RUFFINI SPIEGA PERCHE’ FANNO SOLTANTO LEGGI INATTUABILI

Solo chi non ha familiarità con la complessità amministrativa di uno Stato moderno e con il modus operandi del legislatore italiano può sorprendersi vedendo che una manovra costituita da una legge e tre decreti (fiscale, semplificazioni e reddito-pensioni) ed espressa da 170 mila parole e quasi 1,2 milioni di battute ha bisogno di 209 decreti attuativi. Si tratta di un fenomeno in parte fisiologico e in parte patologico. La parte fisiologica è costituita dal fatto che, a differenza dei 10 comandamenti, la maggior parte delle leggi non sono immediatamente applicabili. Il loro «dire», astratto e generale, deve essere tradotto in un «fare», concreto e particolare: cosa deve fare il cittadino, cosa l’ufficio, quali moduli compila il primo, come li controlla il secondo, quali programmi informatici e quali organi servono. Buona parte dei decreti attuativi questo dicono e per questo sono inevitabili: se ogni legge di bilancio istituisce 30 nuovi fondi è inevitabile che vi siano più o meno altrettanti decreti per il riparto dei soldi. Questa considerazione di buon senso apre però uno squarcio anche sul lato patologico della decretazione attuativa. Una patologia che deriva dal modo attuale di fare le leggi, facendo prevalere il «far colpo» e il «far presto» sul «far bene». Il «far colpo» porta a moltiplicare le novità, cancellando precedenti istituti e/o aggiungendovene altri. Ed ogni novità comporta necessariamente, per la ragione fisiologica sopra descritta, nuovi decreti attuativi. Tutto ciò avverrebbe in misura minore se ci limitasse a integrare e migliorare quanto già esiste, puntando sulla continuità amministrativa e usando così le norme attuative già emanate. Il gruppo Iva, introdotto dalla legge di bilancio 2017, con 11 nuovi articoli, ha richiesto solo un decreto attuativo di poche pagine, perché in molti casi si appoggiava su regole già esistenti. Se invece, come accade oggi con il decreto legge fiscale, si introduce una «pace fiscale» per ogni fase della procedura tributaria (verifica, accertamento, contenzioso e riscossione), e non solo per le cartelle, occorrono dei provvedimenti attuativi per ciascuna fase; e il decreto fiscale infatti ne prevede almeno tre. Se ci fermassimo qui, saremmo, comunque, ancora nel campo del comprensibile: il «far colpo» è un’esigenza politica e non si può negare a un nuovo governo di proporre, nel limite del ragionevole, nuove ricette. Ma la patologia si aggrava se al «far colpo» si aggiunge il «far presto». In questo caso i decreti attuativi si saldano con una degenerazione delle nostre istituzioni: il Parlamento trasformato da creatore delle leggi in mero ratificatore. Una legge ordinaria richiede circa 2 anni per essere approvata, mentre a un decreto-legge devono bastare 2 mesi, così come, ormai, alla legge di bilancio. Quel poco di «fare bene» che può ispirare chi propone un intervento scompare di fronte all’esigenza di «far presto», trovando un provvedimento a rapida approvazione in cui infilare uno stringato articolo o comma, giusto per occupare un posto in Gazzetta Ufficiale, con un rinvio a un decreto. A questo punto il decreto dovrà fare di più che regolare la procedura amministrativa: diventerà un rimpiazzo o un’integrazione della legge, dettando anche aspetti essenziali della disciplina e senza di esso sarà impossibile far funzionare la norma. È quanto sta avvenendo con l’imposta sui money transfer introdotta dal decreto legge fiscale: entrata in vigore il primo gennaio, richiede un decreto il cui termine di emanazione è stato fissato al 12 febbraio. Risultato: gli operatori dovrebbero già applicare un’imposta, nonostante nessuno gli abbia detto come riscuotere e versare.

Questo meccanismo può anche riprodursi su più di due livelli, se la materia è complessa. È quanto abbiamo visto quest’anno con quota 100 e il reddito di cittadinanza: la legge di bilancio crea gli spazi finanziari, rinvia al decreto-legge e questo a 24 decreti attuativi. È quanto si vede spesso con le leggi delega, come quella sul federalismo fiscale, che, oltre ai decreti delegati, richiedono ulteriori provvedimenti di terzo livello.

Si può evitare tutto questo e tornare a un metodo più ordinato? Ne dubito. «Far colpo» e «far presto» sono anche i due imperativi dell’era digitale e della comunicazione nell’era di Internet, dove non è premiato il più bravo, ma il più veloce. Quando lo scopo di una proposta è essere tradotta con frenetica fretta in un post di Facebook o in un tweet piuttosto che con ponderata calma in pagine della Gazzetta Ufficiale, è inevitabile che essa prima si riduca a un condensato e poi generi decreti attuativi. Come una valigia stipata all’eccesso, al momento del suo contatto con la realtà di persone e situazioni quella norma riesploderà in tutte quelle parole di cui si pensava di poter fare a meno. E che invece servono, se si vuole anche «far bene», perché un Paese non lo si governa con 280 caratteri alla volta.
ERNESTO MARIA RUFFINI, CORRIERE ECONOMIA, 11/2/2019