidi momenti agli spettatori, e dall’altra quella della crisi di coppia che non trova una connessione profonda con il disastro ambientale. Inadeguato a governare tutti i generi (action, dramma, thriller, satira e commedia) che attraversano il romanzo di DeLillo (Baumbach non è Spielberg di La guerra dei mondi), il film affronta temi universali e senza tempo, dalla religione al consumismo, dalla  moralità alla famiglia («culla della disinformazione mondiale») all’amore, all’isteria di massa. Tra Elvis e Hitler, suore che non sono religiose e farmaci miracolosi,  una storia di vita e morte, la stessa che cerchiamo di allontanare il più possibile da noi. Se la verbosità è voluta, la speranza non si vede, è solo una parola. Antonioni le merci le faceva saltare in aria (Zabriskie Point), Baumbach ci balla.

SEARCHING (2018 su Amazon) Aneesh Chaganty (1991) dirige un film particolare premiato al Sundance. E’ la storia della ricerca della sedicenne Margot scomparsa in California. Il padre, vedovo, aiutato da una poliziotta, tenta, attraverso il computer e i social, di rintracciarla scoprendo, attraverso le sue tracce digitali, la personalità della ragazza. Un film a basso costo quindi realizzato attraverso lo schermo di un Apple e tuttavia ben congegnato e sorprendente. Il regista statunitense ma di origini indiane per questa sua opera prima si rivela uno da non perdere di vista, è il caso di dirlo.  

SENZA RIMORSO (2021 su Amazon) A me che piace l’action questo nuovo film che Stefano Sollima ha girato in America, ancora in coppia con il grandissimo  Taylor Sheridan  (sceneggiatore eccezionale di film come Sicario, Soldado, ma anche della serie Yellowstone) e tratto dall’omonimo romanzo di Tom Clancy del 1993, appare perfetto. Sollima è un maestro e visto che è italiano, molti italiani di quelli che fanno i film con mafiosi, agguati e sparatorie, se lo dovrebbero studiare bene. Sollima è sempre molto realistico perchè l’action corre sempre il rischio dell’inverosimile, cioè del videogioco. E’ essenziale, sobrio, la tensione in ogni scena è orchestrata dal sonoro, dalla musica, dal montaggio, dalla fotografia. Il regista è un direttore d’orchestra e deve tenere tutto sotto controllo. Basta guardare la prima scena : uno sparo nel nulla, un morto e un soldato che emerge. Poi, mentre scorrono i titoli di coda, il film riprende. 

SERENITY- L’ISOLA DELL’INGANNO (2019) di Steven Knight. Possibile, mi chiedevo, che il regista inglese di “Locke” (il film girato in un’auto dove un solo attore, Tom Hardy, guidava e regolava la sua vita) abbia fatto un flop colossale? Vado a vedere ed è così, davvero imbarazzante. I due protagonisti, Mattew Mc Conaughey e Anne Hataway, infatti, sono attori Oscar che spesso e volentieri ti danno buca, diventano due Nicolas Cage qualsiasi. Lui Baker Dill pescatore gigioneggia e diventa uno stereotipo, fuma beve e fa sesso come un Hemingway qualsiasi, novello capitano Achab alla ricerca di un tonno gigante in una isola sperduta dei Caraibi. Lei bionda sensuale fa lo stereotipo della moglie Karen che deve liberarsi del marito violento, comica in impermeabile nero e cappellaccio sotto la pioggia. Insomma, parte come un noir anni 40 ma i colori e l’atmosfera sono da Adrian Lyne e poi diventa non so che cosa con un bambino che è finito dentro un videogame. Insopportabile, l’isola dove il tempo si è fermato e tutto si ripete ogni giorno, diventa la trappola di noi spettatori-ostaggi.

 SHIMMER LAKE Un film Netflix 2017 scritto e diretto da Oren Uziel  a Toronto. Un giallo raccontato a ritroso, voto 6 (per qualche influenza dei f.lli Coen). Dopo aver compiuto una rapina, Andy Sikes è in fuga con una borsa piena di soldi ricercato da suo fratello Zeke, sceriffo della cittadina di Shimmer Lake. Con l’aiuto del suo vice e di due bizzarri agenti dell’FBI, lo sceriffo indaga su questa intricata vicenda, in cui sono coinvolti anche un’ex promessa del football locale, Ed Burton, sua moglie Steph e il giudice Brad Dawkins, il quale è anche proprietario della banca rapinata.

SICILIAN GHOST STORY La vicenda del rapimento durato 25 mesi e dell’uccisione del ragazzino Giuseppe Di Matteo vista con gli occhi di Luna, una sua compagna di classe. Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, al secondo film, mostrano talento e doti si è detto alla Guillermo Del Toro. Io ho pensato al Carlei della Corsa dell’innocente (1993), guarda caso proprio l’anno in cui il tredicenne venne rapito da sequestratori travestiti da poliziotti, su ordine di Giovanni Brusca. “Agli occhi del bambino siamo apparsi degli angeli, ma in realtà eravamo dei lupi” , confesserà Gaspare Spatuzza che vi prese parte. Questa confessione deve essere apparsa ai registi una buona chiave di lettura dei mafiosi, che qui diventano gli orchi di una fiaba. Un bel film (voto 7) che però -appunto- ripropone il vecchio dilemma di come raccontare la mafia, qui protagonista di uno degli episodi più raccapriccianti. Non si uccidono donne e bambini, diceva la vecchia mafia, ma i corleonesi arrivarono a far morire di stenti un bimbo e poi a strangolarlo e distruggerlo nell’acido. E meno male che non fecero crollare la torre di Pisa e non riuscì loro la strage all’Olimpico!  Altro che Isis. Ecco, questo raccapriccio non l’ho visto nel film dove prevale l’aspetto onirico e fantasmatico.

S IS FOR STANLEY Se vi interessa il lato privato di Stanley Kubrick, questo documentario è imperdibile. Qualche anno fa  Alex Infascelli (premiato con il David di Donatello), incontrò la moglie di Kubrick per un’intervista e sentì parlare per la prima volta di Emilio D’Alessandro, l’autista italiano tornato a vivere a Cassino dopo la morte del Maestro. In poco meno di un’ora, Emilio racconta la sua incredibile storia, iniziata ai primi anni ’60. Emigrato in Inghilterra per evitare la leva, sposa Janette un paio d’anni dopo e trova lavoro come autista di taxi per una piccola società. Tempo dopo, era il 1970, Londra era sommersa dalla neve, ma bisognava trasportare un enorme pacco da una parte all’altra della città: era finito sul set di “Arancia meccanica” e la consegna era quella del grande fallo bianco che poi viene utilizzato nel film. Senza saperlo, fu quella la prima volta che Emilio lavorò per Kubrick. Che di lì a poco lo assunse come autista personale. Ma per i successivi 30 anni Emilio fu molto di più, diventando il suo assistente più fidato e vicino, al punto che Kubrick fece installare in casa sua una linea telefonica privata dove poteva contattarlo solo lui.

SLAM- TUTTO PER UNA RAGAZZA Andrea Molaioli (1967) mi era molto piaciuto con La ragazza del lago (2007), poi Il gioiellino (2011) è stato un flop e quindi ero curioso di questo nuovo film tratto dal romanzo “Slam” di Nick Hornby, riadattato a Roma. Sam (un bravissimo Ludovico Tersigni) è un ragazzo di sedici anni con la passione per lo skateboard e devoto a Tony Hawk, uno dei più grandi skaters al mondo. Vorrebbe almeno essere il primo della famiglia a non inciampare nello stesso errore di sua mamma (Jasmine Trinca), suo nonno e suo bisnonno: diventare genitori a soli sedici anni. Ma non ha fatto i conti con Alice (Barbara Ramella), una ragazza bellissima con cui instaura un rapporto che lo allontana momentaneamente da tutto. Nel momento in cui Sam decide di lasciarla, Alice gli confessa di aspettare un bambino. Davanti all’errore che ha segnato tutta la sua famiglia, Sam decide di scappare e di far perdere le sue tracce…Un film onesto (voto 6) ma piatto, che si concede troppi flashforward (una nuova manìa del cinema italiano alla ricerca del fantastico). La presenza dell’onnipresente Luca Marinelli che fa il solito personaggio borderline è un’altra cosa troppo scontata.

