Giungla delle pensioni, 500 mila fortunati la ricevono da 40 anni. Così i conti non torneranno mai

(alberto brambilla) In Italia sono oggi in pagamento 423.009 pensioni previdenziali per il settore privato e 53.270 per il settore pubblico con durata di ben 40 e più anni. Nel settore privato beneficiano di queste pensioni di durata ultra-quarantennale 343.064 donne (81,1%) e 79.945 uomini (18,9%) che si sono ritirati dal lavoro nel lontano 1980 o addirittura ancor prima. Lo scorso anno erano 502.327 con un decremento del 16% rispetto al 2020, pari a 79.318 prestazioni eliminate, molte delle quali purtroppo a causa del Covid-19; per i dipendenti pubblici delle 53.274 pensioni (erano 59.536 nel 2020), 36.372 sono appannaggio delle donne (68,3%) e 16.902 degli uomini (31,7%).

È quanto emerge dalle anticipazioni del 9° Rapporto sul bilancio previdenziale italiano elaborato dal Centro studi di Itinerari previdenziali, che è stato presentato al Senato il 15 febbraio. L’analisi ha riguardato tutte le gestioni previdenziali dell’Inps, lavoratori le cui prestazioni decorrono e sono state liquidate dal 1980 e in anni ancora precedenti, classificate per singolo anno di liquidazione fino a quelle decorrenti dal 2020. Sono così individuati 40 gruppi di ex lavoratori. Questi pensionati sono andati in quiescenza con età medie di 39,7 anni per gli uomini e 42,3 per le donne del settore privato e 39,3 per gli uomini e 42,1 per le donne nel pubblico, età molto basse anche a causa di baby pensioni, prepensionamenti e pensioni di invalidità che a quel tempo venivano usate come oggi si utilizzano Ape sociale, precoci, opzione donna e gravosi.

Giusto per fare un confronto, le età medie dai lavoratori privati andati in pensione nel 2020 sono per anzianità, vecchiaia, prepensionamenti, invalidità e superstiti rispettivamente 61,9; 67,4; 62,1; 54,8; 77,4 per gli uomini, mentre per le donne le età medie per ciascuna categoria sono 61,3; 67,3; 61,8; 53,5; 74,3 (dati in anni e decimi di anno). Sono età medie ancora particolarmente basse soprattutto per anzianità, prepensionamenti e invalidità previdenziale con potenziali durate superiori ai 25 anni. La durata delle pensioni erogate dal 1980 o prima nel settore privato ed ancora oggi vigenti, è in media di quasi 46 anni (età media attuale meno età media alla decorrenza) e nel settore pubblico di quasi 44 anni e non tengono conto, ovviamente, di quelli che sono andati in pensione ad età più mature ma che sono deceduti.

Si tratta di un dato molto importante e che deve far riflettere i decisori politici e i rappresentanti dei lavoratori che chiedono, come la Commissione guidata da Cesare Damiano, continue riduzioni delle età di pensionamento introducendo quella che abbiamo definito una «giungla delle pensioni». Occorre inoltre considerare che affinché il sistema resti in equilibrio è necessario un giusto rapporto tra il periodo della vita lavorativa e la durata della pensione, per evitare eccessive durate o scarsi periodi di vita attiva che penalizzerebbero i lavoratori che oggi con i loro contributi, giovani in testa, consentono il pagamento delle pensioni all’attuale generazione di pensionati e anche nei confronti dei tanti lavoratori che accedono alla pensione ad età regolari.

Se non si aggancia l’età di pensione alla speranza di vita i rischi sono quelli che emergono da durate quarantennali di pensioni sorte molti anni fa per esigenze spesso elettorali e ancor oggi in pagamento. Schiere di lavoratori mandati in quiescenza in età giovani in seguito a norme che tra il 1965 e il 1997 hanno permesso a lavoratrici statali sposate e con figli di andare in pensione dopo 14 anni 6 mesi e 1 giorno di servizio utile, compresi i riscatti di maternità e laurea (una laureata con 2 figli poteva lavorare anche per 8 anni e poi pensionarsi dopo aver versato pochi anni di contributi) oppure 19 anni 6 mesi e 1 giorno di lavoro per gli statali maschi; per i dipendenti degli enti locali il diritto a pensione scattava dopo 25 anni, consentendo così pensionamenti con 20-25 anni di contribuzione (sempre compresi il riscatto della laurea, la maternità o il militare). I prepensionamenti sono stati usati come ammortizzatori sociali e gli oneri relativi sono stati scaricati sul «conto pensioni» e non sul «sostegno al reddito», come fanno molti paesi Ue e come avviene per gli altri tipi di ammortizzatori sociali. Infine, le pensioni di anzianità erano consentite prima dei 50 anni con 30 anni di contribuzione e fino al 1981 erano in vigore permissivi requisiti per ottenere le prestazioni di invalidità e inabilità.

Eppure, ancor oggi assistiamo a proposte di pensionamento con 63 anni di età e 32 di contributi, regola applicata a edili e ceramisti con la legge di bilancio 2022: e si tratta di una mediazione perché i sindacati, anziché puntare sulla riorganizzazione del lavoro prevedendo mansioni correlate alle età e allo stato di salute, chiedevano 30 anni di contributi. Cosa faranno questi pensionati? Se va bene riposeranno, ma la maggior parte di loro a 62 anni farà lavori in nero, con tanti saluti alla lotta all’evasione fiscale. Ci vorranno ancora molti anni per ridurre le anomalie del passato che ancor oggi appesantiscono il bilancio del sistema pensionistico. Ma questo è un monito per i fautori delle troppe anticipazioni, Quota 100, gravosi, Ape social. Considerando anche che sono 2,3 milioni, pari a circa il 14% del totale, anche le pensioni con durata pari a 30 anni e più, liquidate quindi fino al 1991 nei settori pubblico e privato e tuttora in pagamento. Se pensiamo che la percentuale di contributi versati è meno della metà della prestazione incassata (33% di contributi per i dipendenti e 73% la pensione) e il periodo effettivo lavorativo (al netto della contribuzione figurativa) è di circa 30 anni in media, risulterà evidente a chiunque che questi importi e durate sono insostenibili non solo in termini attuariali, ma anche facendo un semplice conto artigianale e ciò mette a serio rischio la tenuta stessa del sistema pensioni.