Galli della Loggia, Schiavone e la mia (nostra) fuga dalla politica a Lamezia

Cominciamo dalla fine. Aldo Schiavone ed Ernesto Galli della Loggia presentando (con Gianni Speranza e Giandomenicco Crapis) alla libreria Tavella il loro libro “Una profezia per l’Italia. Ritorno al Sud (Mondadori 2021)” hanno dato la parola ad una studentessa la quale ha garbatamente chiesto quale possa essere la motivazione per non lasciare l’Italia per una giovane come lei. Mi è tornato subito in mente quel che ha scritto il filosofo Roberto Esposito recensendo il libro su “Doppio zero”:

C’è un riflusso perdurante che investe l’intera società civile. Una rassegnazione all’illegalità, al degrado, alla disoccupazione giovanile – io ho tre figli, uno a Londra, una a Berlino e un altro nelle Marche. Lo sanno tutti: a Napoli non si trova lavoro o si trova solo lavoro nero. Un giovane laureato in legge a Napoli – una volta una buona Facoltà –, se è fortunato, va a fare fotocopie gratis in uno studio di avvocato o si occupa di falsi incidenti automobilistici. Questo deriva da cause generali, nazionali, ma anche da un’attitudine locale ad accettare anche l’inaccettabile. Solo se questi due vettori – statale e locale, impersonale e personale – cominceranno a funzionare contemporaneamente si potrà avere una svolta. Come scrivono Schiavone e Galli della Loggia, la mancanza di lavoro al sud è grave quanto quella di Stato – perché Stato e lavoro sono i due passaggi decisivi alla modernità compiuta“.

Il libro di Schiavone e Galli della Loggia è importante perchè esprime, in maniera chiara e senza mezzi termini, una tesi semplice: Oggi non si tratta più di trovare le vie per integrare il Meridione nel resto della Penisola, sia pure in un momento di declino. Si tratta di rifare per intero il Paese, cogliendo un’occasione irripetibile. Per risorgere, l’Italia non ha bisogno di mezze misure all’insegna dei soliti compromessi al ribasso. Ha bisogno di radicalità, di scelte coraggiose, di un nuovo spirito animatore e lungimirante. E soprattutto di donne e uomini nuovi, consapevoli del proprio compito (…). La radicalità della proposta (ripensare l’ordinamento regionale che con la scusa di attuare la costituzione ha portato al potere tanti cacicchi che usano la Regione come ascensore sociale, elargendo benefici a chi ci lavora o ne riceve prebende) si unisce ad un invito pressante a noi meridionali: mandate a casa i politici attuali e sostituiteli con altri più adeguati. Il Sud e l’Italia possono cambiare solo se i meridionali lo vorranno. Solo se essi si convinceranno che cambiare le cose alla fine dipende da loro, non da altri. Che, soprattutto, dipende da loro usare il diritto di voto non solo per chiedere al Paese le cose giuste, ma in modo specialissimo per scegliere da chi essere governati.

Dunque, qual è il dramma del Sud? Sta nella fuga dalla politica da parte dei migliori. Essa avviene più o meno, lo sappiamo bene, anche nel resto del Paese, ma nel Sud è più estesa che altrove, e ha effetti di sicuro più negativi. Oggi persino quello che un tempo era il notabilato meno colto e capace si tiene in genere lontano dalla sfera pubblica: per la cura dei propri interessi preferisce servirsi di questo o quel governante, che del resto non vede l’ora di trovare qualcuno del quale mettersi agli ordini. Sta nel suo depauperamento di energie civili, nel sentimento di sfiducia e di abbandono che vivono i migliori tra i suoi cittadini. Nel loro disimpegno.

C’è da riflettere molto su questa accusa dei due studiosi che io considero non soltanto giusta ma anche ormai consolidata da molti decenni. Noi meridionali siamo stati capaci di far diventare la Regione e la politica un ascensore sociale (lo ha spiegato Gianni Speranza). Per capirci, per non fare paragoni spiacevoli con altre professioni, prendiamo uno come me, un preside. Un mio collega, Giuseppe Gelardi, così ambizioso da diventare prima segretario calabrese dell’Associazione Presidi, dove ha avuto modo di dimostrare tutta la sua inadeguatezza, ha trovato la via di diventare consigliere regionale con la Lega. Il suo cursus honorum è così completo, solo che la scuola non ha perso nulla, e la politica non ha guadagnato nulla. Moltiplicate questo esempio per tutte le professioni e quindi capirete perchè i migliori calabresi si tengono lontano dalla politica.