SMETTO QUANDO VOGLIO- AD HONOREM Ecco quei film italiani che alla fine gli spettatori chiamano “carini”. Il salernitano Sydney Sibilia (1981) ha girato di seguito 3 film sui ricercatori universitari che si ritrovano a fare una banda, garantendo la stessa qualità. Prodotto da Procacci e Matteo Rovere, è il tentativo nostrano di fare cinema dopo aver goduto e assimilato il nuovo cinema di autore che è quello delle “serie tv” americane. Gli ingredienti ci sono tutti, una storia, musica, fotografia, carrellate, sceneggiatura adatta agli attori. Il valore aggiunto sono gli attori (Leo, Fresi, Sermonti,Calabresi, Marcorè)  che non sono i triti & ritriti: nell’ordine di antipatia mia, Favino, Accorsi, Ghini, Amendola, Rubini, cioè tutti gli attori che ha chiamato Muccino nel suo prossimo film.

SNOWDEN Oliver Stone in gran forma riesce a trovare il bandolo della matassa nella complessa e complicata storia di Edward Snowden. Nel 2013, barricato in una stanza d’hotel ad Hong Kong, il ventinovenne Edward Snowden, ex tecnico della CIA e consulente informatico della NSA (National Security Agency), ha rivelato, dati sensibili alla mano, al quotidiano inglese The Guardian e alla documentarista Laura Poitras, l’esistenza di diversi programmi di sorveglianza di massa, programmi di intelligence secretati, che garantiscono al governo statunitense un livello di sorveglianza estremamente invasiva e contraria ad ogni diritto alla privacy sul proprio territorio e sul resto del mondo.  Come spiegare al grande pubblico concetti così difficili? Grazie ad un credibile Joseph Gordon-Levitt, Stone ha scelto di  presentarci le motivazioni di un ragazzo che decide di  perdere tutto svelando i massimi segreti del suo paese, che pure lo aveva addestrato ad essere un soldato fedele nei lunghi anni alla NSA. Così questo soldato con idee conservatrici pian piano si forma una coscienza civile che lo conduce ad una decisione finale sofferta e senza ritorno. Un film chiaro, e stavolta Stone non è confusionario né ridondante.

SOLDADO (2018) Il genere deve piacere, il neo-western oggi ambientato al confine tra Messico e Stati Uniti. Per capirci, chi ama la commedia o l’horror non apprezzerà Stefano Sollima (1966), il regista italiano delle serie magnifiche (Romanzo criminale, Gomorra) chiamato dagli americani a dirigere un copione di Taylor Sheridan (1970), quello di “Sicario” (director: Villeneuve). A me il film è piaciuto molto, nella sua linearietà (trovatemi un film oggi che racconti senza flashback o flash-forward), nella trama semplice imperniata su Alejandro e Matt (Del Toro e Brolin), due militari incaricati dal governo americano di un lavoro sporco e segreto. Lungo il confine ormai il cartello traffica con esseri umani più che con la droga e attraverso quel traffico arrivano i terroristi. I due devono scatenare una guerra tra le fazioni del cartello, e la storia racconta come fanno. Poche parole, molta azione, molto cielo e praterie sconfinate solcate da mezzi pesanti. Sollima non deve far altro che il director, come vogliono anzi pretendono gli americani. Un film come questo riesce allora se funziona la sceneggiatura. E Sheridan funziona sempre. Però se vi piace il thriller, la commedia, l’Autore, astenetevi.

SOLO- A STAR WARS STORY (2018) di Ron Howard.  Il film è vedibile, ma siamo nei pressi di Indiana Jones (la produttrice Kennedy, lo sceneggiatore Lawrence Kasdan). Han è un giovanotto molto buono, con la lingua pronta, un cowboy che guida navicelle e ama Qi’ra (una Emilia Clarke con le guanciotte). Gli inseguimenti sono sempre, come paiono a me, videogiochi, Woody Harrelson mastica sempre come in tutti i film, questo spin-off sulle origini del contrabbandiere corelliano non piacerà ai devoti della saga. Sorrido perché il cantante italiano Bobby Solo, all’anagrafe Roberto Satti, si narra che nel 1964 ebbe il cognome per un errore di un impiegato che non aveva capito che si doveva chiamare Bobby e basta (solo). E l’impiegato non sapeva proprio nulla di George Lucas.

STANLIO E OLLIO (2019) Il regista scozzese Jon S. Baird, su sceneggiatura di Jeff Pope (quello di Philomena) racconta di  Stan Laurel e Oliver “Babe” Hardy quando nel 1953 partono per una tournée teatrale in Inghilterra. Sono passati sedici anni dal momento d’oro della loro carriera hollywoodiana e, anche se milioni di persone amano ancora Stanlio e Ollio e ridono soltanto a sentirli nominare, la televisione sta minacciando l’abitudine culturale di andare a teatro e molti preferiscono andare al cinema a vedere i loro capolavori del passato oppure i nuovi Gianni e Pinotto, piuttosto che scommettere sulle loro esibizioni in teatrini di second’ordine. Eppure i due vecchi compari, con Ollio sempre più malato, sanno ancora divertirsi e divertire e la tournée diventa per loro l’occasione di passare del tempo insieme, fuori dal set, come non avevano mai fatto prima, e di riconoscere per la prima volta il sentimento di amicizia che li lega. Un bel film, anche se malinconico, con un finale stupendo. Si apprendono molte cose su una coppia che tutti abbiamo amato, a cominciare dalla insuperabile matematica scrittura dei loro numeri ad opera di Stanlio.

STAR WARS – GLI ULTIMI JEDI (2017) Non sono un credente della saga creata da Lucas e quindi quel che dico di sicuro è poco fideistico. Ma se leggete alcuni devoti finisce che neppure andate a vedere un film che merita. Ho visto mi pare nel 1977 il primo capitolo e poi gli altri due, ma poi mi scocciai e due anni fa sono tornato al cinema per la nuova trilogia a causa del nome di J.J. Abrams (mitico showrunner di Lost). Abrams dirigerà il prossimo capitolo e questo lo ha affidato al bravissimo Rian Johnson. In realtà tutta la saga e la Lucasfilm è nelle mani dal 2012 di un personaggio per me straordinario, cioè Kathleen Kennedy (1953), che ricordo per aver prodotto grandi film di Spielberg come E.T. e Indiana Jones, oltre che Ritorno al Futuro. Detto questo, i 150 minuti del film, dopo un inizio lento, non li senti soprattutto perché c’è molta leggerezza in questa puntata, molta attenzione ai ragazzini del pubblico, scenette comiche che stemperano il pathos e l’epica. Le vicende di Rey e Luke Skywalker, di Kylo Ren e Poe Dameron, di Finn e Leia Organa (Carrie Fisher scomparsa dopo le riprese) sono sempre inquadrate nella lotta della Resistenza e dei ribelli contro il Primo Ordine (in sostanza, i nazisti). C’è un bel duello finale come in qualsiasi western e ci sono due o tre insegnamenti: che dai fallimenti s’impara, per cui si deve cambiare sempre; che i vecchi vanno (metaforicamente speriamo) uccisi per diventare quel che si deve; che la Forza oscilla tra Bene e Male, tra lato oscuro e lato chiaro di una energia indomabile. Puro intrattenimento che non capisco perché i distributori italiani abbiano intitolato, nella loro eterna dabbenaggine, GLI ULTIMI JEDI, quando bastava riferirsi al singolare.

STO PENSANDO DI FINIRLA QUI (2020) di Charlie Kaufman, solo su Netflix. Kaufman (1958) è un regista e sceneggiatore statunitense, autore del bellissimo “Se mi lasci ti cancello” titolo come al solito pazzesco dei distributori italiani  (Eternal Sunshine of the Spotless Mind è un verso del poeta Pope), film del 2004 con Jim Carrey. «Sto pensando di finirla qui»: è questa la frase che ripete continuamente nella sua testa Lucy (Jessie Buckley,Chernobyl) mentre viaggia in macchina col suo ragazzo Jake (Jesse Plemons, The Irishman), che dopo solo 6 o 7 settimane dal loro primo appuntamento la sta portando a conoscere i propri genitori (Toni Collette e David Thewlis). Il film, tratto da un libro, dura 134 minuti, pieni di dialoghi molto colti. Come in una prova iniziatica soltanto alla fine lo spettatore coglie il senso, perchè nel film non c’è ordine di tempo e l’arco narrativo è sorprendente. Un film che mette a dura prova ma che alla fine ci lascia con i nostri fantasmi. E con queste parole scolpite in testa: «È tutta una bugia! Che andrà meglio; che non è mai troppo tardi; che Dio ha un piano per te; che l’età è solo un numero; che è sempre più buio prima dell’alba; che dietro a ogni nuvola c’è un maledetto raggio di sole; che c’è qualcuno per tutti noi e che Dio non ti dà più di quanto puoi sopportare».

