La storia criminale di Lamezia

Il più illustre storico della città, Vincenzo Villella, ha scritto: Il castello normanno-svevo, oltre ad essere il simbolo di Nicastro, ha sempre esercitato un’attrattiva particolare per i molti viaggiatori stranieri che dal ‘700 in poi hanno visitato la Calabria. A tutti, come scriveva nel suo resoconto di viaggio l’inglese Henry Swinburne (1743-1803) nel 1778, il castello di Nicastro appariva allora come “un romantico rudere in posizione pericolante sul letto di un fragoroso torrente che scorre giù in una valle buia e boscosa”.Storia e mito, attrattiva e paura si sono sempre mescolate intorno a questo maniero, avvolgendolo in un alone di mistero. Specialmente dopo il rovinoso terremoto del 1638, che abbatté il castello seppellendo sotto le macerie il feudatario principe Cesare d’Aquino, sono sorte tante suggestive leggende come quella della tana delle fate, quella della chioccia e i pulcini d’oro e, soprattutto, quella del paggio e della principessa, raccolte da don Pietro Bonacci nel suo volume su S. Teodoro, antico rione di NicastroSecondo la tradizione, quando cala la notte e tutto l’antico quartiere di S. Teodoro si addormenta, le fate escono dalle loro grotte di cui sono piene le sponde del torrente Canne e si aggirano intorno ai ruderi del castello e tra gli stretti vicoli, percorrendo poi il corso del torrente per raccogliere fiori, bacche e miele.

Negli anni sessanta in via Adige dietro la scuola elementare Maggiore Perri c’era un ampio spazio dove noi adolescenti il pomeriggio giocavamo a pallone. Giocavamo 7 contro 7 e spesso arrivava qualcuno che voleva giocare con noi a forza. Di tanto in tanto si presentava anche un ragazzo sconosciuto che ci chiedeva “posso giocare anch’io?”. Per i suoi modi gentili lo accoglievamo e ci disse che si chiamava Tonino. Arrivò l’anno 1970. Massimo Ranieri cantava “Se bruciasse la città” e Morandi “Al bar si muore”, al cinema proiettavano “Love story”, “Lo chiamavano Trinità” e “Dramma della gelosia”. Nicastro era una cittadina dove si viveva tranquilli ma in quell’anno quel ragazzo che di tanto in tanto giocava a pallone con noi e si chiamava Tonino De Sensi, uccise il suo capo, il boss Luciano Mercuri. In quel momento per le strade si sentì un solo commento che era il seguente: Niente sarà più come prima. Le fate abbandonarono per sempre il Castello. In un libro del giornalista della Gazzetta del Sud Arcangelo Badolati è scritto che Antonio De Sensi, poi ucciso a Lamezia Terme nel 1984 (e il cui nome ritroveremo più avanti quando parleremo del sequestro Bertolami), rivelo’ ad un investigatore che il corpo ritrovato a Conflenti, contrariamente a quanto risultava dagli atti, non era quello dello ‘ndranghetista lametino Salvatore Belvedere (1914) ma, invece, quello del giornalista palermitano Mauro De Mauro. La sostituzione del cadavere – secondo il confidente – aveva avuto una doppia finalita’: da una parte era stata sfruttata dal fuggiasco per confondere le acque e rifugiarsi tranquillamente all’estero, dall’altra aveva risolto il problema della definitiva sparizione del corpo di De Mauro. Una doppia operazione decisa dai vertici di ‘ndrangheta e Cosa nostra. Una tesi tutt’altro che campata in aria se è vero che nel 1995 è stata addirittura accreditata dalla Squadra mobile di Catanzaro, con una nota ufficiale inviata alla magistratura. Il 1970 è un anno terribile. Secondo il sostituto procuratore della DDA Salvatore Curcio “è emerso, anzi provato che alla fine degli anni ’70 ad inserire Raffaele Cutolo e a legittimarlo quale personaggio criminale fu un lametino. Nel carcere di Poggioreale, Umberto Egidio Muraca – uno dei capi storici della ‘ndrangheta lametina – “battezza” Cutolo. Da lì Cutolo fonda la Nuova camorra organizzata”.

Il 14 luglio 1970 scoppia la Rivolta per Reggio Capoluogo. Il 7 e 8 dicembre 1970 fallisce il Golpe Borghese. La ‘ndrangheta pare avesse pronto un esercito di 1500 uomini. Il 22 luglio 1970 c’è la strage del treno Freccia del Sud a Gioia Tauro.

Il socialista on. Salvatore Frasca (1928-2021) fece con altri una interpellanza che va letta per capire bene la situazione.

