Festival/ 100 mln la rendita parassitaria di Sanremo.Metafora dei problemi italiani irrisolvibili

Russell Crowe e John Travolta hanno dormito a Nizza pur di non stare a Sanremo, ci sarà un motivo o no?”. L’industria discografica mette in discussione Sanremo. Non il Festival, attenzione, ma proprio la città di Sanremo. Così comincia l’ennesimo articolo del dopoFestival di Salvatore Merlo sul Foglio. Sono anni che si ripetono le stesse cose ma la rendita parassitaria di Sanremo non finirà mai. Pertanto se parli di Sanremo capisci l’Italia. Ma non per le canzonette che lasciano il tempo che trovano, per come viene organizzato l’evento. Un paese che non intende crescere, che invece di produrre ricchezza intende conservare le rendite degli anni cinquanta.

Chi sia stato a Sanremo durante e dopo il Festival sa che è la città ligure più orribile. Non si salva nulla di quel che serva al meno pretenzioso dei turisti: alberghi, ristoranti, mare, locali. Prima e dopo Sanremo sino a Mentone, c’è il Paradiso, Sanremo è un inferno. Le sue strade, il suo teatro, i suoi alberghi, il complesso dei suoi servizi sono inadeguati. “E’ una città che probabilmente pensa di poter vivere di rendita. Ma senza investimenti diventa sempre più fosforescente la distanza tra la modernità di un Festival di grande successo e l’obsolescenza di una città che non vuole crescere”, dice Enzo Mazza, il presidente della Fimi, la federazione delle major discografiche italiane. “La Rai si è modernizzata. Noi discografici ci siamo modernizzati. E Sanremo è ancora lì con le facciate dei palazzi sbreccati, il treno veloce che però è lento, le fognature che si rompono e gli alberghi che non vengono ristrutturati da vent’anni. Il vero simbolo di Sanremo è quell’assurda stazione ferroviaria scavata nella roccia che per raggiungere i due – dico due – binari devi fare quattrocento metri e prendere due ascensori. Manco a New York. Sarà costata miliardi”.

Durante il Festival la città viene presa d’assalto da migliaia di napoletani che fanno le vacanze invernali non in montagna ma al mare. La loro passione è farsi un selfie con i cantanti. Vanno sempre allo stesso albergo, sono di casa dopo 10 anni e più di frequentazione, ma l’albergo, il più delle volte, non sta a Sanremo. Chi prende l’albergo a Sanremo è costretto a farlo. Come l’hotel Globo dove hanno dormito Amadeus e Fiorello, “un hotel che sembra una cosa a metà tra la pensione dei preti e il carcere di Rebibbia”.

Banca Ifis ha calcolato che il Festival porta a Sanremo 41.000 persone in sei giorni. Circa 18 milioni di euro: 8,8 per gli affitti, 2 milioni di euro per la ristorazione, 2 milioni di euro per lo shopping, oltre ai 5 milioni di euro netti che paga direttamente la Rai all’amministrazione comunale (che poi gira 1,5 milioni di euro a Walter Vacchino proprietario del teatro Ariston). In appena sei giorni.

Secondo altre stime, nel complesso, estendendo il calcolo all’intera provincia e a tutto l’indotto, il guadagno netto sarebbe superiore ai 100 milioni di euro. E però a guardare Sanremo, con la sua aria di Costa Azzurra délabré, con le strade qui e là sconnesse, la puzza di fogna davanti ai ristoranti sul porticciolo, con i ratti che corrono sul lungomare come sulle piste di Formula uno, c’è da chiedersi che ne facciano di tutto questo denaro. Sembra pioggia sul parabrezza di un’automobile. Scivola via e non si sa dove finisce. Non c’è niente da fare, ci troviamo davanti ad un altro problema irrisolvibile dell’Italietta che non intende crescere, trasformarsi, adeguarsi al moderno.

“Vorremmo ricordare, onde evitare equivoci, che il Festival di Sanremo è un marchio registrato di proprietà esclusiva del comune”, ripetono i politici sanremesi da sempre. Giovanni Minoli dice: “Sanremo è un simbolo decadente che una volta all’anno si accende con questo spettacolo di cartapesta che unisce nonni e nipoti”. E la sensazione di tutti è che Sanremo nemmeno voglia migliorarsi. D’altra parte i denari arrivano facilmente, senza sforzo alcuno. Rendita parassitaria, appunto.