STORIA DI UN MATRIMONIO (2019 su Netflix) Avete bisogno adesso che sta per finire il 2019 di un film intelligente, romantico, profondo, simpatico? Avete una sola possibilità, vedere quello scritto e diretto da Noah Baumbach, interpretato da Scarlett Johansson e Adam Driver. Cominciamo dai due protagonisti. Per me erano incapaci di recitare prima di averli visti interpretare questo film. Lui capellone con la faccia imbalsamata, lei bellissima ma con la testa troppo grande: qui sono favolosi, bellissimi, indimenticabili. Lui canta alla fine una canzone sull'”Essere vivi” che diventerà un classico come “Singing in the rain” o”My life”. Baumbach (1969) (che fisicamente è un Adam Driver più bello) lo adocchiai nel 2004 come sceneggiatore con Wes Anderson di “Le avventure acquatiche di Mr Zizou” e poi lo adottai con il suo film del 2005 “Il calamaro e la balena”, un altro film sul divorzio (dei suoi genitori) che fu la prova generale di questo. I tre avvocati, la odiosa Laura Dern, l’amabile Alan Alda, il cinico Ray Liotta;  il bambino Azhy Robertson; l’assistente sociale, non c’è un solo attore che non dia il meglio di sè e non resti nella memoria. Le musiche sono del grande Randy Newman e non fate caso a chi vi chiama in causa il famoso “Kramer contro Kramer”. Baumbach scrive e fa recitare a Driver e Johansson una scena che rimarrà nella storia del cinema, due coniugi che parlano sul loro matrimonio per trovare senza avvocati un accordo sul divorzio. Qui abbiamo la scrittura di un Ingmar Bergman impastata con la classe di Wes Anderson. Se Liv Ullmann era la musa di Bergman in quel suo film “Scene di un matrimonio” del 1974, qui Scarlett Johansson (che girava il film e intanto stava divorziando per davvero) trova il suo Pigmalione, che l’ha stregata molto meglio di quanto abbia saputo fare un Woody Allen. Un film che vi resterà nel cuore (magari quanto “Roma” di Cuaron) perchè quando l’intelligenza, la scrittura e la poesia si fondono insieme, succede il miracolo. Vedendolo infine, vi renderete conto che Baumbach non è soltanto un drammaturgo di rango, ma un regista capace di inquadrature precise, nette, simboliche, geniali come quelle del suo amico mattacchione Wes Anderson 

SUPER -ATTENTI AL CRIMINE (2010) scritto e diretto da James Gunn e con protagonisti Rainn Wilson, Ellen Page, Kevin Bacon. Film intelligente se confrontato con il nostro “Lo chiamavano Jeeg Robot” di Mainetti (2015), dove Claudio Santamaria nei panni di un piccolo delinquente romano diventava invulnerabile al dolore (dopo un bagno nel Tevere radioattivo)  e decideva di usare questo potere per la sua carriera di criminale. Qui Frank Darbo è un uomo normale, ma sconfitto, che della sua vita fatta di delusioni e vergogna ha solo due ricordi felici: essersi sposato con la sua bella moglie Sarah e aver aiutato un poliziotto a catturare un ladruncolo. Abbandonato dalla moglie, diventa un giustiziere che (ecco l’idea) seguendo un suo codice religioso binario, giusto-sbagliato, con una chiave inglese ammazza chi sbaglia, uno che vende droga ma anche uno che non fa la fila. Il film pertanto facendo leva sull’empatia che provi per uno come sfigato come noi, riflette nientemeno che sul tema “delitto e castigo”. Insomma, i giustizieri non salvano mai il mondo anche se ci piacciono (da Mani Pulite ad oggi).

TAR (2022) di Todd Field. Ascesa e caduta di Lydia Tár, direttrice d’orchestra potentissima (Un personaggio che è come io mi immagino sia in realtà Cate Blanchett). La prima parte, quando Field ce la presenta in un lungo monologo, è meravigliosa. Durante una lezione umilia davanti agli altri studenti un ragazzo che afferma di non voler studiare Bach perché era un misogino. Perchè lo fa? Per difendere il valore di un colosso come Bach, oppure per mortificare uno studente solo per le sue idee? I nostri tempi liquidi sono ormai quelli che sono, nella seconda parte Lydia Tár comincerà ad essere perseguitata e il mondo intorno a lei inizierà a crollare, fino alla sua cancellazione. Cosa farà Lydia quando Tàr non ci sarà più ?

TEN (10) CLOVERFIELD LANE di Dan Trachtemberg. Svegliandosi dopo un incidente, Michelle si ritrova prigioniera insieme col giovane Emmett nel seminterrato di un uomo che dice d’averla salvata da un attacco chimico. C’è da credergli? Mary Elizabeth Winstead (che è anche in Fargo, 3^ stagione) se la vede con John Goodman stavolta al bivio tra i suoi personaggi abituali, omone benevole o psicopatico?  Cosa è successo fuori della casa? La tensione viene conservata fino a pochi minuti da un finale che rischia però di indebolirne la portata. Vedibile, voto 6 pieno.

TED BUNDY -FASCINO CRIMINALE (2019) di Joe Berlinger. Il film è tratto da una storia vera, raccontata in un libro da Elizabeth Kloepfer, la sua relazione per Ted Bundy,  serial killer degli anni 70.   Il fascino di Ted è evidente, l’attore è il bello Zac Efron, ma Elizabeth inizia a sentire che c’è anche qualcosa di strano nel suo comportamento ed è particolarmente turbata quando la Tv diffonde notizie sull’omicidio di alcune ragazze. Anche dopo il suo arresto e le accuse provenienti da  vari Stati, Ted continua a dichiarare la propria innocenza, fino a difendersi in prima persona in uno dei primi processi spettacolo americani, ripreso dalle telecamere nello stato della Florida.  Il film è poca cosa, realizzato in economia e immette lo spettatore nel punto di vista di  Elizabeth, vittima del fascino di Bundy. Le sue incertezze, di Elisabeth, si svelano nel finale, ma debbo dire che solo ad uno sciocco può venire in mente durante il film che Ted non sia il serial killer.

TENET (2020)  Continuerò ad amare Nolan (1970) per i suoi film Memento, The prestige, Il cavaliere oscuro, Dunkirk, Interstellar. Già con Inception il “sogno dentro un sogno dentro un altro sogno”  mi aveva lasciato perplesso. Eppure non sono tra quelli che di un film vogliono capire tutto, soprattutto quando si tratta di fantascienza, ed in Tenet ti avvisano pure: «Non cercare di capire, segui il tuo istinto». Diciamo che ogni film ha diversi strati di lettura, dal più superficiale al più profondo, come gli strati di una torta, e ogni spettatore gusta quel che vuole, questo pensa Nolan.

Comunque la prima cosa che ho fatto tornato a casa sapete qual è? Segnarmi il nome del musicista del film che, ho scoperto, si chiama Ludwig Goransson, ed è autore di una colonna sonora complessa con musica invertita e palindroma (come la parola latina tenet). E’ lui  il maggiore responsabile di un bombardamento sensoriale di un film che intende stuzzicare i sensi, girato in pellicola da 70 millimetri e per gran parte in pellicola IMAX. Ci riesce benissimo nella prima parte in cui ti trovi dentro un film di spionaggio e d’azione alla “James Bond”.  Insomma, non c’è niente da capire, finanche “Ritorno al futuro 1” di Zemeckis abbisognava di qualche spiegazione (tutta la vicenda in definitiva è riconducibile al ben noto paradosso del viaggiatore temporale che torna indietro nel tempo e uccide il proprio nonno).
“Inception” sul web ha migliaia di  schemi e rivelazioni, adesso Nolan si candida a diventare il più freddo e cervellotico Autore del cinema da pandemia. La prima scena al teatro dell’Opera di Kiev e l’aeroplano che si schianta contro un edificio sono girate dal vero, senza l’utilizzo di modellini o l’impiego della CGI. A queste scene dall’impatto visivo impressionante (e che resistono al tempo, mentre gli effetti speciali sono sempre datati) Nolan aggiunge un impianto audio adeguato a restituire la sensazione di frastornamento del protagonista stesso. Ma, per quel che mi riguarda, il suono e la musica che in Tenet svolgono un ruolo fondamentale e contribuiscono ad aumentare il ritmo forsennato di tutto il film sono troppo invasivi.

TETRIS (2023) di Jon S.Baird (1972), regista scozzese che ha diretto Stanlio & Ollio. La storia del videogioco divenuto in breve tempo una vera e propria icona popolare, inventato dal programmatore russo Aleksej Leonidovic Pažitinov nel 1984. Taron Egerton nel film interpreta Henk Rogers, imprenditore che scopre Tetris nel 1988, fiuta l’affare e fa un’offerta per acquistarne i diritti. Ma l’Urss di Gorbaciov è ormai al collasso e l’operazione risulta intricatissima. Ecco una spy story avvincente con una sceneggiatura solida.