I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro di Grazia e giustizia per sapere se è a conoscenza che, nella piana di Lamezia Terme, è in corso, da diversi anni, una spietata lotta fra due clan di mafiosi, l’uno facente capo a tal Luciano Mercuri ucciso nel 1970, nel corso di un “regolamento di conti” e l’altro a tal Antonio De Sensi, condannato a 18 anni di reclusione, perche’ responsabile dell’uccisione del Mercuri e gia’ in istato di detenzione presso le carceri di Potenza ed, ora, latitante, non avendo fatto ritorno in carcere, dopo un permesso di 5 giorni; e per sapere, ancora se è a conoscenza che il suddetto De Sensi, nel corso della latitanza, ha organizzato una banda di estortori e, nel contempo, si è reso responsabile di omicidio ai danni di tal Alfredo Montesanto, capo della vecchia mafia lametina e al quale il gia’ menzionato Mercuri era legato, nonche’ di tentato omicidio nei confronti della signora Natalina Belvedere, moglie del Montesanto. Gli interroganti chiedono, quindi, di sapere perche’ mai il De Sensi, la cui pericolosita’ è di evidente gravita’, ha potuto godere del permesso di giorni 5, senza che si riscontrassero nella sua richiesta i motivi di cui all’articolo 30 della legge 26 luglio 1975, n. 354, successivamente modificata. Il De Sensi infatti, ha chiesto ed ottenuto il permesso solo e soltanto per contrarre matrimonio; un motivo questo, che non rientra nel secondo comma del gia’ citato articolo di legge e che non poteva che essere considerato pretestuoso, qualora si fosse tenuto presente che il De Sensi, trovandosi, solo qualche mese prima, in stato di trasferimento momentaneo nel carcere di Vibo Valentia, si era rifiutato di contrarre le nozze, nonostante la gia’ avvenuta pubblicazione presso il municipio di Lamezia Terme. Gli interpellanti chiedono di sapere, inoltre, come mai, contestualmente alla concessione del permesso, non siano state adottate, nei confronti del De Sensi, le cautele di cui al regolamento di esecuzione della precitata legge; cose che certamente richiedevano e la personalita’ del soggetto e l’indole del reato per il quale era stato condannato nonche’ la sua appartenenza alla “onorata societa’”. Piu’ particolarmente, gli interpellanti desiderano conoscere: se e’ vero che il provvedimento di concessione del permesso e’ stato assunto dal Presidente pro-tempore della Corte di appello di Catanzaro, su parere favorevole dell’Avvocato Generale, la cui benevolenza nei confronti del De Sensi e’ ben nota, avendo gia’ egli, con assoluta improntitudine, espresso parere favorevole sulla richiesta di liberta’ provvisoria avanzata dai difensori del De Sensi, mentre pendeva su di questi sentenza di condanna a 18 anni di reclusione per il reato di omicidio, sentenza appellata appunto presso la Corte di appello di Catanzaro e confermata dalla stessa con una lieve riduzione della pena; se e’ vero che il provvedimento di cui sopra venne assunto a meno di un’ora dalla formulazione del parere della Procura generale ed il tutto è avvenuto su sollecitazione del cappellano del carcere di Lamezia Terme, don Costantino Goffredo, rispetto al quale la Procura generale era stata messa in guardia dalla Procura di Lamezia Terme che, in un proprio rapporto, aveva definito il suddetto cappellano “uomo legato alla mafia esterna ed interna del carcere lametino”.

Un anno dopo. Era il 1971. Un dato significativo lo ha ricordato recentemente su il Lametino l’arch. Giovanni Iuffrida (Lamezia città di carta)

La notte del 25 settembre 1971 «un ordigno incendia gli uffici comunali» di Lamezia, così titolano i quotidiani locali e nazionali. Il commento laconico di molti giornalisti è di questo tenore: un incendio doloso distrugge in particolare documenti tecnici, «vi sono molti interessi in gioco, tra cui quello delle aree edificabili, ma le lungaggini burocratiche compromettono la realizzazione di nuovi edifici; il lungo iter di approvazione del piano regolatore ha bloccato ogni attività in molti settori della zona». Considerazioni molto ben “informate” e precise, se subito dopo i fumi di quell’incendio verrà approvato il Programma di fabbricazione dal Provveditorato regionale alle opere pubbliche (9 ottobre 1971). Con quell’incendio, simbolicamente si bruciava anche la Lamezia di carta, la Brasilia al centro del Mediterraneo, fatta di disegni e lucidi a inchiostro di china. Il “poi” sarà invece l’impietosa china della città, marchiata in maniera indelebile dal condizionamento dei fatti di cronaca nera del periodo 1970-’75 (anno, quest’ultimo dell’uccisione del giudice Francesco Ferlaino e della morte del sostituto procuratore Vincenzo Smirne, che stava indagando sulle speculazioni edilizie nella costa lametina) e di tutti gli ultimi cinquanta anni, causa principale che impedirà lo sviluppo libero delle capacità individuali interne ed esterne alla città. Si esaurisce così, da subito, la potenzialità attrattiva del territorio di risorse pulite e autopropulsive, che invece saranno inversamente proporzionali alla crescita esponenziale del dominio mafioso, in tutte le sue forme attive, incisive, inesaurite e soprattutto pervasive dal punto di vista culturale.

Gli incendi, come le lettere anonime e le faide, sono una costante nella storia lametina. Nel 2005 appena eletto sindaco Gianni  Speranza (due mandati, 2005-2015) riceve il benvenuto con un’intimidazione, l’incendio della porta del Palazzo comunale. Lamezia Terme era nata appena nel 1968 ma le ‘ndrine erano già impegnate in uno scontro serrato per la spartizione del territorio e delle sue risorse.

” (Ugo Caravia) La stagione dei rapimenti di persona nel lametino si svolse in due fasi: la prima ebbe inizio con il sequestro dell’ingegnere Mario Bilotti, avvenuto a novembre del 1970. Questo rapimento, il primo in assoluto a Lamezia, si confuse,  per via degli strascichi giudiziari che comportò, quattro anni più tardi con quella di due anziani coniugi: Gabriele D’Ippolito e Filomena Ciliberto. Questi furono liberati quasi immediatamente, dopo dieci ore. Era il marzo del 1974, quindi , quando Polizia e Carabinieri irruppero in un vecchio casolare  della Piana lametina, di cui era proprietario Michele Dattilo, il quale fu sorpreso in una specie di cunicolo scavato nel fienile di questo casolare. Michele Dattilo fu arrestato visto che era latitante da anni in quanto condannato per omicidio e, allo stesso tempo, furono liberati i coniugi D’Ippolito. Questa operazione consentì a Polizia e Carabinieri di chiarire immediatamente altri due sequestri, precedenti a quello dei due coniugi, ed entrambi conclusi con il versamento delle somme richieste per il riscatto. Si trattava  del rapimento del sindaco di Fuscaldo, Giuseppe Pannizza, operato dall’anonima sequestri lametina, e quello di un commerciante di Decollatura Eugenio Gigliotti ed anche questi due erano stati tenuti in questo cunicolo dell’abitazione di campagna in questione. Dal 1970 al 1980, a questi sequestri di tipo estorsivo, ne avvennero altri tre. Quello di Roberto Bertucci uno dei titolari dell’omonima catena di magazzini, quello di Francesco Grandinetti e quello di Nino Tripodi, proprietario della concessionaria Fiat. Ed a questi sequestri bisogna poi aggiungerne un altro e, cioè, quella di un giovane universitario di Sambiase, Filippo Caputi, il quale si risolse in breve e che ebbe anche un processo celebrato a Cosenza. La seconda fase dei sequestri, invece, si svolse nella prima metà degli anni ’80. 

