Panebianco spiega perchè vogliono governi deboli

Parlamentarismo, presidenzialismo: solo etichette su scatoloni vuoti. Ci sono buoni e cattivi parlamentarismi, buoni e cattivi presidenzialismi. È sbagliato scegliere, per partito preso, fra i suddetti scatoloni senza conoscere i dettagli. Ciò premesso, non nascondiamoci le grandi difficoltà che incontrano sempre in Italia i tentativi di intervenire sui rami alti della Costituzione (governo, rapporti fra governo,Parlamento e presidenza della Repubblica).

Difficoltà che hanno fin qui sempre fatto fallire i vari progetti riformatori. Si pensi a quante Bicamerali, dagli anni Ottanta ad oggi, ci sono passate sotto il naso concludendosi sempre con un nulla di fatto. Invece di discutere su scatoloni ed etichette, è meglio dirsi la verità. Perché sono fallite tutte le Bicamerali? Perché nei referendum costituzionali (2006, 2016) gli elettori hanno rispedito al mittente le proposte di riforma comunque congegnate? La ragione è questa: c’è una parte ampia del Paese (fino ad oggi è risultata maggioritaria) che non vuole in nessun modo un rafforzamento dell’esecutivo e, più precisamente, dei poteri del capo del governo. Presidenzialismo, cancellierato, sindaco d’Italia e qualunque altra formula si voglia immaginare, sono slogan dietro ai quali si intravvede la stessa aspirazione: mettere fine al vizio d’origine della Repubblica, fare dell’Italia una democrazia governante, accrescere i poteri di chi sta al vertice dell’esecutivo, dare più stabilità al governo.

È l’impossibilità di creare un consenso sufficientemente esteso per superare questo scoglio, per mettere fine al vizio d’origine, la causa di tutti i fallimenti delle continuamente tentate riforme costituzionali in Italia.

Il vizio d’origine nasce dal fatto che i costituenti , per ragioni note e che è inutile ripetere, vollero un esecutivo debole, con un primo ministro che, rispetto ai suoi ministri, fosse solo un primus inter pares , in balia di due Camere con eguali poteri. Nonostante l’assetto assembleare disegnato dalla Costituzione e le conseguenti, endemiche, instabilità governativa e breve durata dei governi, la democrazia potè reggere a lungo per la concomitante presenza di due fenomeni: un partito egemone (la Democrazia cristiana), sempre al governo. E la Guerra fredda che, avendo incastonato l’Italia nel blocco occidentale, la proteggeva dalle turbolenze internazionali. In seguito, nell’età del maggioritario, si è visto quante disfunzioni generasse la compresenza di democrazia assembleare e di competizione bipolare.

Che cosa si è sempre obiettato a chi voleva il rafforzamento del governo ? Che stava spingendo il Paese verso una deriva autoritaria. Ricordate le vignette con Bettino Craxi con gli stivaloni alla Mussolini? Chiunque voglia dare più poteri all’esecutivo si espone a campagne che lo dipingono come un golpista. Ed è fatica sprecata spiegare che le maggiori democrazie europee dispongono di esecutivi forti: il governo del premier in Gran Bretagna, il cancellierato in Germania e Spagna, il semi-presidenzialismo in Francia. Ciò che va bene, poniamo, in Gran Bretagna, qui da noi diventa fascismo o la sua anticamera. C’è chi ha criticato la proposta presidenzialista di Meloni praticamente con le stesse parole che aveva usato per criticare la proposta di riforma di Renzi nel 2016. Si può scommettere che domani userebbe ancora le stesse parole contro qualunque proposta di rafforzamento del governo, di superamento della democrazia assembleare.

Dietro al tradizionale fuoco di sbarramento ideologico contro le aspirazioni a irrobustire la figura del capo del governo dando contemporaneamente più stabilità al medesimo, si intravvede l’azione di diverse forze che riterrebbero pericoloso per i loro interessi e le loro rendite di posizione un accrescimento dei poteri e della durata degli Esecutivi. A costoro non interessa un equilibrato sistema di pesi e contrappesi. Interessa che ci siano, come ci sono, solo contrappesi senza pesi, i poteri di veto che si mangiano il potere di decisione.

Le due condizioni che diedero a lungo stabilità alla democrazia non ci sono più. Sono scomparsi i forti partiti di un tempo («vasto programma» quello di chi vorrebbe farli risorgere). E sono finite le condizioni internazionali di sicurezza del passato: le turbolenze esterne sono cresciute e nulla fa pensare che non cresceranno ancora. Pertanto, il parlamentarismo assembleare fa oggi dell’Italia una zattera alla deriva. Il sotterfugio, l’espediente usato per aggirare gli ostacoli creati dalla debolezza dell’esecutivo, ossia il continuo ricorso ai decreti-legge, non è più sufficiente per compensare il difetto del manico, il vizio d’origine.

Negli ultimi trent’anni gli ostacoli che impediscono di rimediare al problema sono cresciuti. Perché, venuti meno i partiti forti di un tempo, la politica nel suo complesso si è indebolita e, in modo simmetrico, sono cresciute autonomia e poteri di altri gruppi. Come alta burocrazia, enti pubblici vari, magistrature di ogni tipo. Nessuno di questi gruppi ha interesse a un rafforzamento dell’esecutivo che ne ridurrebbe gli spazi di manovra. Oltre a tutto, questi gruppi sono in una posizione invidiabile. La politica, che sta sotto i riflettori, è esposta al pubblico ludibrio a causa della sua impotenza, della sua incapacità di affrontare i mali antichi del Paese. Quei centri di potere , invece, sono al riparo dai riflettori,non ricevono fischi né contestazioni. Nonostante la parte importante di responsabilità che hanno nel tenere bloccata la società italiana. Un gioco perverso: politica impotente, centri di potere nell’ombra che fanno il bello e il cattivo tempo.

I partiti(ciò che ne resta), dovrebbero riconoscere un comune interesse e trovare un punto di incontro per rimediare. Ma non possono, sono condannati a una zuffa permanente. Sulla zattera.