(THE) BURIAL -IL CASO O’KEEFE di Maggie Bets (2023). Legal drama tratto da una storia vera in cui, al contrario de Il momento di uccidere (1996), oppure di un grande classico quale Il buio oltre la siepe (1962), qui è un avvocato nero a difendere un imputato bianco. Tommy Lee Jones e Jamie Foxx (purtroppo doppiato da Pino Insegno) sorreggono un biopic abile nel non premere il pedale della retorica. Significativa la scelta di lasciare fuori campo l’arringa finale perchè l’intento è quello di delineare i caratteri e le motivazioni dei vari personaggi coinvolti.

(THE) DRESSMAKER  “Il Diavolo veste Prada” c’entra poco in questo film australiano del 2015, anche se di moda si tratta. Una notte Tilly, una giovane donna, torna a Dungatar, lo sperduto paesino australiano da cui era stata cacciata all’età di 10 anni con l’accusa di aver causato la morte di un compagno di classe. E’ determinata a scoprire la verità che la sua memoria ha cancellato: cosa è davvero successo il giorno della morte del bambino? Il film parte così, con una scena bellissima da western classico, e con un’attrice come Kate Winslet che combatte nel villaggio, siamo nel 1951, la sua sfida con vestiti di sartoria. E’ una commedia  che scivola verso il grottesco ma anche nel prevedibile.

(THE) EQUALIZER 2 SENZA PERDONO (2018) Denzel Washington per me è una garanzia, come il regista Antoine Fuqua. Non danno mai patacche. L’esatto contrario di Nicolas Cage. Certo, deve piacere il genere action, che sta tra Il giustiziere della notte e Rambo. Ma  Denzel, col suo personaggio, è l’amico che tutti vorremmo avere. Ho pagato euro 8,70 al cinema, ma non li ho rimpianti.

(THE) FABELMANS (2023) 150 minuti consentono a Steven Spielberg (Cincinnati, 1946) di farci conoscere la sua famiglia nel suo film più personale. Egli, il ragazzo Sam, si ritrova al centro della dinamica tra Sammy, una madre che è una grande artista mancata ( Michelle Williams, bravissima), un padre ingegnere geniale e buonissimo (un grande Paul Dano) e un collega del padre, Bernie. Con i toni di una commedia e dei film americani ambientati nelle scuole con nerd e bellimbusti, Spielberg con la sua solita maestria racconta il suo rapporto  sin dall’ adolescenza con il Cinema e spiega ciò che rappresenta per lui: un mezzo capace di incarnare i propri sogni ma anche un medium potente in grado di catturare e manipolare la realtà a proprio piacimento. Il cinema è un mezzo capace di svelare segreti che non si vedono ad occhio nudo o di far sembrare buono uno cattivo e viceversa. Essenziale, alla fine, non è tanto ciò che si rappresenta ma come lo si rappresenta. Il Cinema è una questione di sguardo, di prospettiva, di orizzonte, ecco la lezione finale di John Ford a Sam. Ecco un film che può piacere solo a chi coltiva l’arte del cinema. “Non basta amare una cosa, bisogna sapere prendersene cura…” si ascolta in un dialogo.

(THE) FATHER (2021) Il drammaturgo francese Florian Zeller (1979) porta sullo schermo una sua opera teatrale di successo, pensando al grande Antony Hopkins come protagonista. Un uomo ottantenne, Antony, riceve la visita della figlia (Olivia Colman) che gli annunica la sua intenzione di traferirsi da Londra a Parigi per raggiungere l’uomo che ama. Ma tutto diventa assai complicato perchè lo spettatore vede quel che il morbo di Alzhaimer fa vedere e capire ad Antony. Hopkins e la Colman reggono il film, una di quelle occasioni per ammirare la bravura dgli interpreti e la ricercatezza degli interni. Nonostante il tema affiora qua e là una provvidenziale leggerezza.

(THE) FRENCH DISPATCH (2021) Il texano Wes Anderson (1969) mi affascina quanto Bunuel, solo che alla fine di un film dello spagnolo ero divertito, e con Anderson mi è successo solo con I Tenembaun. Stavolta mi ha depresso, perchè con l’ausilio della scrittura di Roman Coppola, Hugo Guinness, Jason Schwartzman, rende il suo omaggio alla cultura francese. Quindi, un mondo di mon oncle, di fiori e botteghe artigiane, organetti, vicoli, prostitute, ceffi da milieu. Ogni scena è una fotografia, un modellino, un disegno o cartone animato, per cui la realtà non esiste, Anderson è ormai un collezionista che ha creato i film alla Anderson. Di questo non ho capito granchè se non che si occupa di pratiche e momenti cruciali del Novecento, dall’arte contemporanea alla contestazione studentesca all’arte culinaria & Maigret (forse). “Come se tutto si fosse ridotto a forma leggera, rimontabile e smontabile a piacimento. Una specie di Teatro del Mondo alla Aldo Rossi, ma lasciato sulla carta, sotto forma di disegno”. Alla fine, di tutta questa imponente messinscena della città immaginaria di Ennui-sur-Blasé, in questo clima di noia indifferente, resta proprio la sensazione di una cerimonia funebre. A cui tutti, uno stuolo di volti celebri di cui si fa fatica a tenere il conto, si affrettano a presenziare. Anche solo per una scena, giusto il tempo di mettere la firma sul registro delle pompe funebri. Sono diventati solo oggetti ricordo, ninnoli, immagini sbiadite, pagine strappate. Potrebbe sembrare bello rispolverarli ogni tanto. Ma anche molto triste”. (sentieriselvaggi)

(THE) HARDER THEY FALL (2021) di Jeymes Samuel (The bullitts) su Netflix. La pop star inglese fa il suo esordio con un western pensato per rievocare Ford, Tarantino, Leone e gli spaghetti western. Molta musica, troppa, toglie tensione perchè si ha l’impressione di vedere un musical, ma la fotografia e lo scenario sono suggestivi. Idris Elba, Jonathan Majors e tanti altri attori in un black western vedibile ma senz’anima. Gli amanti del western partono da John Ford, L’uomo che uccise Liberty Valance, 1962. Mi sa che Samuel non l’ha visto.

THE HOLDOVERS (2023) di Alexander Payne (1961). Un delizioso film da Natale che penso darà soddisfazioni (e magari due Oscar) a Paul Giamatti e a Da’Vine Joy Randolph come attrice non protagonista; ma la rivelazione è il giovane Dominic Sessa. Payne è sempre bravo, sa girare e col suo solito humor (e il paesaggio nevoso) racconta tre “residui” ovvero tre solitudini costretti dalla vita a passare insieme il Natale in una scuola. A me è tornato in mente L’attimo fuggente, solo che Robin Williams era tanto amato dagli studenti quanto questo Giamatti professore di storia in un college del New England è rigido, esigente e detesta gli studenti mediocri. Insegnare ai figli dei ricchi benefattori che aspettano il diploma senza sforzo è tutt’altro che facile perchè, come dice Giamatti, il passato spiega il presente.

(THE) IRISHMAN (2019, su Netflix) Tornano dopo 39 anni “Quei bravi ragazzi “ di Scorsese e stavolta sono De Niro (76 anni), Joe Pesci (76 anni, che vinse l’Oscar come migliore attore non protagonista) e Al Pacino (79 anni), con le loro fattezze reali e ringiovaniti dagli effetti di cui è capace il cinema oggi. Sono Frank Sheeran, soldato nella Seconda Guerra Mondiale e poi autista di camion; Russell Bufalino, boss della mafia a Filadelfia; Jimmy Hoffa, il capo del sindacato dei camionisti. Dalla gioventu alla vecchiaia e alla morte, Scorsese racconta in tre ore e mezza l’ ascesa e caduta di personaggi italiani e irlandesi che si muovono dentro la storia americana, Kennedy è uno di questi. I valori e i temi di Scorsese ritornano come al solito, si diventa criminali per amore della famiglia alla quale si vuole assicurare protezione e un futuro sicuro, poi il potere ti corrompe e snatura, infine subentra il senso del peccato e della colpa, alla ricerca di una misericordia che nessuno sa come arriverà. Film di uomini, senza sesso, pur così caro a Scorsese, e senza soldi, altra sua ossessione, con alcuni piani sequenza e troppi rallenty ma tutto sommato sobrio, misurato. Scorsese sa raccontare, controlla tutto alternando suspence e lunghi dialoghi e fa questo viaggio tra passato e presente in compagnia di tre mostri sacri che sono il vero valore aggiunto del film. Imperdibile appunto per osservare De Niro, Pesci e Al Pacino in una delle loro prove migliori. L’amicizia per Scorsese vale molto ma lo sguardo di una figlia da bambina è quello che resta più impresso alla fine

(THE) KILLER (2023) David Fincher (Denver, 1962) è uno dei miei director preferiti, dunque chapeau. Un film sui dettagli, sulla studiata precisione e implacabile assenza di emozioni per evitare passi falsi. Il gioco sta tutto nel pensare come i ragionamenti e la precisione geometrica del killer (un Fassbinder tiratissimo) in fondo appartengono a tutti noi, alla prese con il puzzle delle nostre vite. Di sicuro gli imprevisti non piacciono a nessuno e tutti noi siamo costretti ogni giorno a tentare di ri-mettere a posto i pezzi. Questo per dire che il solito film in cinque capitoli e altrettanti luoghi (Parigi, Santo Domingo, New Orleans, New York, Chicago), più un epilogo ancora nella Repubblica Dominicana, un revenge (vendetta) movie, ci interessa eccome, perchè gli ostacoli ci appartengono. “Fai di tutto per essere uno dei pochi” si propone il protagonista e quando le cose non vanno per il verso giusto solo i nostri princìpi sono  in grado di salvarci.