In questa fase avvenne il rapimento del floro-vivaista Bertolami, che non si concluse con il suo ritorno. “L’ultima prova del fatto che fosse in vita, risale al febbraio del 1984, quando fu recapitata una lettera con il solito foglio di giornale firmato, dopodiché la famiglia è rimasta in balia dei dubbi e sospesa. Negli anni successivi ci furono altri contatti: ma erano soltanto sciacalli che cercavano di speculare su una triste vicenda. Tante le ipotesi degli investigatori: a compiere il sequestro potevano essere stati pregiudicati di altra zona, con molta probabilità della zona di Reggio, con basisti del luogo. Erano stati notati, nelle sere precedenti, alcuni movimenti strani con persone a volto scoperto ferme in macchina nei pressi della azienda.

Gli occhi delle forze dell’ordine erano puntati su Nino Cerra, sul quale già pendeva un mandato di cattura emesso dalla Procura Milanese per concorso in sequestro di persona, oltre ad un altro mandato di cattura, stavolta da Roma, per il già citato sequestro di Fabrizio Mariotti. Cerra, secondo le ipotesi investigative, era legato ad altri gruppi criminali calabresi, soprattutto con quelli del reggino, in particolare la zona di Platì con i quali Cerra avrebbe avuto legami, quindi il quadro degli inquirenti si andava concentrando su questo, anche se non ci furono mai riscontri certi. Si ipotizzò un suo possibile coinvolgimento insieme ad Antonio De Sensi, ucciso il 27 aprile del 1984. Una delle ipotesi, secondo gli investigatori e la procura lametina, era che proprio il De Sensi sarebbe stato a conoscenza del sequestro e che avrebbe preteso di partecipare alla gestione e alla spartizione del riscatto, pretese che probabilmente avrebbero scatenato incomprensione tra i due. I contrasti, la sua morte e l’arresto di Nino Cerra, avrebbero determinato, secondo una delle ipotesi investigative, la mancata riscossione del riscatto. Secondo gli inquirenti, probabilmente il gruppo dopo questi avvenimenti non avrebbe saputo gestire il sequestro. Ma queste rimangono solo delle supposizioni, perché non esistono prove, il corpo vivo o morto di Giuseppe Bertolami non è stato mai trovato né riconsegnato alla famiglia che, dal 1983 aspetta ancora la sua verità”. (Claudia Strangis, il Lametino)

Ma Lamezia fu il teatro di un altro rapimento, sempre nei primi anni ’80, che vide prigioniero per sei mesi il figlio di un industriale di Tivoli, il quale era soprannominato il re del travertino. Per il riscatto di Fabrizio Mariotti furono versati un miliardo e cinquanta milioni di lire. Parte di questo ricatto poi fu recapitato. Questo Mariotti fu sequestrato a Tivoli, sotto casa, caricato sulla sua stessa macchina e portato qui a Lamezia. Solo dopo sei mesi ed il versamento del riscatto, fu liberato presso lo svincolo autostradale di San Mango d’Aquino. Lì fu raggiunto dalla Polizia che successivamente  arrestò tutti quelli che erano coinvolti con tale sequestro. In quell’occasione fu facile risalire ai rapitori in quanto il giovane disse che era stato trattenuto in una casa dalla quale sentiva suonare, in un certo modo, le campane di una chiesa, che poi si scoprì essere quella di San Giovanni Calabria a Capizzaglie. Inoltre, durante la sua prigionia in un cunicolo riuscì ad avere la possibilità di sentire il gazzettino di una emittente lametina. Con tali indicazioni la Polizia risalì ai rapitori “.

Dagli anni ’70 i consistenti investimenti attirano l’attenzione di soggetti di lunga tradizione mafiosa come i Mancuso di Limbadi, la cui influenza sulle famiglie lametine si somma alle coperture di parenti e complici infiltrati nei settori economici, politici e sociali. Tutto ciò spinge le ‘ndrine locali a darsi una struttura più stabile mantenendo un carattere feroce.

Il 20 ottobre 1974 avvenne l’omicidio di Adelchi Argada, militante del FPCR, il 3/7/75 venne ucciso su corso Nicotera vicino casa il giudice Francesco Ferlaino.

