Occupied Pd

C’è un discorso di Jim Carrey che l’algoritmo dei social network, nella sua infinita saggezza, mi ha proposto di recente. Dice più o meno così (cito a memoria): anche mio padre avrebbe potuto essere un grande attore comico, ma non ebbe il coraggio di rischiare, preferì la sicurezza del posto fisso, e così, quando venne licenziato, perse tutto, e io ne trassi la lezione che puoi fallire anche facendo quello che non ti piace, dunque, tanto vale correre il rischio per fare quello che ami.

Stefano Bonaccini, insieme con tutti i suoi sostenitori e la stragrande maggioranza degli osservatori, me compreso, pensava che avrebbe vinto le primarie del Partito democratico praticamente senza combattere e così ha perso senza difendersi. Ha fatto per mesi buon viso a cattivo gioco, ha lasciato che Enrico Letta e gli altri esponenti del gruppo dirigente uscente, dopo la sconfitta elettorale, la tirassero in lungo con ogni possibile scusa, si inventassero ogni sorta di baracconata per cambiare le regole e le carte in tavola, con la fase costituente, il nuovo soggetto, il nuovo statuto e la nuova carta dei valori, fino a quando proprio loro, i vincitori dell’ultimo congresso, quelli che avevano compiuto tutte le scelte decisive, fatto le liste dei ministri e le liste elettorali, compattamente schierati per Elly Schlein, sono riusciti a presentarsi pure come l’opposizione e il rinnovamento, con gli stessi argomenti con cui avevano vinto cinque anni prima. Chapeau.

Convinti che il presidente dell’Emilia-Romagna avrebbe dovuto soltanto confermare il proprio profilo concreto e rassicurante, da bravo amministratore, evitando di alimentare polemiche e conflittualità interne, i riformisti sono finiti così nella parte del capro espiatorio, e il gruppo dirigente uscente è riuscito nel capolavoro di scaricare su di loro la responsabilità della disfatta elettorale, dopo avere passato mesi a sostenere che non era neanche un risultato tanto disastroso, peraltro.

Con il senno di poi, si può dire che nella campagna congressuale Bonaccini non abbia sbagliato nulla, ma solo perché aveva sbagliato tutto prima. Avrebbe dovuto essere lui a rovesciare il tavolo il giorno dopo la sconfitta del 25 settembre, inchiodando ciascuno alle proprie responsabilità: il segretario e il resto del gruppo dirigente, a cominciare dalla truffa delle «agorà democratiche», e la stessa Schlein, che ha passato l’intera campagna elettorale in tv come esponente di punta del nuovo Partito democratico lettiano ed è letteralmente sparita il giorno dopo il voto, lasciando che fossero altri a rispondere della sconfitta.

Per quanto il loro ruolo effettivo sia stato marginale, si può dire che ai bersaniani di Articolo Uno sia riuscito così quello di cui hanno sempre accusato Matteo Renzi, ma che a Renzi non è riuscito mai: l’assalto capace di rovesciare il voto degli iscritti ed espugnare il partito dall’esterno. Un vulnus di cui bisognerà vedere nel tempo le conseguenze ultime.

I riformisti hanno perso dunque senza combattere, anche perché sono anni che non fanno più una battaglia che sia una, pensando solo a conservare le posizioni in attesa che cambi il vento e vengano tempi migliori. Hanno passato gli ultimi anni sempre sulla difensiva, fino al punto da riuscire a farsi passare per il fronte dei governisti senza ideali dalla squadra che aveva come titolari Dario Franceschini, Andrea Orlando e Nicola Zingaretti (per tacere di Letta), cioè l’intero vertice del Partito democratico, alla guida del partito dal 2019 e al governo del Paese, con rarissime pause, dal 2013. Complimenti.

Trascinati dalla leadership di Matteo Renzi prima al successo e poi alla sconfitta, i riformisti del Partito democratico hanno fatto ben poco per meritare l’uno e l’altra. A differenza del padre di Jim Carrey, però, più che un grande talento frenato dalla mancanza di coraggio, il loro problema sembra essere semmai un’eterna esitazione determinata dalla mancanza di idee e di reali convinzioni.

Si può perdere con onore, per difendere le proprie posizioni e i propri principi, e si può perdere con Vincenzo De Luca e Michele Emiliano, sicuramente due politici capaci di raccogliere grandi consensi, ma difficilmente classificabili come riformisti (comunque si vogliano presentare).

Il grande girotondo del dibattito interno alla sinistra, parte non piccola della trentennale stagnazione della Repubblica, torna così ancora una volta al punto di partenza. In un certo senso, è come se alle primarie del 2005 avesse vinto Simona Panzino (ve la ricordavate?), la candidata «senza volto», o magari Ivan Scalfarotto. Dai e dai, l’occupazione del Pd è riuscita davvero. Ma che male fa? Si muore un po’ per poter vivere. Rivoluzione, in Italia, è solo un sinonimo di capriola.

Si profila già all’orizzonte una nuova Unione, più piccola ma non meno ingovernabile della precedente. Romano Prodi magari si sarà pentito di aver fatto addirittura smentire il suo endorsement alla vincitrice (quando era ancora la sfavorita), ma certamente non mancherà l’occasione di abbracciarla sul primo palco disponibile.

Tutto cambia e tutto torna esattamente al punto di partenza, come doveva essere e com’è sempre stato, secondo la più antica tradizione nazionale. E l’unica domanda ancora senza risposta è chi sarà il prossimo regista, scrittore o cabarettista, dopo Nanni Moretti, Beppe Grillo e Dario Franceschini, a gridare che con questi dirigenti non vinceremo mai, all’indomani della prossima sconfitta.