L’ubiquità del Conte Tre, più a sinistra del Pd e più a destra di Meloni

Giuseppe Conte si può dire: presidente, avvocato, avvocato del popolo, populista gentile, il leader che presenta sorridente i decreti sicurezza a fianco di Salvini e il presidente del Consiglio che sferza in aula il Salvini fresco di Papeete, punto di riferimento fortissimo dei progressisti, “Giuseppi” pupillo di Trump e Giuseppe aspirante Prodi, l’ammiratore di Enrico Berlinguer, il sovranista che a Giorgia Meloni rimprovera mica di essere sovranista, casomai di non esserlo abbastanza, certamente non quanto lui. Conte uno, Conte due, Conte tre, ma la numerazione potrebbe essere già più avanti, le versioni contiane sono più vorticose e obsolescenti dei telefonini con la mela. Nel Pd stanno impazzendo a corrergli dietro per costruire il famoso o famigerato campo largo e lui, che appena disarcionato da Palazzo Chigi mise un banchetto in piazza per annunciare la nascita dell’Alleanza progressista con i partiti che lo avevano sostenuto, oggi che non è più il capo della baracca, almeno per ora, nutre seri dubbi sia sull’alleanza che sul progressismo.

Dicono non ci sia leader politico che, costretto a lasciare Palazzo Chigi, non abbia trascorso gli anni successivi sperando di tornarci. Perché Giuseppe Conte dovrebbe essere diverso? In certi casi la regola vale anche senza eccezioni. La sua dichiarazione di equidistanza da Joe Biden e Donald Trump ha gettato nello sconforto anche i più attivi e convinti pontieri tra i dem. Nel Pd ognuno ha la sua ricetta per agganciare l’alleato riluttante, ma l’abile Conte, l’unico in Italia capace di strappare un partito personale al padre padrone e fondatore, ha la capacità di mettere in crisi anche i più pragmatici. Perché va bene che non importa di colore è il gatto purché acchiappi il topo, ma che succede se è il topo a cambiare continuamente colore?

Allora c’è la linea Speranza, impostata su un bonario paternalismo, che tratta Conte come un tempo si faceva con “i compagni che sbagliano”: è un po’ scapestrato ma è pur sempre dei nostri. C’è la linea ora basta, che considera Conte un trasformista senza limiti né pudore, linea fin qui tombata negli sfoghi privati, vedi il silente ma adirato ex ministro della Difesa Lorenzo Guerini, o il meno silente Filippo Sensi, senatore ed ex portavoce di Matteo Renzi a Palazzo Chigi, che sui social Conte non lo nomina nemmeno, è “Coso”, il tizio che tra Donald Trump e Joe Biden fa spallucce, come già quando sollecitato da Gruber a scegliere tra Macron e Le Pen. Dicevamo, però, della psicologia. Un leader di partito si sbilancerebbe senz’altro a dire chi preferisce tra Trump e Biden – non è detto che la risposta sincera di Conte piacerebbe al Pd – ma un aspirante presidente del Consiglio non lo fa: «Poi bisogna comunque lavorare con chi vince», ha detto Conte per spiegare le sue afasie televisive sulle presidenziali altrui. Lo ha detto come stesse tuttora a “Chigi”, così Rocco Casalino chiamava confidenzialmente il palazzo del governo, aspettando la telefonata di saluto del neopresidente.

Poi c’è la linea Schlein. Miscela di realismo (dove vuoi che vada Conte? Qui deve venire), calcoli ecumenici (gli elettori premieranno chi lavora per unire e puniranno chi divide) e immobilismo puro, quasi una strategia dell’opossum, l’animale che si finge morto anche e soprattutto mentre le bestie rivali lo scalciano e sbatacchiano, “bellicista!”, “poltronista!”, “inquinatore!”, e l’opossum fermo, immobile, come il semaforo di Prodi nella parodia guzzantiana. Poi succede che Conte passi il segno, come l’altro giorno alla Camera alla presentazione del libro di Speranza, dove era sul palco insieme a Schlein e le accuse al Pd erano appunto quelle appena elencate, e che Schlein finisca sommersa di proteste da dirigenti e parlamentari del suo stesso partito («Stavolta non possiamo non rispondere, devi difendere la dignità di una comunità politica», era il senso della gran parte dei messaggi recapitati alla segretaria). Così, il giorno dopo, la leader dem prende la parola in Transatlantico e per una volta replica al leader 5S: «Chi attacca il Pd anziché Meloni ne risponde agli elettori».

Il luogo comune è che la tarantella Conte-Pd duri fino alle Europee, per le comprensibili ragioni di rivalità elettorale e le legittime ambizioni personali di Conte. Pazienza, compagne e compagni, e tutto andrà a posto dopo il voto. Però, psicologia a parte – se uno si immagina di nuovo a “Chigi”, è difficile che smetta di farlo dopo un giro di urne – restano i dubbi sull’aiuto che il risultato delle Europee potrebbe dare a Schlein. Se il M5S sorpassa il Pd, forse la coalizione si fa, visto che il capo diventa Conte. Se i rapporti di forza rimangono quelli delle ultime Politiche, perché Conte dovrebbe rinunciare a impiegare i prossimi tre anni per angariare il Pd e sorpassarlo? Se invece il Pd dovesse surclassare i grillini, può succedere di tutto, ma l’ipotesi che Conte accetti di entrare nell’alleanza di cui voleva essere il capo accontentandosi di uno strapuntino tra Bonelli e Fratoianni non è esattamente la più probabile.

A Conte non si può chiedere di scegliere il campo. Ha il terrore di essere incasellato: vuole restare nella condizione di contendere i voti al Pd in quanto più di sinistra del Pd e contendere i voti a Fratelli d’Italia in quanto più sovranista di Fratelli d’Italia.