Ferlaino era avvocato generale alla Corte d’Appello di Catanzaro. Il 3 luglio 1975, all’ora di pranzo stava rientrando a casa, su corso Nicotera a Lamezia Terme. In pieno giorno, in pieno centro, poco dopo le 13, venne raggiunto alle spalle da due scariche di pallettoni esplosi dal marciapiedi opposto, dove si era fermata l’auto degli assassini. Nicola Gratteri e Antonio Nicaso, in “Padrini e Padroni”(2016), e “Storia segreta della ‘ndrangheta”(2018), riferiscono sull’episodio le rivelazioni fatte dallo storico collaboratore di giustizia Giacomo Lauro, uno dei primi pentiti di ‘ndrangheta negli anni 90, parlando dei legami tra ‘ndrangheta e massoneria con gli investigatori della Dda di Reggio Calabria. Essendo stato in carcere con Paolo De Stefano (a capo dell’omonima, potentissima cosca reggina) disse di avere ricevuto da lui importanti informazioni, confermategli anche da Pasquale Condello: Il giudice Ferlaino venne ucciso perché si ruppero gli equilibri all’interno della massoneria. Egli, che era massone, all’epoca della sua morte ostacolava il nuovo progetto massonico-affaristico che cominciava ad attecchire specialmente al Sud sotto la regia di Licio Gelli, e prevedeva l’accaparramento di ogni affare vantaggioso lecito o illecito che fosse. Secondo Gratteri e Nicaso dunque «Ferlaino si opponeva alla degenerazione della massoneria, con la costituzione di logge segrete sfuggite al controllo degli organismi istituzionali massonici e diventate ben presto luogo di incontri criminali»

Dal 1985 al 2011 Lamezia divenne teatro di tre guerre di ‘ndrangheta.

La ‘ndrina Giampà, la cosca più potente di Lamezia T., si afferma sul finire degli anni ottanta, inizio anni novanta, quando Francesco Giampà, “Il professore” conduce una faida contro la ‘ndrina capeggiata da Pasquale Giampà, detto “Tranganiello”. Con l’omicidio di quest’ultimo nel settembre 1992 finisce la faida, che vede vincitore “Il professore” e così cambia la geografia criminale lametina. Francesco Giampà diviene  capo del nascente locale criminale Cerra-Torcasio- Giampà, che controlla tutta la zona di Nicastro. Negli anni novanta le grandi cosche “Torcasio” e “Giampà” erano unite dal “patto di ferro”. La famiglia Notarianni, sempre vicina a quella dei Giampà, stando al racconto del pentito Angotti, non era voluta da Pasquale Giampà, che desiderava estromettere il “professore”, Francesco Giampà, dal patto, proprio per la sua vicinanza con i Notariannni. 

Tra l’ ’86 e l’89 vengono sterminati i De Sensi, buona parte degli Andricciola e dei Pagliuso; viene eliminato Umberto Egidio Muraca, che vanta trascorsi con Raffaele Cutolo, e altri attentati coinvolgono i Marrazzo, i Buffone e i Greco.
Il 24/5/1991 avvenne il brutale omicidio dei netturbini Tramonte e Cristiano.

All’inizio della seconda guerra (1991-1996) il Comune viene sciolto per infiltrazioni mafiose. Emerge l’alleanza tra Francesco Giampà “il Professore”, Giovanni Torcasio “U’ Longu” e Nino Cerra (1948), con la nascita della locale Cerra-Torcasio-Giampà. I loro nomi sono legati a numerosi delitti e alla recrudescenza del fenomeno estorsivo. Finiscono presto in carcere, ma da lì continuano a dispensare ordini.

Si susseguono fatti eclatanti: il 4/1/1992 viene trucidato insieme con la moglie Lucia Precenzano il poliziotto, Salvatore Aversa. Quattro anni più tardi scompare un ex Carabiniere, Gennaro Ventura.
A metà degli anni ’90 si alterano gli equilibri (Iannazzo-Torcasio) e si corrodono coalizioni (Torcasio-Giampà), vari arresti rivelano i veri colpevoli di alcuni omicidi di boss nascosti dietro vari “traggiri”.

Sono eventi che fanno precipitare la città nella terza guerra (2000-2011).
In due anni (2000-02) avvengono 16 spietati agguati che determinano la morte di 15 persone e il ferimento di altre 7. Nel 2001 una sparatoria si trascina per due chilometri in una via pubblica, concludendosi con la morte di “U’ Longu”. Come ritorsione, cade un fratello del “Professore”, Pasquale Giampà “Buccaccio”, legato da un matrimonio ai Mantella e Lo Bianco di Vibo Valentia.

Nel 2002 il Comune viene nuovamente sciolto, ma la città rimane sotto attacco. Frattanto la locale Cerra-Torcasio-Giampà si è spaccata: i Giampà, attraverso matrimoni e patti, hanno al loro fianco i Notarianni, i Cappello-Arcieri, gli Iannazzo e i Cannizzaro-Daponte. Ai vertici del gruppo Cerra-Torcasio salgono elementi dei Gualtieri, dei Paradiso e dei Rainieri.

Riassumendo, quella che è stata denominata la faida di Lamezia Terme è stata una guerra tra ‘ndrine che ha preso il via a Lamezia all’inizio degli anni 2000 (omicidio Vincenzo Montilla, 38 anni) e si è trascinata fino al 2011 (con varie sospensioni temporali della guerra nel corso degli anni). Fin dall’inizio della faida il gruppo dei Cerra-Torcasio era considerato dominante in città, come sosteneva la relazione della commissione antimafia nel 2008, ma questo potere fu messo in discussione dal gruppo Iannazzo-Giampà, un’organizzazione potente anche economicamente. Dall’estate del 2000 in undici anni le persone uccise nel corso della faida sono state 53, oltre i numerosi ferimenti, attentati, danneggiamenti.

