Pd o Dp?

«Pd o Dp?»: la battuta non è surreale, perché anche se sembra incredibile scivolare dal fondatore del Partito democratico Walter Veltroni a quello di Democrazia proletaria Mario Capanna sta venendo fuori l’anima “anticapitalista” che ancora alligna come un rampicante su qualche muro del Nazareno.

Ma forse – ragiona qualcuno – è persino meglio che «i matti» (definizione non nostra, ndr) siano usciti subito allo scoperto così da determinare una reazione contraria e si possa passare a una fase più seria della discussione. E infatti ieri c’è stata una reazione e ci sarà nei prossimi giorni.

Certo è che ora che la nave è senza timoniere dalla stiva esce di tutto, compresa una trita citazione di Lenin – ma questo è colore – e vari assalitori del profilo riformatore del partito creato al Lingotto, con Enrico Letta silente che ormai non governa nulla mentre il nuovo arrivato Roberto Speranza ha dato la linea: «Bisogna espungere il liberismo che si è insinuato nel Partito democratico».

C’è da chiedersi a questo punto come il suddetto Veltroni, che pure ha lasciato la politica attiva, possa continuare a restare in silenzio di fronte a questo tentativo di seppellire il “suo” Partito democratico, che tra alti e bassi in questi anni è riuscito a mantenere un profilo riformista, sociale e liberale.

Ma a parte questo, dai toni emersi nella prima riunione dei “saggi” che hanno l’improvvido compito di scrivere un nuovo Manifesto del partito – giacché ritengono superato e pure «brutto» quello del 2008 scritto da Reichlin, Prodi, Mattarella eccetera – è abbastanza verosimile che continuando così la scissione diventerebbe inevitabile e bisognerebbe porsi semmai il problema di come gestirla: cosa accomuna le idee di Nadia Urbinati a quelle del documento laburista di Marco Bentivogli? O fra la linea di Peppe Provenzano e quella di Giorgio Gori?

Qui è veramente difficile il caro vecchio compito dei mediatori, quello che tradizionalmente alla fine s’impone “per il bene del partito”, giacché è arduo fare sintesi tra chi vuole (ancora!) superare il capitalismo e chi ritiene che il medesimo capitalismo abbia bisogno di riforme, ma che è il mondo in cui viviamo e vivremo.

Marx e Lenin a parte, bisognerebbe piuttosto capire se questo Comitatone abbia la legittimità per scrivere completamente la nuova “Costituzione” finendo in questo modo per sostituirsi ai candidati: hanno creato un ginepraio tale che in teoria si potrebbe finire con un Manifesto anticapitalista e un segretario riformista. Meccanismi da manicomio.

È difficile in questo senso dare torto a Stefano Ceccanti, uno dei “saggi”, pronto ad andarsene se non verrà chiarita la funzione del Comitatone che rischia di riscrivere non solo i valori ma anche regole e contenuti, come per esempio le primarie: sarebbe «un’invasione».

Tutto questo sta avvenendo sotto gli occhi di Enrico Letta, che ritiene di poter fare l’arbitro del Congresso ma che ha la responsabilità di aver nominato un Comitatone di saggi sbilanciato a sinistra, come si è visto nella riunione di ieri.

Per la prima volta da tanto tempo si risentono i riformisti “ulivisti” e quelli più recenti come Giorgio Gori: «Il messaggio degli elettori non è “cambiate il Manifesto”, casomai “cambiate la classe dirigente”», ha detto ad Huffington Post. «Avremmo bisogno di un’economia più dinamica e invece discutiamo dell’ordoliberismo, cioè di un fantasma».

Nella confusione generale resta un mistero perché gli “anticapitalisti” tipo Andrea Orlando, Gianni Cuperlo, Laura Boldrini, che nella riunione hanno avuto il fragoroso apporto di Nadia Urbinati e di Emanuele Felice, non appoggino Elly Schlein, la candidatura più di sinistra che verrà formalizzata domani a Roma. La eventuale vittoria della neodeputata bolognese – ha annunciato Gori – metterebbe in discussione la sua appartenenza al Partito democratico. Vedremo quello che succederà nelle prossime riunioni del Comitatone, ma se il buongiorno si vede dal mattino è prevedibile come minimo che si spaccherà.

Può darsi che sia stata una falsa partenza, può invece darsi che sia stato l’inizio della fine, la “deriva francese”, appunto una Democrazia proletaria 2.0, che darebbe forza a Giuseppe Conte e paradossalmente anche a Calenda e Renzi, che proprio su questa scommettono per portare avanti la bandiera riformista.