Il rovescio delle parti tra Giuseppi e Di Maio nel rapporto con il Pd

Uno teneva in tasca la laurea di «punto fortissimo di riferimento di tutte le forze progressiste», l’altro era l’indimenticato autore della filippica in rete contro «il partito di Bibbiano, quello che toglieva i bambini alle famiglie con l’elettroshock per venderseli».

Eppure le cose cambiano, e tra le spiazzanti novità della Quirinaleide 2002 c’è il ribaltamento delle parti tra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio. Il nuovo è diventato vecchio, il vecchio è diventato nuovo.

Ora naturalmente si incrociano dietrologie e sospetti – c’è chi dice che Giuseppi puntasse al voto anticipato e c’è chi sospetta che Giggino aspirasse alla poltrona di Draghi – ma l’onestà impone di attenersi agli atti, dai quali il presidente del Movimento oggi risulta un alleato inaffidabile che tramava in segreto col nemico mentre il giovane ministro degli Esteri emerge come il difensore decisivo contro l’invasione di campo inutilmente tentata dal pasticcione Salvini.

Conte esce a pezzi dalla sei giorni di Montecitorio. Pochi avrebbero immaginato di assistere a una trasmutazione così repentina dell’ex premier, a lungo corteggiato, lusingato e accarezzato dagli eredi della Ditta che vedevano in lui addirittura il nuovo Prodi, il domatore democratico dei grillini selvatici, il campione da schierare contro il centrodestra. Dopo l’ormai celebre definizione di Nicola Zingaretti – che forse se ne sarà pentito cento volte – Massimo D’Alema lo ha incoronato «l’uomo più popolare d’Italia», il Richelieu rosso Goffredo Bettini gli ha privatamente regalato i suoi raffinati consigli, Pier Luigi Bersani ne è diventato il difensore d’ufficio nei talk show, perché «ha una sua popolarità che bisogna esser ciechi o malintenzionati per non vederla», e anche Enrico Letta lo ha sempre trattato come l’indispensabile partner con cui disegnare il suo Campo Largo.

Poi è cominciata la partita del Quirinale e l’azzimato Avvocato del Popolo con la pochette a quattro punte è improvvisamente sparito dai radar del Pd. Per tre volte si è sparsa la voce di un patto segreto tra lui e Salvini – il suo ex ministro al quale il 20 agosto 2019 mise la mano sulla spalla, sui banchi di un governo cadente, facendogli l’elenco degli errori commessi – e su Twitter qualcuno ha perfidamente dedotto che «Letta è alleato di Conte, ma Conte non è alleato di Letta». Due anni e mezzo di lavorìo mediatico con il Nazareno e con i compañeros gettati alle ortiche con l’improvvisazione di un maldestro praticante di studio che si fa beccare mentre telefona alla controparte.

La parabola discendente di Conte incrocia quella di Di Maio, che ora punta di nuovo verso l’alto. Il rampante “capo politico” che dopo la rottura con Salvini non voleva l’accordo con i vecchi nemici del Pd, l’arrogante candidato premier che invocava l’impeachment di Mattarella, lo spregiudicato capopopolo che andava in macchina a Parigi con il subcomandante Dibba per solidarizzare con i gilet gialli contro il feroce Macron è come se fosse stato inghiottito da un buco nero.
Al suo posto c’è un altro Di Maio, che parla il linguaggio felpato dei dorotei, però ha dimostrato la lealtà di un ministro moroteo ma anche l’astuzia di un luogotenente andreottiano. Insomma, sembra un democristiano del Terzo Millennio. Saranno stati i due anni di tirocinio alla Farnesina, sarà stata la sua spettacolare capacità di adattamento, fatto sta che l’ex ragazzo di Pomigliano d’Arco – che con i 189 voti raccolti alle “parlamentarie” pentastellate riuscì nel 2013 a diventare addirittura vicepresidente della Camera – oggi ha dimostrato di aver imparato rapidissimamente le regole della politica: ha fatto fallire i piani di Salvini, si è schierato con Draghi, ha dato per primo l’ordine di votare Mattarella e ora sfida Conte nel Movimento. Così toccherà a quelli che chiamavamo grillini decidere quale dei due è Nuovo e quale è il Vecchio.