(THE) MAURITAIN (2021) su Amazon, di  Kevin Mcdonald. Mohamedou Ould Slahi (Tahar Rahim), in seguito all’attentato dell’11 settembre viene arrestato dal governo degli Stati Uniti e viene trasferito presso il campo di prigionia di Guantànamo, dove viene trattenuto senza un’accusa o un processo. Slahi trova degli alleati nell’avvocato difensore Nancy Hollander (grande Jodie Foster) e nella sua associata Teri Duncan (Shailene Woodley). Insieme, affrontano innumerevoli ostacoli. La loro tenace difesa, contro tutto e tutti, è un ulteriore esempio dell’America liberal (malgrado lo stesso Obama) che lotta perchè il garantismo non sia messo da parte ogni qual volta ci sia una  “emergenza democratica”. Quando in un film c’è la Foster (qui insieme anche a Benedict Cumberbatch), lo spettatore va tranquillo  chè ne vale la pena. A me è piaciuto molto, forse perchè non sono un manettaro e amo la ricerca della giustizia.

(THE) MENU (2022) di Mark Mylod. Hawthorn, un ristorante stellato nel cuore di un’isola privata. A gestirlo, come una caserma, è Slowik (Ralph Fiennes), chef di cucina molecolare che promette un menu da sogno per 1250 dollari guarnito da rivelazioni e sorprese. Tra una portata e l’altra, che i riccastri degustano senza mangiare, l’unica inappetente è Margot (Anya Taylor-Joy) che perciò irrita Slowik. Corre via veloce questo horror culinario che io ho letto come: meglio un cheesburger che questi chef stellati e fuori di testa.  

(THE) MIDNIGHT SKY (2020) Ho amato molto Gravity di Cuaron, per dire che questa prova di Clooney regista e attore non mi convince anche se il film è vedibile. I miei consigli. Non vi deve fregare nulla di cosa ha reso la terra inabitabile nel 2049; sappiate che il passato, l’ equipaggio di ritorno da Giove e, in un osservatorio del Polo Nord, il solitario e disilluso scienziato Augustine Lofthouse, sono tre scenari che si miscelano. Come già in Suburbicon, Clooney regista vorrebbe fare l’autore ma alla fine ti lascia con la solita domanda: “tutto qui?”. Una vita dedicata tutta al lavoro anzichè alla famiglia, this is the question? Perchè la storia è piena di crepe, e come la musica di Alexander Desplat, non comunica. (su Netflix)

(THE) NICE GUYS In questo vecchio film del 2016 di Shane Black (ha scritto “Arma letale” e diretto “Iron man 3”) il detective privato Ryan Gosling assieme al picchiatore Russel Crowe si ritrovano a collaborare per risolvere un caso. Nei fratelli Coen la stupidità porta alla morte, alla tristezza e all’ineluttabile sofferenza, sebbene in maniera grottesca, in Shane Black la stupidità invece è il mezzo attraverso il quale il destino ha deciso di far vincere i due protagonisti: “Sometimes you just win”, conclude il detective Gosling con il braccio rotto ricordo del primo incontro con Crowe. Tanto ritmo ma soprattutto tante parole in questo film commedia che se non vi annoia vi sembrerà spensierato.

(THE) POST  (2018) Ho visto questo film costretto ad ascoltare i commenti continui dei miei vicini di posto, una coppia di coniugi che non sapevano nulla della storia vera che narra Steven Spielberg, ignari di chi fosse Nixon o McNamara, o il Washington Post. Questo è un film “classico” sulla stampa, nel senso che i dilemmi della questione alla fine li decide la Corte Suprema. Ricostruisce lo scandalo Pentagon Papers, in cui una talpa rivelò tanti segreti di Stato opposti da vari presidenti, dimostrando come il governo avesse mentito ai cittadini e mandato a morire i soldati americani solo per non perdere la faccia. La novità è che il dilemma (pubblicare o no i documenti) resta all’interno dei giornali. Il New York Times fu fermato dal tribunale, il Washington Post (attraverso il suo direttore Tom Hanks e la sua editrice Meryl Streep) dovette scegliere se astenersi o fallire. Come hanno capito i miei vicini di posto, l’editrice Kay Graham con la sua decisione si è giocata il patrimonio. Forse hanno capito poco i due aspetti fondamentali del lavoro di Spielberg e degli sceneggiatori. Il primo è la lotta di una donna sola in un mondo tutto maschile (e forse solo per questo la Streep potrebbe vincere l’Oscar); il secondo è la lezione sul presente, quando nel mondo i giornali di carta perdono lettori, chiudono, licenziano o diventano digitali e sembrano superati. La sopravvivenza passa per la qualità, resteranno solo i giornali migliori, e tutti gli altri spariranno. Ognuno di noi continuerà a leggere i giornali diretti da un Ben Bradlee perché si fida di lui. I miei vicini, convinti che non avrebbe pubblicato nulla, non leggono i giornali. Nel film c’è anche il mio adorato Bob Odenkirk che meriterebbe il premio per il miglior non protagonista.

(THE) PRESTIGE Quelli come me, che sono lento, devono vedere questo trascurato capolavoro del 2006 di Christopher Nolan almeno 4 volte per carpirne i molteplici significati. Una storia semplice, due illusionisti che si sfidano (una specie di “Duellanti” di R. Scott) negli anni, raccontata con diverse linee temporali e mettendo in scena i diversi racconti, dell’uno e dell’altro, diventa complessa da comprendere. Nolan gioca con lo spettatore, lo richiama spesso, lo avvisa di stare attento, il film inizia e finisce con tanti cappelli neri sparsi sull’erba, ma è tutto inutile, noi spettatori, ci spiega Nolan, vogliamo essere ingannati. In un film-allegoria, i prestigiatori sono i registi, i numeri sono i film, la magia è una proiezione. Anche quando la verità ( nel nostro caso sul teletrasporto) è semplice, bastano due diari, che dovrebbero contenere in quanto diari i nostri segreti (e non bugie) per confonderci e complicare il tutto. Allora fantastichiamo e arriviamo a conclusioni bislacche, le teorie grilline o le fake news che infestano il web ne sono un esempio. Un cast di attori bravissimi, Hugh Jackman, Christian Bale, Scarlet Johansonn, Michael Caine, Rebecca Hall, e David Bowie (Nikola Tesla)…per un capolavoro sul rapporto verità-bugie, scienza e magia, “il prestigio” essendo il trucco finale del mago che fa riapparire l’oggetto scomparso. Vi do un indizio decisivo per capire tutto. Nel lungo duello vince alla fine Hugh Jackman (Robert Angier nel film). Favoloso, semplicemente.

(THE) REPORT (2019 su Amazon) di Scott Z. Burns, già sceneggiatore di Soderbergh, qui in veste di produttore. All’indomani dell’11 settembre, le pratiche per la lotta al terrorismo divennero disumane torture, ma la cosa peggiore è che furono del tutto inutili e segrete. La CIA, responsabile di non aver preso sul serio rivelazioni sul terribile attentato dell’11/9, disse solo bugie per accreditare le sue pratiche naziste dopo il suo fallimento.  E fu proprio grazie al dossier di oltre 7000 pagine ad opera della senatrice Feinstein (Annette Bening) e di Dan(iel) Jones (un impassibile Adam Driver) che si scoprì la verità. Film che alla fine diventa patriottico: gli USA che imparano sempre dagli errori, ma in ogni caso la CIA arrivò a violare i computer del Senato dimostrando che è un organo fuori controllo. Ad ogni modo se Spielberg dopo The Post avesse affrontato la storia vera di Dan, ci saremmo emozionati di più. Il film è comunque importante.

