Se la sinistra è antiamericana. Parla Biagio De Giovanni

– Lei proviene dalle file della sinistra italiana. Come giudica le reazioni di una parte della sinistra alla guerra di Putin?

«Devo confessarle tutta la mia amarezza e il mio sconcerto di fronte a questa guerra. In se stessa, naturalmente, e per le reazioni che vedo in Italia. Nella sinistra italiana, in particolare, vi è di risulta un antiamericanismo diffuso. Essa ha ereditato il peggio di quel che è rimasto del vecchio Partito comunista italiano (PCI). Sta emergendo nelle reazioni di un pezzo importante del popolo italiano qualcosa delle tesi che hanno brillato in tempi passati, quando si pensava che l’Unione Sovietica avrebbe avuto un ruolo mondiale significativo e per lungo tempo.
Quella “spinta propulsiva” che il PCI dichiarò esaurita soltanto nel 1981. Anche qui ci sono tuttavia differenze dal passato: è venuto meno lo scontro ideologico, l’URSS non c’è più, ma quel residuo ideologico si è trasformato in una forma di pacifismo antiamericano.
Lo vedo anche in gran parte delle trasmissioni televisive. Si parla molto più di Biden che di Putin. Come se la colpa fosse dell’America. E l’invasione di Putin, una reazione alla presenza della NATO. Tutto questo esprime in realtà un forte sentimento antiamericano».

– Come mai nella sinistra? È una sinistra che non è mai uscita dalla fine della fase storica precedente?

«Il PCI era un grande partito, così come la Democrazia cristiana (DC), non solo perché aveva un grande consenso di massa, ma perché aveva una grande classe dirigente. Queste classi dirigenti, nella struttura dei partiti d’allora, governavano il popolo, cercando di superare e d’educare le zone di plebeismo.
Quando sono finite e il sistema dei partiti è venuto meno, il popolo è rimasto solo. Sorgono così i Cinque stelle (cf. Regno-att. 8,2018,193). I temi della protesta – “la casta”, “sono tutti disonesti”, la palingenesi sociale, con l’aggiunta dell’“uno vale uno” e così via – trasformavano rozzamente, fino a renderle irriconoscibili, pulsioni presenti nella massa aderente al PCI, perché lì c’era una classe dirigente che le mediava, magari in chiave moralistica, disinnescandone tuttavia la carica eversiva o qualunquista, in favore della differenza morale».

– E Salvini?

«Salvini è Salvini e si comprende in una chiave di lettura più modesta».

– E tuttavia rimane aperta la domanda, assieme allo stupore, su come mai l’adesione convinta all’Europa dei nostri partiti e dei loro leader non ha culturalmente mediato in maniera sufficiente l’antiamericanismo.

«Ciò che qui non è mai davvero passata è l’idea di Occidente composto da America ed Europa assieme. Noi consideriamo l’Europa un’altra cosa dall’America. L’America rappresenta un di più che non viene accolto. Certo l’America è un impero, una leadership mondiale che ha fatto molte guerre, alcune delle quali erano infondate (penso alla Seconda guerra del Golfo), il cui interventismo politico non sempre è stato fondato e motivato. Talora per eccesso, e talora per difetto. Come non menzionare la recente fuga da Kabul (cf. Regno-att. 16,2021,481)?
Ha avuto presidenti pessimi, ma il sistema democratico li ha cambiati, ha ricompreso in se stesso gli effetti negativi. Nella spinta americana ad affermare materialmente, anche con la violenza, la propria leadership nel mondo c’era qualcosa di più rispetto alla vicenda attuale di Putin, che è paradigmatica dei sistemi autocratici.
Anzitutto le motivazioni e la ricerca d’agire entro il diritto internazionale, con il consenso dell’ONU. Nella prima Guerra del golfo, l’Iraq aveva iniziato a invadere il Kuwait; l’Afghanistan fu la risposta all’11 settembre. L’America è stata un impero e certamente la componente della violenza è stata presente. Ma nelle democrazie è comunque una violenza mediata. Ogni civiltà la contiene in sé, ma bisogna distinguere.
Qui la violenza espressa da Putin sta assumendo toni “metafisici”, assoluti. Negli Stati Uniti è stata possibile la nascita di movimenti di protesta di massa. La libertà di stampa è sempre stata garantita e ha svolto un ruolo critico fondamentale. Ha fatto dimettere presidenti. La partecipazione statunitense alla guerra del Vietnam è crollata sulle proteste interne, più che sulle sconfitte esterne.
Nelle dittature, nelle autocrazie no. In Russia se oggi pronunci la parola “guerra” finisci in carcere. La democrazia fa sempre la differenza. Anche se i morti sono sempre i morti e sono uguali ovunque e comunque».

– Lei crede che il problema sia la NATO o la democrazia? Che cosa teme di più Putin?

«La democrazia. Questa guerra va letta anche in relazione all’ulteriore involuzione delle istituzioni democratiche in Russia, un immenso continente che mai ha conosciuto la democrazia politica.
Ma c’è poi anche la volontà d’evitare che ai confini della Russia, nei territori che erano stati Russia, si sviluppi l’occidentalizzazione del sistema politico, motivazione forse centrale. Infatti il sistema politico ucraino andava decisamente in questa direzione. Nei confini che lui considera ex suoi non può entrare l’Occidente, non si può sviluppare un sistema democratico rappresentativo. Più che la NATO è l’Europa che fa paura. Ma soprattutto l’unità dell’Occidente, che peraltro la guerra pare stia provocando.
L’unità dell’Occidente è la sola risposta possibile al declino dell’Occidente, al suo indebolimento, al suo “suicidio”, com’è stato detto. Non a caso Putin stigmatizza un Occidente in preda al degrado etico, di contro a una Russia che mantiene vivi i propri millenari valori morali. Naturalmente non è vero. Ma è vero che l’Occidente appare, in molti aspetti della sua vita, una civiltà in declino, in difficoltà, e l’unità delle sue componenti su alcuni principi di fondo è la sola risposta».

– Stiamo assistendo a diverse forme di pacifismo. Che cosa ne pensa?

«Condivido fino in fondo la volontà di pace, così come auspico che si avvii una trattativa vera, ma a un certo pacifismo vorrei fare questa domanda: se oggi la bandiera russa sventolasse su Kiev, se a Kiev vi fosse un governo fantoccio, antidemocratico, e in tutta l’Ucraina fosse in corso la repressione, la “de-ucrainizzazione”, con la caccia, casa per casa, a tutti coloro che si sono opposti all’invasione, con persone imprigionate e torturate, secondo un vecchio metodo, questa per voi si chiamerebbe pace?
Perché la resa, teorizzata da qualcuno, avrebbe prodotto questo scenario materiale, visto quello che è stato fatto con la popolazione civile nelle zone occupate. Nessuno vuole la continuazione della guerra, ma non basta dire: “pace, pace”. Bisogna almeno aggiungere un aggettivo: “giusta”».