A gennaio, per dire, le fogne cittadine, scollegate dal depuratore rotto, sversavano liquami in mare. E a febbraio, durante il Festival, si sentiva uno strano odore nella zona del porto. Però va tutto bene. 

Racconta Caterina Caselli, che non ha bisogno di presentazioni: “Qualche anno fa per raggiungere il teatro Ariston un cantante dovette salire su un’auto della polizia a sirene spiegate. Perché il traffico è ingestibile. Gli alberghi sono strapieni, troppo pochi, in tanti vanno a dormire a Bordighera. E non basta. Bisognerebbe invitare la città, intesa anche come impresa cittadina e non solo il comune, a investire. Perché Sanremo è un grandissimo marchio. Ed è un posto che ha fatto la storia della musica italiana”. Ma Sanremo sta diventando il freno a mano tirato del Festival. Un ostacolo. “Il problema”, dice Mazza, il presidente dei discografici, “è che mentre noi siamo lì per lavorare, mentre intorno a questo Festival cresce un business enorme, la città di Sanremo è invece interessata soltanto a che Amadeus parli dei fiori e che qualche migliaio di persone passeggi per strada consumando panini di gomma e cocacole”.

L’ARISTON Provincialismo, miopia, inerzia e ignavia. Trenta artisti in gara, ci spiegano, significano circa 210 persone di staff in totale: discografico, manager, personal manager, parrucchiere, truccatore, videomaker… ogni artista ha una media di otto o dieci persone dietro. E non è un dettaglio. “L’avete mai visto il retropalco dell’Ariston? Non ci si muove nemmeno”, dice Limongelli, il presidente delle etichette indipendenti. “E’ uno spazio strettissimo dove stanno ammassati cantanti, staff, attrezzisti, operatori… Infatti è una specie di miracolo della Rai se si riesce ad andare in onda. L’Ariston scoppia. Ci si dovrà porre il problema. A meno che non facciano sparire la platea del Festival, cancellando il pubblico dal vivo. Ma non mi sembra una grande idea, considerato anche il fatto che oggi il pubblico che guarda il Festival dal vivo è già troppo poco. I talent show sulla musica hanno il doppio o il triplo di pubblico in sala, malgrado facciano soltanto il 2 per cento di share in tv. Mentre Sanremo ha il 70 per cento di ascolti, ma viene girato in un ex cinema con un pubblico ridottissimo”. La cosa sorprendente è che l’imprenditoria e la politica locale, a Sanremo, anziché pretendere il treno ad alta velocità, anziché investire nei servizi, punta soltanto a spremere la sua stessa città. Finché ce n’è. Finché si può. E poi? Boh.

“Il Festival ha bisogno di spazi, di un teatro adatto a uno spettacolo ormai così grande, ha bisogno di un’offerta ricettiva all’altezza, e di un contesto urbano che garantisca spostamenti certi e rapidi agli artisti. Ma ve lo siete chiesto perché si fanno continuamente collegamenti all’esterno dell’Ariston, con una nave o con una piazza? O con Fiorello per strada?”. Lo spettacolo Rai più grande di tutti che consente alla Rai (insieme con Montalbano) di stare sul mercato con i suoi 16mila dipendenti da mantenere sul libro paga è irriformabile. Ma non per farlo diventare il Festival di Bordighera o di Arma di Taggia. No, per organizzare il Festival di Sanremo con le strutture e i mezzi del terzo secolo e non di quelli del 1951.

In questo senso il Festival è una metafora per chi vuol capire il paese reale, la metafora politica più potente per un Italia che non ha mai accettato la modernità. Dopo 32 anni ad Alba Parietti non hanno dato il pass per stazionare nelle prime file dell’Ariston. Il problema non è per quale motivo non glielo hanno dato, il problema è capire perchè per 32 anni è stata lì. Ecco, analizzare i nomi di coloro i quali stazionano nella platea dell’Ariston sarebbe utile. Il costo dei biglietti è quello per tutti, il problema è riuscire a comprarli. Se ci fosse una riffa dove chi offre di più si guadagna il biglietto sarebbe un postulato di un libero mercato. Invece a Sanremo tutto compresi i biglietti è controllato da quattro politici che del mercato non sanno che farsene.