Superbonus/ La grande ristrutturazione populista del pd

Da diversi giorni Luciano Capone conduce sul Foglio una meritoria battaglia per la verità sul Superbonus 110 per cento e più in generale sul caso delle previsioni di spesa sistematicamente sballate, per decine di miliardi, da parte del ministero e della ragioneria (tema del suo articolo di oggi). Per chi si fosse perso le puntate precedenti, riassumo l’essenziale: il Superbonus, certamente giustificabile nell’emergenza, quando la pandemia rendeva necessarie soluzioni di impatto immediato per far ripartire l’economia, è stato subito trasformato in una sorta di pozzo di San Patrizio (peraltro con il favore dell’intero centrodestra, a cominciare da Giorgia Meloni, che ne ha chiesto più volte proroga ed estensioni) aprendo una voragine nei conti pubblici la cui profondità non siamo ancora riusciti a sondare.

In tal modo, peraltro, si è ottenuta una sorta di patrimoniale alla rovescia, in cui i soldi di tutti i contribuenti, compresi i più poveri, sono andati a pagare i lavori ai proprietari di case, cioè al segmento meno bisognoso (il caso dei sei castelli citato spesso da Meloni è efficace retoricamente, ma in fondo è il meno significativo).

Come se tutto questo non bastasse, la settimana scorsa l’Istat ha certificato che la misura è costata quaranta miliardi – quaranta miliardi – più di quanto preventivato soltanto tre mesi fa, nella Nota di aggiornamento al Def, che a sua volta correggeva al rialzo (altri venti miliardi) i conti del Def di aprile. Una sfilza di previsioni clamorosamente sbagliate, tutte ovviamente per difetto, che solleva tra l’altro un problema democratico e costituzionale (i parlamentari votano un provvedimento che costa una certa cifra, poi si scopre che costa un multiplo di quella cifra: chi ne risponde? Chi lo ha deciso?).

Di fronte a un simile scandalo, ci si aspetterebbe che i partiti dell’opposizione fossero i primi a chiedere al ministro dell’Economia e ai suoi tecnici di riferire alle Camere. Ma certo un simile intervento non poteva venire dal Movimento 5 stelle, che con Giuseppe Conte guidava il governo che ha lanciato il Superbonus, e tanto meno dal Pd, sia perché parte di quello stesso governo, sia perché ansioso di consolidare l’alleanza con i grillini. Il Superbonus si configura così come un caso di scuola, al tempo stesso, di malgoverno e malopposizione, o se volete come l’effetto più radicale del bipopulismo. Secondo gli ultimi calcoli, il costo ha raggiunto ormai i centocinquanta miliardi, più di tutti i peggiori esempi di malagestione della spesa pubblica della storia repubblicana.

Una scelta tanto più sconvolgente – ripeto: non la misura in sé, quanto la decisione di non porre alcun limite nel tempo e nella portata, di non preoccuparsi nemmeno di quanto avrebbe potuto venire a costare – perché approvata e ancor oggi difesa da quegli stessi dirigenti del centrosinistra che dagli anni novanta fino all’altro ieri hanno rivendicato il rigore di bilancio e l’avanzo primario come i principali risultati dei loro governi. Un silenzio imbarazzato sarebbe almeno un primo segno di consapevolezza, ma ne siamo ben lontani.

Un indice infallibile dell’effetto regressivo che ogni accostamento ai cinquestelle ottiene sui dirigenti del Pd è dato infatti dagli argomenti da loro utilizzati a difesa della misura, degni veramente dell’universo trumpiano dei fatti alternativi, come l’idea che il Superbonus si ripagherebbe da sé, in tutto o in grandissima parte. Una tesi che non richiede particolari competenze di economia per essere confutata: se così fosse, non si capirebbe perché mai il governo dovrebbe privarsi per il futuro di una simile manna, e soprattutto cosa aspettino a copiarcelo gli altri paesi, risolvendo una volta per tutte il problema della povertà e della fame nel mondo.