L’operazione speciale di Conte in versione pacifista Anni 30

Meriterebbe di passare alla storia come “Operazione Pochette”, quella che Giuseppe Conte prosegue infaticabile e azzimato – senza addosso la divisa e il sudore di quel cafone di Volodymyr Zelensky – dal giorno in cui fece cadere il governo bellicista di Mario Draghi col concorso dell’ex sodale putiniano Matteo Salvini e di un Cavaliere bollito, ma inviperito che il mondo fosse andato contro l’amico di Mosca e appresso a “questo signore”, che la guerra se l’era voluta: «Bastava che cessasse di attaccare le due repubbliche autonome del Donbas».

Giovedì sera, Conte ha rivendicato al Movimento 5 stelle il merito di essersi opposto – solo partito italiano – alla risoluzione del Parlamento europeo, che chiedeva alle istituzioni europee e agli Stati membri di garantire un rilancio dell’assistenza militare e della fornitura di armi e munizioni al governo di Kyjiv perché l’Ucraina vinca la guerra contro la Russia.

La risoluzione strategica pacifista del leader post-grillino merita di essere letta per intero perché, nel gergo sussiegoso cui il suo doroteismo populista ci ha abituato, compendia tutti gli argomenti che dal 1949 (anno di fondazione della Nato) in poi, prima e dopo la caduta del Muro di Berlino, gli amici di Mosca a Occidente hanno sempre utilizzato per censurare la minaccia atlantica allo spazio vitale della Russia.

C’è il rischio dell’escalation nucleare, c’è il pericolo dell’allargamento del conflitto, c’è la preoccupazione per gli effetti economici della crisi, c’è il timore di quel che potrebbe accadere di peggio. C’è soprattutto l’accusa, che è la più efficace dove la massima morale condivisa è “morto io, morti tutti”, di buttare un sacco di quattrini per soccorrere un Paese che deve grattarsi da solo le sue rogne.

Visto che in base alla risoluzione del Parlamento europeo ciascun Paese è invitato a corrispondere almeno lo 0,25 per cento del Pil annuo alla resistenza di Kyjiv, Conte indignato insorge: «L’Italia dovrebbe dunque destinare la folle cifra di cinque miliardi di euro all’anno per le forniture militari all’Ucraina».

Quando il suo cuore batteva ancora a destra e alla Casa Bianca c’era quello che lo chiamava Giuseppi, Conte non aveva fatto un plissé all’ordine di innalzare nel giro di pochi anni di quasi un punto di Pil la spesa militare italiana (da poco più dell’uno al due per cento) e aveva giustificato le rimostranze di Donald Trump. Ma, come si sa, il populismo è mobile e muta d’accento e di pensiero a seconda delle situazioni. Quindi Conte ora può sostenere, sentendosi pure erede di Aldo Capitini, che dare cinque miliardi all’anno a un Paese sotto le bombe, anziché destinarlo, magari con altri centoventicinque miliardi, ai cappotti termici e alle facciate delle seconde case in Italia, è folle. Folle.

Però anche sul fronte opposto a quello pacifista, dovrebbe insegnare qualcosa la martellante operazione speciale di Conte, che bombarda di parole di concordia un Paese già propenso a farsi i fatti suoi e a non vedere, non sentire e soprattutto non parlare di cose che non lo riguardano, con la stessa costanza e dedizione con cui Putin bombarda di missili le case, le scuole e gli ospedali di un Paese che da tempo immemore è riguardato dall’imperialismo russo come da una maledizione.

La lezione è che in Europa – anche se non vogliamo o non siamo capaci di accettarlo – l’Ucraina viene prima di tutto, perché in questa guerra e nei suoi possibili esiti ci sono le radici della possibile rovina o dell’auspicabile salvezza del mondo democratico e della società aperta, per come le abbiamo vissute e conosciute nel nostro sventurato continente per tutto il secondo dopoguerra.

Il crollo del Muro di Berlino non è stata, malgrado le aspettative, la fine della storia delle minacce all’ordine internazionale liberale. Ma il crollo dell’Ucraina sarebbe la fine della storia dell’Europa libera, prospera e solidale e di tutti i diritti e i lussi che ci siamo potuti permettere per decenni, a prezzo di saldo, grazie al generoso ombrello americano. L’Ucraina segna la fine dell’età dell’innocenza di un’Europa in cui in troppi – in Italia la maggioranza – hanno pensato di diventare vecchi senza diventare grandi.

Qualcosa del genere era già successo con l’esplosione dell’ex Jugoslavia e con la pulizia etnica a pochi chilometri da Vienna e da Trieste. Ma era una guerra troppo incapsulata nel tribalismo etnico della costruzione nazional-comunista titina per poterne fuoriuscire. Quindi l’Europa ha potuto aspettare che si accatastassero i cadaveri di Srebrenica, prima che gli Stati Uniti suonassero la sveglia. Ora non è così.

Conte, che ha le furbizie e il talento dei mestieranti politici che hanno successo lucrando sulla miseria morale e materiale che contribuiscono ad alimentare, continua a battere ossessivamente sul tasto della pace, perché sa che è un tasto popolare e che l’opinione pubblica italiana è assolutamente disponibile a interpretarla nei termini più brutalmente mafiosi: dell’ordine della violenza contro il disordine della libertà.

L’ultima rilevazione della Seg dice che tre italiani su quattro riconoscerebbero in tutto o in parte le conquiste territoriali russe in Ucraina pur di far finire la guerra e ovviamente in questa cupidigia di capitolazione a Putin, più che il cinismo, rileva la cecità di un opportunismo stolidamente confidente nella auto-moderazione del Cremlino e disperatamente irritato dall’indisponibilità al sacrificio delle sue vittime.

Conte, come molti a destra e a sinistra, cavalca questa illusione fatale sapendo che lo potrebbe portare molto lontano, visto che le contingenze politiche nazionali e europee oggi imbrigliano i pacifisti di destra e imbarazzano quelli di sinistra, lasciandogli il monopolio del pacifismo Anni 30, che come dovrebbe essere ben noto fa della vergogna non il costo della pace, ma uno dei prezzi della guerra.

Tutte le debolezze e le fragilità dell’Ucraina oggi sono nostre. Derivano dall’irresolutezza morale europea, assai più che dalla forza militare russa. L’Europa traccheggia pure sulla fornitura di munizioni, per non dire sullo sblocco di duecento miliardi di asset della Banca centrale russa congelati nelle banche europee. Fa promesse vaghe e retoriche e non mantiene neppure quello che promette.

Il rifiuto di considerare quella contro l’Ucraina una guerra esistenziale per gli europei, non meno che per gli ucraini, è il sottotesto psicologico e morale dell’atteggiamento prevalente, non solo sul fronte pacifista. Tanti democratici che, malgrado le diversità sull’Ucraina, ritengono Conte un interlocutore alleabile e perfino preferenziale dimostrano quanto questa guerra totale derubricata a conflitto regionale, più che la pietra dello scandalo, sia il trauma che troppi vorrebbero rimuovere e pochi affrontare.