La diatriba sul Pnrr è lo specchio della crisi italiana, con un pizzico di ridicolo in più

L’attacco del governo ai magistrati della Corte dei Conti, colpevoli di averne certificato i ritardi nell’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, è l’ennesimo segnale della sua insofferenza nei confronti di ogni autorità terza, ogni funzione di controllo, ogni potere indipendente. Una tendenza tanto più inquietante perché manifestata da chi vorrebbe al tempo stesso ridisegnare la Costituzione, ma anche un classico di tutti i governi populisti del mondo, a cominciare dal governo gialloverde a guida Cinquestelle, partito che nel 2018 chiedeva in piazza la messa in stato d’accusa del capo dello stato e denunciava in tv improbabili «manine» della burocrazia, per giustificare epurazioni e occupazioni a ogni livello. Ancora più preoccupante, inoltre, è che al centro di questo irresponsabile gioco delle tre carte ci sia oggi il Pnrr, cioè la principale e forse ultima occasione di far uscire l’Italia dalla sua trentennale stagnazione.

Senza nulla togliere alla gravità di questi comportamenti e di queste dichiarazioni, che confermano una costante tentazione ungherese della destra meloniana, bisogna anche dire, però, che lo spettacolo è fin troppo consueto. Tanto da suggerire l’ipotesi che, al di là di tutte le motivazioni e le responsabilità summenzionate, vi sia alla base una ragione sistemica.

Da molti anni si alternano in Italia governi politici e governi tecnici (o comunque di unità, responsabilità o salvezza nazionale che dir si voglia). Singolare forma di alternanza. È peraltro degno di nota che l’emergenza in grado di giustificare tanti improvvisi rimescolamenti parlamentari è in fondo sempre la stessa: il governo Dini nacque per non perdere l’aggancio all’unione monetaria europea; il governo Monti, per non esserne sbalzati fuori; il governo Draghi, per superare l’impasse che proprio sul Pnrr (oltre che sul piano di vaccinazioni) rischiava di riportarci al punto di partenza.

Tale singolare forma di alternanza tra governi politici e governi tecnici si rispecchia poi in un’altra distorsione tipica di questi decenni, che riguarda tutti i maggiori leader di partito che si sono succeduti a Palazzo Chigi. Dal loro punto di vista, infatti, la consapevolezza di questa sorta di spada di Damocle si trasforma molto presto nella convinzione – fondata o infondata, ma io credo comunque sincera – di rappresentare non già il vertice del potere, ma la sua vittima sacrificale, il corpo estraneo da eliminare con ogni mezzo.

Contribuisce a questa strana sindrome da accerchiamento, con ogni probabilità, un problema tanto banale quanto sottovalutato. Un deficit strutturale caratteristico del bipolarismo italiano, tale da non consentire quello che avviene ad esempio negli Stati Uniti, quando all’avvicendamento del capo della Casa bianca seguono migliaia di nomine, a cascata, a tutti i livelli dell’amministrazione pubblica. Lo spoils system necessita infatti di una classe dirigente di ricambio, per dir così, pronta a subentrare all’indomani delle elezioni.

In Italia però l’adozione improvvisa del maggioritario e delle prassi connesse all’inizio degli anni Novanta, in un sistema che non aveva mai conosciuto né l’uno né le altre, ha finito forse per rovesciare il rapporto di forze, o quanto meno per dare a molti questa impressione: non già politici eletti dal popolo che sulla base del loro mandato, e con tutti i contrappesi del caso, nominano e danno l’indirizzo all’insieme delle classi dirigenti, ma al contrario una classe dirigente sostanzialmente unica, e perciò immutabile, capace di condizionare e all’occorrenza persino cambiare i vertici politici, in misura largamente indipendente dagli esiti elettorali.

Fondata o meno che sia, si direbbe che questa generale convinzione, paradossalmente, alimenti tutti i tentativi di forzare ulteriormente il sistema in direzione maggioritaria e presidenzialista, in un circolo vizioso, o meglio, in un gioco di azione e reazione, in cui il leader carismatico di turno s’illude ogni volta di poter fare cappotto, conquistare i pieni poteri e uscirne come padre della grande riforma. Senza avvedersi di come, in tal modo, non faccia altro che allestire l’ennesima battuta di caccia alla volpe, nei panni della volpe.

Il gran casino che il governo Meloni sta combinando sul Pnrr potrebbe essere in fondo solo un caso particolare – ancorché drammaticamente rilevante – di tale regola generale. Prima ostinandosi a centralizzare ogni decisione a Palazzo Chigi (proprio come voleva fare Giuseppe Conte, guarda un po’) e poi cercando di scaricare su altri la responsabilità dei ritardi e delle inefficienze (che sono indubbiamente anche di altri, ma che non si possono denunciare dopo avere preteso i pieni poteri), Giorgia Meloni sembra apprestarsi a ripetere il solito copione di questi trent’anni, in cui leader sempre più deboli pretendono di volta in volta poteri sempre più estesi, finiscono per non combinare nulla e danno pure l’impressione di cercare alibi (nella migliore delle ipotesi), sollevando comunque contro di sé potenti e non sempre infondate reazioni di rigetto.