Sergio Mattarella l’unico riformista rimastoci

Devo confessare che Mattarella nel 2015 quando divenne Presidente non mi entusiasmò affatto. Il suo mutismo, la sua flemma, la sua famosa legge che ai miei occhi aveva stravolto il maggioritario, me lo facevano sembrare un personaggio davvero “inutile” nel panorama italiano. Ma dopo nove anni tutto è cambiato e oggi non sono il solo a poter dire che Sergio Mattarella è rimasto l’unica speranza riformista in un panorama estremista, l’unico fiorellino che spunta nel deserto del populismo. Il presidente mi appare come l’unico capace di intendere un discorso sul riformismo che di seguito riporto con le parole di Mario Lavia.

C’è è ancora spazio per il riformismo? Molti indizi sembrano dire di no. E non solo in Italia, dove agiscono dei fattori particolari (per quanto in asse con le tendenze europee e persino mondiali) come l’ondata populista che da noi non si ferma. Quali sono queste tendenze? Sono quelle di una polarizzazione crescente tra – le chiamiamo così per comodità – destra e sinistra. O tra ricconi e disperati. Tra pace e guerra. Tra vita e catastrofe. E potremmo continuare. Ora, il riformismo per affermarsi ha bisogno di un contesto diverso: non necessariamente di una condizione di benessere, come spesso si crede (furono i programmi riformisti a ricostruire l’Europa che era uscita distrutta dalla Seconda guerra mondiale così come fu Franklin Delano Roosevelt a salvare gli Stati Uniti dopo il ’29), ma quantomeno di un clima di ragionevolezza e di pace. Come può, in questo contesto radicalizzato e persino nichilista venir fuori un discorso pacato, pragmatico, razionale, positivo e ottimista, tutte caratteristiche, queste, del metodo riformista? Ecco: Mattarella è il protagonista di un discorso pacato, pragmatico, razionale, positivo e ottimista.

D’altronde, ognuno vede la gente, le persone in carne e ossa, gli inquilini della porta accanto: vi pare che siano disposti a seguire un programma di responsabile crescita economica o un moderno discorso di razionalizzazione delle risorse o che, piuttosto, siano pronti a mettersi ogni mattina il coltello tra i denti per arrivare a sera? La risposta, sulla base dell’esperienza quotidiana, è la seconda. Ed è questa nevrastenia individuale e collettiva che sospinge il trionfo del populismo affluente alle politiche sovraniste ed egoiste della destra, senza dimenticare gli imbonitori “di sinistra” che si dicono contro il sistema pur essendone un puntello non secondario.

Da dove discende questa mutazione genetica della sinistra, e cioè, in sintesi, del Partito democratico, quel partito che era nato proprio per incarnare e per portare avanti una politica di riforme in un Paese sclerotizzato, vecchio, diviso? Discende da un’analisi disperata della situazione. Cioè dall’idea che si sia entrati in una fase di “resistenza” (e la “r” vorrebbero scriverla con la maiuscola: Bella ciao non è forse il nuovo inno?) nella quale la prospettiva di andare al governo sostanzialmente non esiste e forse non è nemmeno desiderabile perché troppo impopolari sarebbero certe scelte da compiere, e il gruppo dirigente del Pd non conosce altra politica se non quella ammantata di intransigente settarismo che concede un infantile primato a un’astratta purezza latamente estremista. Cioè tutto il contrario della politica riformista, che ricomprende necessariamente la necessità di sporcarsi le mani, non solo nella mediazione con gli altri ma anche nella ricerca di risultati parziali, anche molto parziali, e di piccoli avanzamenti successivi – così diceva Emanuele Macaluso – che di per sé significano poco ma che si spiegano meglio nel quadro di un pensiero generale di trasformazione.

E invece “resistere resistere resistere” potrebbe essere il motto dell’attuale Pd, che non dista poi molto dal substrato populista (che lì prende una piega demagogica e clientelare) del Movimento 5S di Giuseppe Conte, simbolo del nuovo trasformismo di estrazione politica meridionale (Sabino Cassese, “Le strutture del potere”, Laterza). Per questo i due partiti sono più o meno appaiati nei consensi: perché votare Pd o Conte non fa poi questa gran differenza.

La declinazione moderna di parole come “meritocrazia” nell’epoca della “mediocrazia”, come la definisce il sociologo canadese Alain Deneault citato da Marco Bentivogli (Licenziate i padroni, Rizzoli) ha sintetizzato così questo concetto: «La facilità con cui in troppi casi i mediocri vanno al potere».

È persino banale applicare questo concetto della “mediocrazia” alla classe politica italiana che ormai da tempo non ha nulla a che fare con l’idea novecentesca di élite intellettuale.

È drammatico vedere come la breve stagione di Mario Draghi, di cui si glorificava “l’agenda”, abbia seminato ben poco nel terreno inaridito di quell’area che va grossomodo da Stefano Bonaccini a Matteo Renzi passando per un pulviscolo di sigle e di personaggi, tutti incapaci di mettere “ciccia” attorno allo scafo elegante della parola “riformismo”. Aveva ragione Fabrizio Cicchitto quando disse: «Al di là di Draghi non c’è vero riformismo. Mi sento ottimista per l’immediato presente, ma abbastanza sconfortato rispetto al futuro». Dilagano sovranismi e populismo, intorno è silenzio.

Ecco il problema: l’assenza di un progetto riformista che vada oltre la mera difesa del welfare del Novecento, che è una battaglia, questa sì, minimale. Ridotti a mercanteggiare qualche posto nel Pd o a scannarsi tra partitini piccoli piccoli, i riformisti italiani che sembrano aver gettato la spugna e disertato la battaglia delle idee, appaiono oggi i veri sonnambuli nell’epoca dell’antipolitica.