L’istruttiva vicenda del centro commerciale 2 Mari

Nel 2002 la Società Icom dell’imprenditore catanzarese Floriano Noto (ora presidente del Catanzaro), dopo aver acquistato un terreno in via del Progresso alla confluenza con la Statale 280, decise di realizzare un mega investimento commerciale (il modello era il centro commerciale laziale di Valmontone) chiedendo al Comune il permesso di costruire. Sul piano strettamente pratico e politico (diverso dal piano giuridico) significava nel territorio di Lamezia (e non di Maida) creare occupazione e qualificare via del Progresso. Subito però si mobilitarono le associazioni dei commercianti e la sinistra tafazziana di Lamezia che scesero in piazza per dire “no al Borgo Antico” in quanto si trattava di una speculazione edilizia che intendeva costruire su suolo agricolo. La protesta riuscì a far bloccare il progetto e nelle more il centro commerciale 2Mari dei fratelli Perri (che appartiene al territorio di Feroleto-Maida) si ingrandì. Dopo il diniego del Comune al permesso di costruire, la Icom presentò ricorso al Tar che lo accolse contro il Comune (nel dicembre 2013) per quanto riguardava la responsabilità a non concedere la licenza a costruire. La richiesta della Icom di ottenere un risarcimento danni venne accolta e stabilita in ben 22 milioni di euro. Una cifra che avrebbe significato senza dubbio il fallimento del comune di Lamezia, anche se in verità gli avvocati di Noto avevano chiesto ben 53 milioni di euro. Contro questa decisione il Comune di Gianni Speranza tentò una ultima disperata carta, il ricorso al Consiglio di Stato (2015), che lo accolse. Lamezia venne salvata dal fallimento e poi come nel gioco dell’oca nel 2017 la Icom ha ripresentato al Comune di Lamezia un’istanza con la stessa richiesta di costruire.

Stavolta l’iniziativa dell’imprenditore catanzarese ha trovato accoglienza ed è iniziato un confronto fra l’ing. Noto e l’assessore Stella. Alla fine deciderà il Consiglio comunale di Lamezia Terme che in quella zona ha anche il nuovo palazzetto dello sport da sistemare e far utilizzare in concreto, oltre che lo stadio provinciale Carlei, un’altra opera pubblica per la quale non è mai stata trovata una gestione sostenibile.

Adesso facciamo un passo indietro. Nel 1998 il suo vecchio sodale, il capocosca Cannizzaro, fu ucciso, così il commerciante Antonio Perri si sarebbe avvicinato alla cosca Iannazzo, nel cui territorio sarebbe sorto nei primi anni 2000 il centro commerciale “Due Mari”. La realizzazione del centro commerciale ha segnato in maniera indelebile la storia della ‘ndrangheta lametina e della città stessa, attraversata in quegli anni da una sanguinosa guerra tra clan. L’epicentro economico della città si sarebbe infatti spostato sotto l’area d’influenza della cosca Iannazzo che controllava Sambiase e la costa togliendo ai Torcasio la possibilità di spremere molte attività commerciali.

L’omicidio di Perri, all’epoca 71enne, avvenuto il 10 marzo del 2003
per opera del locrese Nicola Paciullo, ha dunque rappresentato un segnale durissimo.
Il killer, definitivamente condannato a 30 anni di carcere nel 2012, sarebbe stato “ assoldato” dalle cosche lametine per uccidere l’imprenditore (Paciullo è stato ritenuto un affiliato al clan Cordì e quella sera del 2003 avrebbe agito in trasferta per uno scambio di favori con le cosche lametine). L’agguato secondo i pentiti sarebbe stato ordinato dai vertici della famiglia Torcasio per diverse ragioni: i Torcasio non tolleravano l’avvicinamento agli Iannazzo dopo la morte di Cannizzaro, inoltre diverse delle sue attività commerciali ricadevano nel “loro” territorio e, soprattutto, ritenevano il defunto boss Vincenzino Iannazzo responsabile dell’omicidio di Giovanni Torcasio, che a sua volta imponeva le “mazzette” ai Perri.
Come risposta venne trafugata la bara di Perri e per la restituzione fu chiesto un riscatto di 150mila euro; poi la salma venne ritrovata nel marzo del 2008 seppellita a 50 metri dalla strada dei “Due Mari”. Secondo il pentito Giuseppe Giampà, il boss Iannazzo aveva posto come condizione imprescindibile, per raggiungere un accordo che sancisse la pax mafiosa sul territorio, proprio la restituzione di quella salma. La guerra di mafia era poi culminata con gli omicidi di Antonio e Vincenzo Torcasio (maggio 2003).

26 luglio 2013 Si conclude l’operazione Perseo della Polizia di Stato che porta a 65 arresti (tra cui anche medici, imprenditori e avvocati) con le accuse di associazione mafiosa, estorsione, truffa assicurativa e di diversi omicidi in relazione alla faida di Lamezia Terme, svoltasi tra il 2005 e il 2011.

2015 Con l’operazione Andromeda viene fatta luce sulla pace tra gli Iannazzo-Giampà ed i Torcasio-Gualtieri avvenuta anche grazie alla mediazione di clan del reggino.

Gli efferati omicidi di due noti avvocati sono avvenuti nel 2002 e nel 2016.

L’1 marzo del 2002 viene ucciso sulla strada per Maida l’avvocato Torquato Ciriaco. La sentenza dei giudici della corte d’Appello di Catanzaro ha condannato a 30 anni i fratelli Vincenzino e Giuseppe Fruci, a sei anni il collaboratore Michienzi. E’ stato assolto, invece, Tommaso Anello, accusato di essere il mandante dell’omicidio.

Il 9 agosto del 2016 in via Marconi a Lamezia venne ucciso l’avvocato penalista Francesco Pagliuso. La Corte d’Assise di Catanzaro ha condannato all’ergastolo Marco Gallo con l’esclusione dell’aggravante mafiosa.

Novembre 2017 Terzo scioglimento del comune.
Il 26/9/2019 Consiglio di Stato ha confermato lo scioglimento del consiglio comunale di Lamezia Terme per infiltrazioni mafiose. Respinto, quindi, il ricorso presentato dall’ex sindaco Paolo Mascaro e da alcuni componenti della sua Giunta. L’udienza di merito, in seduta pubblica, si era svolta il 19 settembre. I giudici di Palazzo Spada hanno accolto il ricorso presentato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, dal Ministero dell’Interno e dalla Prefettura di Catanzaro contro la sentenza del Tar dello scorso febbraio che aveva, temporaneamente, fatto tornare in carica l’ex sindaco Paolo Mascaro, del centrodestra, eletto nel giugno del 2015.