(THE) SQUARE 2017 Vincitore a Cannes il regista svedese Ruben Ostlund (1974) è un autore da seguire. Non tutti lo ameranno per il suo stile (macchina ferma e attori che entrano nel suo spazio di ripresa); le sue lungaggini, la sua lentezza talvolta sono esasperanti. Ma il suo sguardo sui personaggi (in questo caso il direttore di un museo di arte moderna) e sulla realtà è profondo, acuto. C’è una scena ad una cena di gala che vale tutto il film e che mette in luce quello che nell’intero film si capisce a stento: che rapporto c’è tra una classe  privilegiata e i poveri, i mendicanti, gli ultimi, con  i quali tentiamo di con-vivere tra mille contraddizioni, che chiamano in causa il nostro senso di responsabilità e i nostri valori. I contrattempi che ci accadono mettono in crisi il nostro equilibrio

THE WHALE (2022) di Darren Aronofsky. Girato in formato 4:3 è un film tratto da un dramma teatrale che si svolge in una stanza. Brendan Fraser (l’attore della trilogia La mummia, ormai dimenticato da tutti) ha vinto l’Oscar al miglior attore, mentre un altro Oscar è andato al miglior trucco e acconciatura. La balena (the whale) è un professore di letteratura che vive facendo lezioni on-line senza mai mostrare il suo volto, a causa della sua pinguedine che non lo fa più uscire da casa e lo costringe a spostarsi con un deambulatore. Uno di quei film angoscianti basato su personaggi-mostri e che tuttavia, perciò va visto, parla a tutti noi. Quanta rabbia può avere dentro una figlia adolescente? Quanti sensi di colpa può avere dentro un padre? Quanta solitudine, tristezza, dolore proviamo noi tutti tanto da limitare al massimo le relazioni sociali?  E che cosa possiamo fare di buono nella vita, anche quando abbiamo già abbondantemente sbagliato tutto? Domande che questo film ti rimanda “con un personaggio che – in gran parte, grazie al suo straordinario interprete – è complesso, disperato ma a tratti persino divertente, pienamente e luminosamente umano” (Giovanni Bogani)

(THE) WIFE (2017) di Bjorn Runge, regista svedese.  Lo scrittore Joe Castleman (Jonathan Price)  vince il premio Nobel. Con sua moglie Joan (Glenn Close), siamo nel 1992 nel Connecticut, partono per Stoccolma accompagnati dal figlio David (Max Irons)  scrittore alle prime armi che si sente represso dal padre. Durante il viaggio e la permanenza a Stoccolma prima della giornata della premiazione, Joan rivive il passato quando giovane studentessa si innamorò di Joe suo professore che per amore di lei abbandonò moglie e figlia. Mi fermo qui per un film che si fa vedere. Faccio notare soltanto che anche Alessandro Gassman ha fatto un film con Proietti che vince l’Oscar e viene accompagnato dal figlio a Stoccolma a riceverlo. Ma questo film italiano è invedibile.

THREE BILLBOARDS OUTSIDE BENNING, MISSOURI (3 manifesti a Benning, Missouri) Questo film doveva vincere la Mostra del Cinema di Venezia 2017, ma invece ha solo vinto il premio per la sceneggiatura. Tutti quelli che come me amano i fratelli Coen si animano se tra i protagonisti di un film ci sono Frances McDormand (moglie di un Coen) e Woody Harrelson ( True detective). Ma il film scritto e diretto dal commediografo irlandese Martin McDonagh (1970), con protagonisti anche Sam Rockwell, John Hawkes e Peter Dinklage, è bellissimo per la storia, i dialoghi, il montaggio, l’atmosfera che crea. Una mamma alla quale hanno stuprato e ucciso una giovane figlia, fa affiggere tre manifesti dove se la prende con lo sceriffo perché le indagini languono. Solo che lo sceriffo è un brav’uomo ed ha un brutto cancro. Questo è lo spunto, e così si capisce che è un film sulla rabbia, ma la rabbia genera rabbia. Imperdibile, quando lo faranno in Italia.

TOY STORY 4 (2019) di John Lasseter e Josh Cooley. Dal primo Toy Story sono passati quattordici anni e la Disney/Pixar per il me too ha fatto fuori nientedimeno che il geniale John Lasseter. Nei primi tre Toy Story i personaggi femminili hanno sempre avuto relativamente poco peso e sono stati per lo più rappresentati da una sola figura, adesso la ventata di femminismo alla saga l’ha portata la sceneggiatrice Stephany Folsom. Molte eroine  dunque, a cominciare da Bo Peep che usa il bastone da pastore come arma e gancio per scivolare sulle corde, per finire con Gabby Gabby. Questa è una bambola che, per un difetto di fabbricazione al suo riproduttore vocale, non ha mai trovato una bambina che la volesse. Nei primi tre film vedemmo sviluppato l’arco narrativo dedicato alla crescita di Andy e il suo rapporto con i giocatoli, con Woody a capo del gruppo perché considerato giocattolo preferito. Il film precedente si chiudeva con Andy che regalava a Bonnie tutti i giocattoli prima di partire per l’università. In questa quarta avventura il protagonista assoluto è Woody, accanto a lui Forky, un nuovo giocattolo costruito con una forchetta. Forky deve ancora capire cosa significa essere un gioco e non spazzatura. Woody dovrà compiere un viaggio sia interiore che effettivo per cercare di capire quale sia il suo posto nel nuovo mondo che lo circonda. Lo aiuta la pastorella Bo Peep, una sopravvissuta, indipendente e fiera che gli mostrerà un altro punto di vista sul significato dell’essere giocattoli. Insomma una genialata commovente, soprattutto nel secondo tempo, che nell’edizione italiana presenta le voci di Angelo Maggi (è la voce di Tom Hanks) che sostituisce Frizzi  e  Luca Laurenti che interpreta Forky.

TOLO TOLO (2020) Se ci fosse ancora Rodolfo Sonego, lo sceneggiatore di tanti film di Alberto Sordi, Luca Medici avrebbe potuto affidarsi a lui per inventare storie sul personaggio “Checco Zalone”. Ma oggi Luca Medici, per costruire un nuovo film ha intelligentemente pensato a Paolo Virzì, l’unico che ha a che fare con la commedia all’italiana. Virzì però non firma la regia perchè Zalone in un film di Virzì sarebbero stati massacrati da alcuni cinefili pretenziosi. Tutta questa premessa per dire che finalmente Luca Medici nuota tolo tolo, ha fatto un vero film ( non una serie di sketch di 8 minuti l’uno attaccati) con un intreccio, un montaggio, inserti musicali, dialoghi, location propri di un film vero per il cinema. Un film interessante che può piacere a chi ama il cinema e magari io non comprendo come possa piacere anche ai ragazzini, nonostante il finale “animato” strizzi l’occhio ai bambini. Ma se avrà successo, se lo merita, perchè Medici è coraggioso, non dorme sugli allori e ha capito una cosa semplice. Così come Troisi era Troisi in tutti i film che ha diretto ma non era etichettabile politicamente (anche se era di sinistra è ovvio), così Checco non è etichettabile. Si usa dire che è politicamente scorretto: per quanto mi riguarda vedere Nichi Vendola nel film che parla come parla Vendola, cioè vedere raffigurata la verità, forse nell’Italia del 2020 è da considerarsi una cosa estremamente scorretta. Ma la politica finalmente non sta più al primo posto, come si diceva una volta, e si può andare al cinema con la famiglia per godere di uno spettacolo. Se poi uno si aspetta che si rida a crepapelle, ha sbagliato film. Tutto qui.

TRE PIANI (2021) Nanni Moretti tre anni fa (ormai) adatta il romanzo omonimo di Eshkol Nevo, ambientato a Tel Aviv, e lo trasloca a Roma. Padri tossici, mariti infedeli o assenti, donne che amano troppo, bambine incustodite e fantasmi borghesi. In un condominio del quartiere Prati in quelle stanze ognuno fa i conti con le proprie vite. Triste ma vedibile nonostante il regista sia lui a non abbandonare la sua confort zone: soliti attori per solite performance. Il più inespressivo è imbarazzante, Scamarcio; la Rohrwacher fa la Rohrwacher, l’esaurita, la Buy ha una bella parte e si difende, Moretti fa il padre. Meglio gli attori giovani, Moretti non ci sorprendi più…

TRIANGLE OF SADNESS (2022) Questo film di Ruben Östlund (1974), al suo debutto in lingua inglese, premiato con la Palma d’Oro a Cannes come lo era stato anche The Square, conferma che l’autore svedese sa come “intrattenerti” e interessarti per 150 minuti. Confezione perfetta, spunti anche esilaranti ma stavolta la metafora sulla lotta di classe e sugli influencer appare talvolta così scontata da lasciare interdetti. Ostlund sfonda porte aperte, la terza parte sta tra la Wertmuller di Travolti dal destino e la magnifica serie Lost; la seconda ambientata su una nave da crociera per magnati ripropone gli imprevisti che i ricchi non sanno governare, come tutti; la prima mette in scena due bellissimi modelli alle prese con i soldi. I significati sono ovvi ma Ostlund è interessante. 

