Luci a San Silvio/Serena Dandini e Amalia Bruni

(Guia Soncini, Linkiesta) Il miglior editoriale su di noi, e nello specifico sulle nostre reazioni all’ipotesi di Silvio Berlusconi al Quirinale, è stato scritto cinquantun anni fa a Milano, o due giorni fa a New York. Comunque: non ora, non qui. Al massimo io posso fornirvi un riassunto dello stato delle nevrosi.

Avevamo vent’anni. Non permetteremo a nessuno di dire che quella è la più bella età della vita, e tuttavia siamo determinati a restare lì, congelati, per sempre, prima di tutto. Prima delle responsabilità e prima dei social, prima dell’euro e prima dello streaming, prima di tutto.

Prima che proprio chiunque pubblicasse un libro: quando ci arrivò a casa “Una storia italiana” (2001, libro di Berlusconi), sembrò la fine del mondo. Cos’è ’sto marketing del prosciutto applicato alle elezioni, applicato ai libri.

Quando era inconcepibile «Abbiamo abolito la povertà» (2018), al massimo la fantasia propagandistica si spingeva a «Un milione di posti di lavoro» (1994).

Avevamo vent’anni – io neanche compiuti – quando ci sembrava che alla Presidenza della Repubblica (1985/92) ci fosse l’uomo più inadeguato di tutti i tempi: adesso, Francesco Cossiga ci sembra un grande intellettuale e quasi quasi ce lo ripiglieremmo, potendo. Non è solo senno di poi: è che il mondo è andato a rotoli in modi che i nostri nonni non potevano prevedere, né i nostri genitori. E i nostri nonni avevano visto la guerra, e i nostri genitori avevano visto il terrorismo.

Avevamo vent’anni quando Carlo litigava con Diana (1995), Martelli litigava con Craxi (1987), e un qualunque viaggio all’estero bastava a fare di te la preferita di tutti gli adulti di tua conoscenza: c’era lo sciopero delle sigarette, la stecca aeroportuale era il dono più ambìto.

Avevamo vent’anni quando i ricchi andavano in carcere, si suicidavano (1993), Di Pietro stava sulla copertina di Sorrisi (1994) come fosse una boy band, e a noi sembrava giusto, perché avevamo vent’anni, Silvio Berlusconi era il male incarnato, era il poster del cattivo, era l’assoluto immorale, e se non sei massimalista a vent’anni ma quando diavolo devi esserlo?

Adesso che guardo ai miei pochi anni di allora avendone ormai cento, adesso che Silvio Berlusconi si candida al Quirinale e noi ci ostiniamo a parlarne come fossimo tutti – noi, lui – quelli di allora, adesso che Michele Serra (forse l’unico punto comune tra i miei vent’anni e i miei cento: il mio intellettuale italiano preferito, e mi dispiace per chi ci tiene a notificarmi che invece ritiene siano meglio Tizio o Caio) ne scrive come fosse una vergogna anche solo pensarci, adesso che Serena Dandini va in tv e legge una lista di nomi di donne a casaccio chiedendo perché una che ha studiato l’Alzheimer non sia qualificata a fare la presidentessa della Repubblica (non so, ma se donna dev’essere ne vorrei una che sappia cosa voglia dire comandare qualcosa, non solo guardare dei vetrini: perché Miuccia Prada in queste liste non c’è mai, tranne quando le fa Natalia Aspesi, che è l’unica a non coprirsi di ridicolo quando si parla di donne al Quirinale?), adesso è tutto chiaro.

Tutto chiaro quando Sabina Guzzanti imita Silvio come faceva quando avevamo vent’anni, e allora faceva riderissimo, e adesso meno; ma soprattutto ora, truccata da lui, gli assomiglia meno di quando è truccata da sé.

Tutto chiaro quando intellettuali che addobbano i social con le loro foto di cosce, di caviglie, di scollature, poi cancellettano #noQuiriSilvio (i giochi di parole dei cancellettisti fanno sembrare Travaglio l’erede naturale di Queneau) sotto alla foto di Silvio (2009) che, guardando Michelle Obama, fa un eloquente gesto che è come dicesse «che pezzo di fregna», che è esattamente la reazione per ottenere la quale metti la tua foto scosciata sui social, però poi quello che t’accontenta non lo vuoi a fare il discorso di fine anno.

Tutto chiaro quando le mie amiche di sinistra, nostalgiche dei loro vent’anni, mi dicono «non si può» e io dico ma il presidente della Repubblica fa praticamente solo il discorso di fine anno e io non l’ho mai guardato, e loro mi spiegano con una certa qual preoccupazione che il discorso di fine anno di Silvio si concluderebbe con «viva la figa», e io penso che foss’in lui questa cosa la prometterei esplicitamente: rispetto agli scappati di casa attuali sembra già uno statista, adesso non gli resta che prometterci d’intrattenerci.

Tutto chiaro quando il Wall Street Journal ci illustra il kidcore, lo stile degli adulti che si vestono come ragazzini, e io ogni venerdì sera mi ricordo che va in onda “Propaganda” – avendo, rispetto ai miei vent’anni, perso la capacità di ricordarmi quando accendere la tv – perché ogni venerdì sera c’è sempre qualcuno che, prendendomi per la badante di Diego Bianchi, mi scrive «ma hai visto con che maglietta s’è presentato, ma digli qualcosa», e io non ho bisogno di vedere, perché so che quella dei cinquantenni determinati a non vestirsi da adulti è una battaglia persissima, mica deve dirmelo il Wall Street Journal, che forse non ha mai visto gli anelli da fricchettoni degl’intellettuali italiani, le loro magliette con le scritte, le loro felpe col cappuccio. Ogni volta mi torna in mente Cossiga in un talk show di più di vent’anni fa in cui trasecolò davanti a Giovanni Russo Spena, «a’ Russospe’, te sei messo la cravatta», e il kidcore Cossiga l’aveva individuato negli anni Settanta, dovevamo farlo editorialista delle pagine di moda, come alternativa al Quirinale (con la benedizione di Miuccia).

Tutto chiaro quando le lire sono fuori corso, non possiamo più filtrare le telefonate facendo scattare prima la segreteria, Corrado Guzzanti non ha voglia di lavorare, Francesco De Gregori un disco come “Canzoni d’amore” (1992) non ce lo fa più, e insomma dei nostri vent’anni è rimasto solo l’antiberlusconismo. Rinunciarci sarebbe come smettere di invocare la Seicento, e una ragazza che tu sai.