L’analisi più incisiva sulla città di Lamezia Terme resta quella dell’ on. Francesco Forgione (27/10/2006), allora presidente della Commissione Antimafia.
Le famiglie operanti nella zona di Lamezia hanno subito, rispetto ad altre realtà provinciali, comprese quelle del capoluogo, un più rapido processo di evoluzione dal modello della banda di tipo “gangsteristico” alla struttura mafiosa organizzata.
Superata una prima fase, durante la quale i clan hanno affinato le tecniche criminali e consolidato il controllo del territorio, sono poi passati alla gestione, in forme sempre più organizzate, delle tradizionali attività di accumulazione primaria di capitali necessari per l’affermazione del proprio
potere mafioso nonché alla creazione delle prime riserve finanziarie.
A tali delitti (estorsioni, traffico di stupefacenti, guardianìe, dapprima rurali e poi anche industriali), si sono affiancate, in tempi più recenti, una serie di attività apparentemente lecite, necessarie per occultare e dissimulare la provenienza delle rilevanti liquidità illecitamente accumulate.
E’ stata proprio tale disponibilità finanziaria che ha favorito la crescita delle cosche anche come soggetti economici attraverso la gestione di una variegata serie di iniziative imprenditoriali, condotte in prima persona o attraverso l’interposizione di prestanome compiacenti, che hanno  introdotto pericolose anomalie nel sistema economico locale.
L’ingresso delle famiglie mafiose nel mondo imprenditoriale, in un’area caratterizzata da un rapido sviluppo economico legato alla presenza
di importanti infrastrutture produttive e viarie, ha fornito alla criminalità
nuove opportunità di guadagno, aumentandone il potere e le potenzialità di
condizionamento del sistema sociale e politico (…).
Gli eventi degli ultimi anni (faide e inchieste giudiziarie) hanno contribuito al completamento di un processo di selezione naturale che vede oggi un panorama criminale caratterizzato da pochi, ma ben organizzati, schieramenti nei quali sono confluite alcune delle famiglie un tempo operanti nella zona.
Gli assetti locali, nonostante gli elevati livelli di conflittualità, si sono in linea di massima stabilizzati intorno a due principali consorterie che si affrontano in una logica di annientamento definitivo al fine di eliminare ogni possibile forma di concorrenza nella gestione dei rilevanti interessi economici presenti in zona.
Tale situazione è stata favorita da due ordini di motivi: in primo luogo
nel territorio comunale di Lamezia è stata più evidente l’influenza delle
famiglie reggine e di quella dei “Mancuso” di Limbadi, che tuttora operano
con grande peso nel suo contesto; in secondo luogo, il lametino è stato
interessato, con anni di anticipo sul resto della provincia, dagli insediamenti industriali e dalle relative infrastrutture produttive e viarie e, di conseguenza, dai flussi di spesa pubblica finalizzati a favorire i progetti di sviluppo.

La zona, infatti, ricca e fiorente, con importanti insediamenti
industriali e grandi prospettive di sviluppo, grazie alla buona rete di
collegamenti aerei, ferroviari e stradali con il resto del Paese, che hanno
contribuito alla creazione di un indotto di ragguardevoli proporzioni, offre
ottime opportunità per l’investimento e la dissimulazione delle grandi
ricchezze accumulate dalle cosche (…). I “Iannazzo” sono, tuttavia, il gruppo che nel corso degli anni ha saputo meglio attrezzarsi verso le forme più redditizie di criminalità economica.

Nel territorio controllato da Iannazzo ricade l’aeroporto di Lamezia Terme, in relazione al quale, però, è necessario dare impulso alle attività investigative visto che, sino ad oggi, nonostante la presenza attiva della cosca nell’intera area aeroportuale, non vi è stata alcuna adeguata ed
efficace rispondenza investigativa e giudiziaria, anche in rapporto alla mole
di affari e di traffici che attorno a quest’area si sviluppano.

(Soverato web, apr. 2023) La mappa criminale nella provincia catanzarese, distingue quattro aree, ciascuna caratterizzata dalla presenza di cosche che esercitano la loro influenza, evitando reciproche interferenze.

Nel comprensorio lametino operano le famiglie dei Iannazzo, con i loro collegamenti nel Vibonese e in altre regioni quali il Veneto e l’Emilia Romagna, dei Giampà, attualmente indeboliti a causo dello stato di detenzione di molti affiliati, dei Cerra-Torcaso-Gualtieri, storica famiglia mafiosa già decimata dalla guerra di mafia che la vide contrapposta ai Giampà e ai Iannazzo, oggi fortemente ridimensionata dalle numerose operazioni della Dda.

Nello stesso comprensorio lametino operano, alcuni gruppi minori, attivi soprattutto nei settori del movimento terra, del commercio di legname e della produzione di cippato. Costoro gestiscono le loro attività illecite con sufficiente autonomia, ma pur sempre sotto il controllo delle cosche dominanti: il riferimento è alle famiglie degli Scalise e dei Mezzatesta, coinvolti nel blitz antimafia Reventinum.