TROPPA GRAZIA (2018)  Un film scritto e diretto da Gianni Zanasi. Lucia è una geometra precaria con una figlia , Rosa, schermitrice, un amore finito e tenta di sopravvivere cercando di affrontare i problemi e di far le cose per bene. Incaricata di fare un rilevamento catastale per un grosso investimento immobiliare, si accorge che nelle carte c’è qualcosa che non torna. Ma proprio su quel terreno le appare la Madonna che le chiede di andare dagli uomini e far costruire una chiesa. Questa apparizione lei la considera una sfiga e tenta di far ragionare la Madonna che le sta chiedendo una cosa impossibile. Una bella storia costruita su Alba Rohrwacher. Un’attrice che non mi è mai piaciuta (recita sempre la donna dolente) ma che qui funziona molto bene. Il film, secondo me, manca di quell’ironia che avrebbe stemperato un realismo troppo spinto. O vai su Bunuel oppure usi l’ironia, non puoi girare un film come se la storia fosse vera.

TUTTI PER UNO UNO PER TUTTI (2020 su Sky) Giovanni Veronesi confeziona questo film natalizio con Ugo Chiti avendo, forse, in mente l’Armata Brancaleone. Garbato, con due ragazzini e tre soliti attori (Mastandrea, Papaleo e Favino) che insieme dovrebbero fare Gassman. Aggiungo che soltanto Sydney Sibilia con la serie “Smetto quando voglio” ha il merito di essersi ispirato alla commedia italiana, che esiste se mette in scena dei tipi ben definiti. Qui abbiamo attori che, complici una sceneggiatura da lockdown, si divertono a fare caricature. Favino come  può recitare la battuta “tanto va la gatta al largo che ci lascia lo zampino”? E Papaleo “al lardo, non al largo, è che è, al mare?”.

TUTTO PUO’ ACCADERE A BROADWAY Prodotto da Wes Anderson, ecco a voi la vecchia commedia tutta basata sulla sceneggiatura. Un tuffo in un cinema che non c’è più. Siamo a  New York dove Isabella Patterson, che si si chiama in realtà Izzy Flinksteins, fa la escort col nome di Glo Sticks. Una notte incontra un regista di Broadway, Arnold Albertson, cioè Owen Wilson, che si nasconde sotto il nome di Derek Patrick nella sua stanza al Barclay di New York. Lui le lascia 30 mila dollari in modo che lei abbandoni la professione di escort e realizzi il suo desiderio di  recitare. Così se la ritrova col suo vero nome, Isabella Patterson, al provino della commedia che ha sta mettendo in scena per sua moglie Sandy. Però Isabella ha una psicanalista, Jane, una Jennifer Aniston in gran forma, fidanzata con Joshua, sceneggiatore della commedia e già pazzo della escort, ora attrice. E Joshua è figlio del detective George Morfogen, che lavora per un vecchio giudice, Austin Pendleton, in cura dalla psicanalista Jane perché fissato con Izzy-Isabella-Glo. Basta così, siamo alla screwball comedy (commedia svitata) degli anni trenta, quando nasceva Bogdanovich (1939). O alla Billy Wilder. Dialoghi, ritmo, pochade, coppie che scoppiano e si ritrovano.

ULTIMA NOTTE A SOHO (2021) Edgar Wright, regista scoperto con Baby Driver, ha voluto raccontare gli anni più belli e colorati di Londra nel 1965. Wright mi piace perchè è una enciclopedia musicale, basta sapere che ogni fine anno pubblica i suoi 100 dischi preferiti (molti dei quali non finiti in classifica). Anche in questo film ho apprezzato la musica (da You’re my world di Cilla Black sino alla mitica Elosie di Barry Ryane) e le due protagoniste (Eloise e Sandie, interpretate da Thomasin McKenzie e Anya Taylor-Joy). Poi tra passato e presente, deliri e incubi, il film diventa un horror alla Argento (autore prediletto da Wright) e non vedo l’ora che finisca. Il tempo di sorbirsi la spiegazione finale e tutti a casa delusi. 

UN ALTRO FERRAGOSTO (2024) Nel 1996 Virzì aveva raccontato la storia di due gruppi di amici che si ritrovano ad agosto vicini di casa nell’isola di Ventotene. Un gruppo di amici (i Molino) con Silvio Orlando (Sandro) e la sua compagna Laura Morante, erano “di sinistra”. I vicini burini (i Mazzalupi), con Ennio Fantastichini, Piero Natoli, Sabrina Ferilli, Paola Tiziana Cruciani, erano qualunquisti, volgari e disinteressati alla politica. Furono dissapori, tensioni, provocazioni, ma ci furono anche un colpo di Beretta calibro 9 e un paio di amori incrociati.Oggi (Un altro Ferragosto) i Molino e i Mazzalupi tornano a Ventotene, i primi per trascorrere l’ultima estate con Sandro, malato terminale, e i secondi per festeggiare un matrimonio molto social di Sabri, giovane influencer. Il tempo ha portato via Franceschini e Natoli, e sono arrivati Christian De Sica, Vinicio Marchionni, Emanuela Fanelli.Nel sequel noi spettatori non ci abbiamo guadagnato, anche perchè la società italiana pur ricca di social, influencer, nuove coppie e app, continua ad interrogarsi malinconicamente su (anti)fascismo e democrazia. L’unica nostra speranza è Tito, il nipotino di Silvio Orlando. I rossi antichi come quest’ultimo, alle prese con l’igiene delle parole, si disturbano per “radical chic” e non hanno ancora capito una cosa fondamentale: che nel 2024 chi non riesce a scegliere tra Biden e Trump è pericoloso quanto i fasci. Magari in un altro ferragosto ne riparliamo…

UN ALTRO GIRO (2020) Il danese Thomas Vinterberg firma questo film che ha vinto l’Oscar al miglior film straniero. Martin (un grande Mads Mikkelsen) , un professore di scuola superiore, con i suoi amici prova la teoria del norvergese Skarderud, secondo il quale una dose giornaliera di alcol fa bene all’umore. Comincia come un esperimento scientifico per cambiare in meglio la vita e approda ad un finale convincente. Il film evita benissimo i due scogli ( superomismo o moralismo), esaltare la trasgressività o compatire gli alcolisti.  Infatti Vinterberg nella patria di Kierkegaard si interroga su cosa significa “vivere”, sulla libertà e sull’importanza di saper osare. Egli, come ha dimostrato ne “Il sospetto”, ha una sua profondità e un suo stile. 

UN AMICO STRAORDINARIO (2019) di Marielle Heller. Delizioso. Nel 1998 il giornalista di New York Lloyd Vogel, sposato e con un figlio neonato, viene incaricato dalla rivista Esquire di scrivere un articolo di 400 parole su Fred Rogers, pastore protestante e conduttore del famoso programma televisivo per bambini, Mister Rogers’ Neighborhood. Giornalista investigativo ma adulto depresso e in conflitto con il padre, Lloyd trova in Rogers un interlocutore spiazzante. Il rapporto con gli altri, saper perdonare e controllare la rabbia, un bel film per tutti noi umani 

UNA FAMIGLIA Questo film presentato a Venezia 74 è insopportabile per le ambizioni di Sebastiano Riso, al suo secondo film, il quale si presenta come Autore e, come se non bastasse, anche narratore di fatti veri appurati dopo ricerca sul campo. Insomma, ecco a voi un nuovo Rossellini. La tematica è quella dell’utero in affitto, ed è portata avanti attraverso la famiglia di Vincent, 50 anni di Parigi, ma ha tagliato ogni legame con le sue radici. E Maria, più giovane di quindici anni, cresciuta a Ostia, ma non vede più la sua famiglia. Patrick Bruer (lo ricordate nel delizioso “Cena tra amici”) e Micaela Ramazzotti formano una coppia che sotto la normalità della vita quotidiana hanno come fonte di reddito l’utero di Micaela. Mi fermo qui perché vi lascio immaginare l’ennesima interpretazione della Ramazzotti “sballata” la quale forse aspira all’Oscar andando dietro a cotanto Autore. Sapete dove rinvenite l’Autore? Nei dettagli, piccoli particolari ripresi in piano piano (come in Breaking bad), oppure in un piano sequenza che vuol sempre suggerire: lo vedete o no quanto sono bravo?