Cioè, fatemi capire, io preside (non adesso ma quando avevo 50 anni) avrei dovuto mettermi in competizione con i tanti Gelardi  per innovare la politica calabrese? Ma no, io ho solo cercato di fare il mio lavoro al meglio che potessi dedicandomi ad esso ed evitando di intrecciarlo o sottoporlo alla politica. Ho, nel contempo, cercato e cerco ancora di esercitare il mio spirito critico, scrivendo e parlando. Solo che tutti quelli che adesso si lamentano che ci sono 20 sanità regionali, quando avevano nel 2016 la possibilità concreta con il referendum Renzi di cambiare le cose hanno gridato (al lupo, al lupo)  al colpo di Stato  e quelli come me hanno perso, dopo aver esercitato il proprio spirito critico. Insomma, voglio dire, per dare il proprio contributo alla comunità meridionale non c’è affatto bisogno di voler diventare sindaco, consigliere regionale o onorevole. Ognuno può sentirsi migliore degli altri e c’è un solo modo che io conosca per affermarsi: far bene il proprio lavoro. Poi si può dare un contributo critico alla politica, nazionale e locale. Ci si può dedicare alle arti, scrivere libri, far parte di associazioni, insomma il contributo intellettuale è molto più importante di quel che appare. Noi calabresi siamo rimuginanti, ho scritto in un mio romanzo, passiamo la vita a rimuginare su quel che potevamo fare e non abbiamo fatto, sulle nostre sfortune e sliding doors, sappiamo piangerci addosso come nessuno. Ma al fondo di tutto, è semplice, si tratta di capire le persone e individuare i migliori. Tutto qui, non generalizzare e procedere per categorie. Discernere. Capire, tra i cattolici, la differenza che c’è tra don Abbondio e frate Cristoforo, tra i democristiani tra Moro e Fanfani, tra i presidenti del consiglio, tra Draghi e Conte, tra i cantanti, tra Battisti e Caparezza, e così via.

C’è un solo partito oggi in Italia disposto a mettere in discussione l’ordinamento regionale? Non c’è, eppure ieri sera alla libreria Tavella mentre Galli della Loggia spiegava i guasti fatti dai governatori regionali , tutti annuivano con la testa. E allora, di cosa parliamo? Di cose astratte, appunto, rimuginiamo su cosa avremmo potuto fare e non abbiamo fatto, su cosa vorremmo fare ma non faremo mai. Noi meridionali parolai siamo così.

La società civile colta e capace, benché vada via via restringendosi quantitativamente, potrebbe ancora opporre una resistenza all’ascesa della genia degli uomini di partito di partiti inesistenti, dei traffichini senza mestiere, dei manutengoli degli affari più sporchi, degli specialisti nel cambiare casacca a ogni tornata elettorale“. Potrebbe, ma non lo fa. E non lo fa perchè disprezza il merito, perchè tutti pensano di essere i migliori e non sanno discernere chi lo è veramente.

C’è un libro che personalmente ho più appezzato di questo “Ritorno al Sud”. Lo ha scritto il solo Schiavone e si intitola “Storia e Destino” (Einaudi, 2007). La tecnica, con il potere acquisito di decidere sulla vita dell’uomo, ha sostituito la politica nell’azione deliberativa, poiché “È lei che determina la qualità dei nostri bisogni e dei nostri desideri. La politica le arranca dietro, in affanno: non riesce a guidare una rivoluzione cui non sente di partecipare”. È quindi auspicabile una nuova “tecnocrazia”, una democrazia cioè, capace di allinearsi all’immagine del mondo così come si prospetta pianificato dalla tecnologia, un ordine globalizzato, ma dove sono ancora possibili e tutelate le differenze.