Il fotografo Gennaro Ventura ucciso a Lamezia, confermati 30 anni per il mandante.
Il processo d’Appello ribadisce la condanna per Domenico Cannizzaro. Gennaro Ventura è scomparso nel nulla nel dicembre 1996. Per vent’anni la sua morte è rimasta un mistero (7/2/19)

(Alessia Truzzolillo) Confermata anche in Appello la condanna a 30 anni di reclusione nei confronti di Domenico Antonio Cannizzaro a capo dell’omonima cosca di Lamezia Terme. L’imputato è accusato di essere il mandante dell’omicidio del fotografo Gennaro Ventura scomparso nel nulla il 16 dicembre 1996, all’età di 28 anni.
Per 20 anni la morte del fotografo, carabiniere in congedo, è stata avvolta nel mistero. Il corpo dell’uomo è stato ritrovato per puro caso nel 2008, in un casolare abbandonato in località Carrà-Volpe, alla periferia di Lamezia. Solo nel 2015, con il pentimento dell’esecutore materiale del delitto, Gennaro Pulice, la vera storia dell’omicidio è assurta agli onori della cronaca.
Pulice, ha raccontato di aver agito per conto di Domenico Cannizzaro, a capo della cosca di cui l’assassino era il braccio armato. Una vendetta chiesta dal boss per “punire” il fotografo per alcune indagini effettuate quando era carabiniere a Tivoli. Indagini che avevano portato all’arresto di Raffaele Rao, cugino di Cannizzaro. L’arresto, per una rapina durante la quale era stato sottratto un ingente quantitativo di sostanza stupefacente dagli uffici del perito chimico del tribunale, avrebbe provocato delle «conseguenze psicologiche al Rao» e anche queste, agli occhi di Cannizzaro, andavano lavate col sangue.
Pulice, il 16 dicembre 1996, diede un appuntamento di lavoro al fotografo (con la scusa di fotografare dei reperti archeologici che Pulice diceva di avere trovato in località Carrà-Volpe), lo portò fuori città e lo freddò con due colpi di pistola calibro 9×19, di cui uno alla testa.
Poi nascose il corpo nel palmeto di un casale abbandonato, dove 12 anni dopo, i poveri resti di Ventura vennero rivenuti, insieme alla sua attrezzatura da fotografo e alla fede nuziale, da un privato che voleva acquistare l’immobile.
La storia giudiziaria del caso è amara e complessa. Nonostante le indicazioni e i nomi forniti dalla famiglia agli inquirenti, le indagini si arenano. Eppure fin dall’inizio, fin dalla denuncia, era emerso che Gennaro Ventura, prima di sparire aveva avuto un appuntamento di lavoro con tale Gennaro Pulice. Ed era emerso il fatto dell’arresto di Tivoli, di Rao e della parentela con Cannizzaro. Il 13 marzo 1998 arriva la prima archiviazione. Le indagini vengono riaperte nel 2008, col ritrovamento del corpo da parte di persone che stavano visitando il casolare perché interessate a comprarlo. Nonostante questo si arriva alla seconda archiviazione, fino al 2015 e alle confessioni di Pulice. Quest’ultimo è stato condannato in appello, con un giudizio separato, a 7 anni e 8 mesi di reclusione.
Se la sentenza nei confronti di Cannizzaro ha donato respiro a una famiglia, assistita dall’avvocato Marco Bianucci, che chiede giustizia da oltre 20 anni. Per quanto riguarda la condanna nei confronti del killer Gennaro Pulice a 7 anni e 8 mesi, questa ha lasciato molta amarezza ai familiari di Ventura che hanno già annunciato il ricorso in Cassazione.

Relazione semestrale al Parlamento- DIA (gennaio-giugno 2022) Nell’area del territorio di Lamezia Terme e, in particolare, nei territori di Sambiase, Sant’Eufemia, Curinga e Nocera Terinese sarebbe attiva la cosca IANNAZZO-DA PONTE-CANIZZARO.
La cosca TORCASIO-CERRA-GUALTIERI manterrebbe la sua influenza soprattutto nel centro storico di Nicastro e in località Capizzaglie, mentre nel rimanente territorio sarebbero attivi i GIAMPÀ. Proprio nel territorio di Lamezia Terme, il 28 giugno 2022, i Carabinieri di Catanzaro hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare a carico di 14 soggetti ritenuti responsabili di associazione per delinquere finalizzata al furto e alla ricettazione di farmaci trafugati da due depositi calabresi per poi essere immessi nel mercato clandestino.

Lamezia contesa dalle cosche (15/9/2023) Relazione della DIA relativa al secondo semestre del 2022, nel paragrafo dedicato alla provincia di Catanzaro.L’area più instabile risulta essere quella di Lamezia Terme ove si registrano dinamiche criminali che traggono origine dal non ancora definito ‘controllo del territorio’ aspramente conteso dalle storiche cosche della Piana che starebbero tentando di riorganizzarsi a seguito delle incisive operazioni di polizia eseguite nel tempo (a partire dal 2012 “Medusa”, “Perseo”, “Chimera” e “Andromeda”) con l’arresto di numerosi esponenti apicali”.

“Compagine criminale variegata”“A Lamezia Terme – prosegue la relazione della Dia – si confermerebbe la presenza di una variegata compagine composta dalla ‘ndrina confederata Iannazzo-Giampà-Cannizzaro-Daponte, egemone anche grazie all’alleanza con i Cerra-Torcasio-Gualtieri, un tempo rivali, e dai clan di etnia rom. Il 7 marzo 2022, sempre a Lamezia Terme, – ricorda la relazione – i Carabinieri hanno proceduto all’arresto dei presunti responsabili di un omicidio, e del contestuale ferimento di tre pluripregiudicati, consumato lo stesso giorno, ritenuti vicini alle consorterie Cerra-Torcasio-Gualtieri e Iannazzo-Giampà-Cannizzaro-Daponte”.

Le cosche della montagna“Nel territorio di Soveria Mannelli e Decollatura, – rileva la relazione della Dia – area nota come ‘massiccio del Reventino’, sarebbero operative le famiglie Scalise e Mezzatesta, tra loro contrapposte, attive anche nell’area montana della Presila catanzarese e gerarchicamente dipendenti dalle ‘ndrine Iannazzo-Cannizaro-Daponte e Giampà di Lamezia Terme”.

