Cosa ci serve ancora per capire che Draghi è meglio al governo che al Quirinale?

C’è persino una nota implorante nel pezzo dell’Economist che stra-elogia l’Italia di Mario Draghi. Non mandatelo via dal governo. Sarebbe un colpo alla primazia che il nostro Paese si è a sorpresa conquistata dopo la notte populista proprio grazie all’attuale presidente del Consiglio e solo a lui.

Ma cos’altro ci vuole, ancora, per rendersi conto che dai punti alti dell’intelligenza europea si vede come una tragedia una eventuale scissione del binomio Italia-Draghi? Prima era stato il Financial Times, ora tocca all’Economist, ma anche da noi sono innumerevoli gli auspici che il presidente del Consiglio resti dov’è, al timone della nave e non, con tutto il rispetto per il Quirinale, nel salone delle Feste.

L’Europa, va ribadito, non tifa Draghi perché gli sta simpatico ma per l’ottima ragione che egli ha conquistato di fatto la leadership del nostro Continente: guardate come Bruxelles si è accucciata sulla questione dell’obbligo di tamponi per gli stranieri che vengono in Italia, passando da un fermo «Roma chiarisca» al silenzio di tomba dopo che il presidente italiani sul tema aveva scandito tre parole: «Non c’è molto da riflettere». Draghi parla, Bruxelles prende nota. Lui guida l’Italia e di lì l’Europa: questo ci stanno dicendo gli osservatori e i politici più avveduti.

Siccome il teatrino politico-mediatico quando si fissa su una cosa la ripete a ogni piè sospinto, tutti sono convinti che il presidente del Consiglio voglia traslocare al Colle, cosa che, per carità, sarebbe il coronamento della vita professionale di un servitore dello Stato come lui. Immaginare però che Draghi stia lavorando per questo esito è una forzatura, quantomeno non ne esiste alcun indizio. Se non quelli sparsi da ambienti a lui vicini o malevolmente attribuiti a imprecisati staff (ma esiste davvero qualcuno che possa parlare in nome e per conto di Draghi?), voci incontrollate di terza mano, veline di quart’ordine, spifferi veicolati nei corridoi di Montecitorio e di lì svolazzanti sui tavoli di direttori di giornali e compagnia bella.

Tutti questi ambienti e personaggi fanno finta di sapere tutto trattando l’ex presidente della Banca centrale europea alla stregua di quei politicanti, anche di rilevo, che antepongono la propria carriera all’interesse nazionale, facendo finta di non sapere che il Paese si governa da palazzo Chigi e che se palazzo Chigi funziona non ce n’è per nessuno, nemmeno per l’ex residenza dei Papi.

La normalità costituzionale, diremmo, oltre che una decennale prassi politica, vogliono che la nenniana stanza dei bottoni sia quella che sta di fronte alla Colonna Traiana nel palazzo che la ricca famiglia Chigi acquistò nel Seicento dagli Aldobrandini. È da quella stanza che l’Italia dovrà sfornare progetti credibili per assicurarsi i miliardi del Piano di resistenza e resilienza, è in quella stanza che si sta guidando e si guiderà ancora a lungo la battaglia contro la pandemia.

Dal Colle certamente dovrà venire il consiglio prezioso e l’aiuto necessario, ma, come insegnano i giuristi, la fisarmonica quirinalizia si apre nell’emergenza: e il Paese ha bisogno di normalità istituzionale pur nella straordinarietà della fase. E quindi anche la tesi, più o meno sincera, secondo la quale «bisogna mettere Draghi al sicuro per sette anni» suona bene ma è fallace proprio perché la lotta è qui e ora, e il 2022 sarà l’anno della promozione a grande Paese o del ritorno alla marginalità nel mondo, della rinascita o del declino. E un uomo come Draghi può anche solo dare l’impressione di una diserzione?

Questi ragionamenti, che peraltro tagliano trasversalmente i partiti, dovrebbero essere di casa di chi sta sostenendo l’azione del governo e in primo luogo di quel Pd che in questa fase appare improvvisamente tormentato, incerto, assillato da un incubo: cioè che la corsa al Colle possa essere infine vinta da Silvio Berlusconi, il che costituirebbe tra l’altro una sufficiente ragione per le dimissioni del gruppo dirigente.

Ecco perché Letta giustamente insiste sul profilo non di parte del prossimo Capo dello Stato che infatti «non è mai stato un leader di partito»: vero (a eccezione di Giuseppe Saragat, ma il suo era un partito piccolo). L’opera di sbarramento al Cavaliere potrebbe indurre il segretario del Pd a giocare la carta-Draghi (ma già al primo scrutinio con il rischio di decine e decine di franchi tiratori?): ecco, se fosse così sarebbe un tragico errore che getterebbe l’Italia prima a una fase di non governo e poi in braccio ai sovranisti nella fase più drammatica di degli ultimi decenni. Con magari Mario Draghi a scrutare impotente dal Colle le nuvole nere che avanzerebbero sul Paese: un bel capolavoro, sarebbe.