UNA FAMIGLIA VINCENTE -KING RICHARDS (2021) di Reinaldo Marcus Green. Questo è un film non sul tennis (anche se ci sono attori nelle vesti di Jennifer Capriati, Arantxa Sánchez Vicario, John McEnroe, Pit Sampras e allenatori come Rick Macci e Paul Cohenma) ma su un uomo, Richard Williams, padre di Venus e Serena (un Will Smith ridicolo), il quale dopo un’intera vita di umiliazioni riesce a trasferire alle proprie figlie il sogno di divenire le più grandi campionesse. Ora nel mondo di padri autoritari e pazzi che hanno un sogno sulle doti dei propri figli ce ne sono tantissimi e questo film invece di criticarli li esalta senza alcuna ambiguità. Sposa la versione di Richard, infatti le due figlie avallano in qualità di produttrici esecutive una biografia celebrativa del padre- padrone. Di tennis giocato se ne vede pochissimo, quindi le straordinarie doti di Venus e Serena Williams non si spiegano.

UNA STORIA VERA (1999) David Lynch racconta una storia vera e quindi la rispetta, infatti il titolo originale è: The Straight Story, perchè il vero cognome del protagonista è Alvin Straight e “straight” significa “dritto”, “lineare”, “semplice”. Straight (un meraviglioso Richard Farnsworth), 73 anni, che cammina con due bastoni e non ha patente, parte su un tagliaerba con rimorchio per farsi 317 miglia e far pace col fratello  infartuato Lyle con cui non parla da dieci anni per una lite. Un film on the road dove non si incontrano malintenzionati e ci si immerge nella natura. Dove il tagliaerbe rappresenta la lentezza, la malinconia della vecchiaia che ci costringe a tornare indietro per rimediare, per far pace con noi stessi e con gli altri. Film, appunto, controcorrente, per nulla hollywoodiano, adatto a pensare, adatto a chi guarda i cieli stellati. Il protagonista nel cinema fece la comparsa, poi il caratterista, ma ebbe una nomination all’Oscar per Arriva un cavaliere libero e selvaggio (1977) e una per questo film. Nel 2000, malato terminale, si è tolto la vita.

UN GIORNO DI PIOGGIA A NEW YORK (2019) La commedia di Woody Allen finita due anni fa e bloccata dagli Amazon Studios per via del mee too, ripropone Allen e Storaro (fotografia) in una Manatthan non più in bianco e nero e con le musiche di Gershwin. Gatsby (Timotee Chalammet) e Ashleigh (Elle Fanning) sono due fidanzatini conosciutisi nella piccola università che frequentano, arrivano nella città natale di lui per passarvi un week end romantico. Lei è di Tucson, Arizona, lui come al solito è Woody sotto mentite spoglie, ama i vecchi film e i locali retrò. Insopportabile la Fanning con i suoi pulloverini e gonnelline che mettono in evidenza le sue gambone; Liev Screiber fa il ruolo di un regista ma il doppiaggio italiano gli mette la voce di Ray Donovan (la serie), così tutto si mischia.”La vita reale è per chi non sa fare di meglio”, è la frase chiave del film. Anche se stavolta Allen costruisce una storia con prefinale e finale, il suo far film come in una catena di montaggio (finisci uno cominci l’altro) ha preso il sopravvento sull’ispirazione. Da un Autore con un pubblico di devoti non ci si aspetta di pestare l’acqua nel mortaio

VICE – L’UOMO NELL’OMBRA  (2019) Adam McKay, dopo tanti anni  di cinema e televisione comica, con La Grande Scommessa vinse, non si sa come, l’Oscar alla sceneggiatura, e adesso rifà un film senza bussola, non a fuoco, un po’ Michael Moore, un po’ Scorsese, un pò Oliver Stone. C’è una scena che vi voglio descrivere per spiegare il film. In un ristorante un cameriere illustra le pietanze da scegliere ai clienti, che sono tutti uomini di potere. Solo che le pietanze sono opzioni politiche e alla fine della scenetta i clienti dicono: prendiamo il menu completo. E’ una metafora, che vorrebbe alleggerire, una delle tante usate dal regista per descrivere un vero “pezzo di merda”, l’ex vice presidente di Bush jr, Dick Cheney. Ma tutte queste metafore, spiegazioni, informazioni, appesantiscono. Un film didascalico, che intende descrivere l’ascesa al potere di un uomo malvagio, a causa di una moglie troppo ambiziosa, capace dopo l’11 settembre di fare una guerra all’Irak di Saddam, solo perché gli americani volevano una reazione contro uno Stato. Con la conseguenza di procurare migliaia di vittime innocenti e di far nascere l’Isis. Il potere mondiale, assoluto e senza più regole, voluto da Cheeney, ha travolto trattati  e diritti, e a lui dobbiamo la barbarie che è diventato il mondo. L’abc che hanno imparato tutti, compresi gli italiani, è che alle cose va cambiato il nome. “Effetto serra” incute paura, ” cambia-mento climatico” no.  E poi bisogna parlare alla pancia dei cittadini, mai al cervello. Gli attori Amy Adams, (moglie di Dick Cheney), e Christian Bale, ingrassato davvero di oltre 20 kg., oltre che il produttore Brad Pitt, meritavano, come noi, molto di più.

WEST SIDE STORY (2021) To Dad. Steven Spielberg sui titoli di coda rimuove un segreto perchè a 75 anni ha rielaborato la separazione dei genitori ma quel trauma ha condizionato la sua vita e la sua opera che esalta l’amore, i legami e l’alterità. E’ un film sulla memoria. Del cinema, dello stesso Spielberg che aveva 10 anni quando il padre portò a casa il primo album di musica popolare e non riusciva a smettere di ascoltarlo. Imparò subito a memoria il numero Gee, Officer Krupke (quello buffo, dei Jets nel commissariato). 
Rilettura di “Romeo e Giulietta”, West Side Story non racconta forse di ‘alieni’ che si oppongono all’ordine stabilito e alle ingiustizie, provando a cambiare il mondo? Maria e Tony non sono due irriducibili innamorati che sfidano la realtà e si mettono a cantare per raccontarla più bella di quanto non sia? “Eminentemente politica, la versione di Spielberg asseconda quella visione, attraverso la musica, il cinema, l’occhio incantato dell’amore, ma costruisce per contro un universo di linee da varcare, di barriere da abbattere, di reti da scalare, di fossi da attraversare, di scale da salire, di tutto quello che separa gli amanti, di tutto quello che devono vincere per amarsi”(Marzia Gandolfi). Ma Steven a noi quale navicella ce lo ha portato?

WIDOWS EREDITA’ CRIMINALE (2018) Steve Mc Queen (1969) è il regista di “12 anni schiavo”. Quanto sia bravo, in questo film  lo si nota in un piano sequenza con la macchina da presa fissata sul cofano dell’auto di Colin Farrell (il politico Jack Mulligan). Questi ha fatto un comizio in una zona dismessa di Chicago e in auto raggiunge la sua ricca villa, così in tempo reale capiamo l’urbanistica del distretto in cui ha luogo la vicenda. La storia è ben costruita. Una rapina finisce male, muoiono in un incendio tutti i rapinatori, ma il mandante pretende pure, dalle vedove, i soldi rubati che sono andati bruciati. La vedova del capo-banda trova poi un’agenda con gli appunti del marito per un futuro colpo milionario ai danni del politico corrotto e, persa per persa, ci prova. Viola Davis è la protagonista, insieme con Michelle Rodriguez e la splendida polacco-australiana Elisabeth Debicki (1990), che avevo scoperto nella serie tv “The night manager”. Per chi non ama Roberto Vecchioni (alias: poesia e messaggio), un heat-movie (i film sulle rapine) imperdibile.

WOMAN IN GOLD (2015) di Simon Curtis. La vera storia di Maria Altmann e della sua lotta per ottenere dallo stato austriaco il quadro di Klimt che decenni prima i nazisti sequestrarono alla sua famiglia. Helen Mirren e Ryan Reynold sono i due protagonisti (ebrei che vivono in California avendo dovuto lasciare l’Austria) che rendono il film interessante perchè incerto sull’esito finale e condotto grazie al carisma della Mirren su un livello medio accettabile. I personaggi sono ben tratteggiati ed evolvono.