Nicola Gratteri su Lamezia (da Trame 2023) Il procuratore ha parlato, tra le altre cose, del duplice omicidio dei due netturbini Pasquale Cristiano e Francesco Tramonte, uccisi a Lamezia il 24 maggio 1991: “Se si leggono le carte del processo si ha un’idea di quello che è successo. È stato fatto uno stub risultato positivo, non sono stati avvisati i difensori e questo è un atto irripetibile. Comprendo il dolore di tutti e sono vicino a tutti, ma vorrei che ci fosse un po’ di realismo e che non si parli come se fossimo al bar dello sport. Vorrei che si parlasse seriamente e così si potrà capire cosa è stato fatto e cosa non è stato fatto”.

L’omicidio Ferlaino e la sua opposizione all’ingresso della ‘ndrangheta in massoneria Con riguardo, invece, all’omicidio di Salvatore Aversa, sovrintendente della Polizia di Stato ucciso il 4 gennaio 1992 insieme alla moglie Lucia Precenzano in un agguato verificatosi nella centralissima Via dei Campioni (in seguito intitolata ai coniugi) a Lamezia, Gratteri ha detto: “Anche in questa occasione furono commessi diversi errori, perché non c’era la forza e la compattezza di polizia giudiziaria e magistratura che c’è adesso”. Sull’uccisione di Francesco Ferlaino, avvocato generale alla Corte d’Appello di Catanzaro, il procuratore capo di Catanzaro ha spiegato che il fatto di sangue “è stato commesso perché il giudice si opponeva all’ingresso della ‘ndrangheta nella massoneria. Allora vi era già la ‘Santa’ e una ‘ndrangheta che non era più quella arcaica”.

(Angelo Cocles) La ‘Ndrangheta ha una struttura organizzativa diversa sia da Cosa Nostra che dalla Camorra. La sua struttura, tenuto conto anche della morfologia del territorio calabrese e della difficoltà dei collegamenti, è di tipo orizzontale. Il suo elemento di base è la ‘ndrina. Si tratta di una famiglia, legata da vincoli di sangue, che controlla un particolare territorio, di solito un paese o un quartiere di una città od un’area di una città metropolitana. Vale la pena di sottolineare come la stessa sia di
tipo verticistico piramidale, ovvero “in comando” vi è sempre una sola persona. Più ‘ndrine di un paese formano la locale. Il capo di una ‘ndrina viene detto genericamente capubastuni (capobastone). Ogni ‘ndrina si forma dopo l’autorizzazione del locale principale ed è una famiglia
nota a tutte le locali che è arrivata ad avere un notevole numero di affiliati. La ‘ndrina ha un suo gruppo di fuoco che dipende solo dal capo della ‘ndrina. Quando un capo-famiglia raggiunge un numero di 50 o 60 affiliati ha la facoltà di comunicare al capobastone la propria intenzione di costituire una ‘ndrina distaccata, termine equivalente a quello
di cosca, che non fa parte del linguaggio di ‘Ndrangheta

                                                             LA SANTA

Giuro su questo pugnale d’ omertà con la punta bagnata di sangue e davanti all’ Onorata Società organizzata e fedelizzata di adempiere a tutti i miei doveri…”. Il picciotto recita così il “giuramento del veleno”: sa bene che se tradisce per lui ci sarà la morte. Lo conferma un “codice della ‘ ndrangheta”, uno dei più completi, e a prima vista tra i più importanti, tra i dodici noti, trovato dal vicequestore Arturo De Felice, ex dirigente il commissariato di Polizia di Lamezia Terme. Era contenuto in sette pagine ingiallite, gelosamente custodite in un vaso di vetro nascosto in un porcile. In quei sette foglietti scritti a mano su carta ruvida, che riproducono gli articoli di un codice di affiliazione e descrivono una cerimonia di iniziazione, c’è la conferma che la mafia calabrese è diventata una holding da 40 mila miliardi senza rinunciare alle proprie radici, circondando ancora la propria organizzazione da un alone di mistero, mantenendo intatta quella “religiosità” non solo esteriore che ha portato i nuovi mafiosi a ribattezzare “Santa” la vecchia ‘ ndrina.

La ‘ ndrangheta lametina è  ndrangheta antica che fa affari con tecniche e metodi moderni. Nel codice ritrovato vi sono una serie di domande e risposte in un italiano spesso approssimativo. Che cosa rappresenta il picciotto?, chiede il “celebrante” al giovane da “battezzare”, dopo il giuramento del veleno: “Una sentinella d’ omertà”, risponde l’ affiliando. E ancora. Che cosa vi ha dato l’ Onorata Società? “Sette belle cose”. E tra esse: “Omertà, fedeltà, politica e falsa politica”. Dove è nata la ‘ ndrangheta? “In un giardino dove risiede la Camorra, nell’ isola della Favignana, in una tomba segreta”. Perché essere un “omo”? “Per onorare, sempre e lungo la fratellanza”. E di seguito il giuramento: “A nome di San Michele Arcangelo, lo giuro, juri di malandrino, (fior di malandrino), che porta spade, spadini, bilancia, taglia e rintaglia e in carne pelle e ossa, così vi rintaglio io, punta, favella e cica (silenzio) in bocca, a nome della Santa Immacolata, la mia favella è libera la vostra e vincolata”.

NOTE= Il testo è tratto da articoli di Pantaleone Sergi (Repubblica, 4/9/91) e Sergio Pelaia (Gazzetta del sud, 24/2/22); da “La notte della città” di Mario De Grazia (L. Pellegrini editore, 2018); da “La storia dei sequestri a Lamezia”, il Lametino, 14/6/ 2008; dal Corriere della Calabria; da Wikipedia; da Pasqualino Rettura del Quotidiano del Sud.