M.SALVATI- CHE FINE FARA’ IL SUD

(…) La questione meridionale è la grande ferita storica del nostro Paese, che nessun governo, dall’Unità sino a oggi, è riuscito a risanare, e alcuni hanno anzi approfondito. In questo dopoguerra sembrava in via di chiusura negli anni della grande crescita e in quelli immediatamente successivi, dal 1960 all’80, ma poi è tornata ad aprirsi nonostante gli sforzi e le risorse dedicati al Mezzogiorno. Negli anni della grande crescita, dal 1960 al 1980, la ferita storica sembrava sanata. Poi si è riaperta nonostante gli sforzi. Nel frattempo erano state istituite le Regioni (quelle a statuto speciale lo erano state prima) e verso la fine del periodo, con il successo della Lega Nord, si arrivò addirittura a parlare di federalismo. I grandi partiti nazionali si mostrarono accondiscendenti, nonostante che il clientelismo e l’incapacità amministrativa di molte amministrazioni regionali, ordinarie e speciali, fossero sotto gli occhi di tutti. E la riforma costituzionale del 2001 aumentò la confusione e non pose certo rimedio alla loro tendenza ad approfondire invece che ad alleviare le differenze tra Nord e Sud. L’ultima occasione persa è stato il fallimento del referendum costituzionale promosso dal governo Renzi. La parte riguardante il riordino delle competenze nazionali e regionali e l’istituzione del Senato come rappresentanza delle autonomie territoriali non era certo perfetta, ma conteneva un principio fondamentale: affidava a un ente costituzionale di grande rilievo, a una parte del Parlamento stesso e agli organi tecnici che l’avrebbero assistito, il controllo delle tendenze divaricanti insite nella stessa concessione di rilevanti poteri autonomi. Il Senato poteva diventare il vero garante dell’articolo 5 della nostra Costituzione, quello che riconosce sì autonomia e decentramento amministrativo, ma nell’ambito di una «Repubblica una e indivisibile». Ma quale unità e indivisibilità può reggere di fronte a un continuo approfondimento delle differenze tra i diversi territori che compongono il Paese? Di fronte a un Nord che bene o male se la cava e a un Sud che rischia di sprofondare nel sottosviluppo? Quale unità può reggere di fronte a un continuo approfondimento delle differenze tra i territori che formano il Paese? Oggi, come in tutto il dopoguerra, la tenuta del Paese è più affidata al collante del suo ceto politico che alla robustezza delle sue istituzioni e alla qualità della sua amministrazione pubblica: un sostegno, il primo, assai più instabile e precario del secondo data l’inevitabile tendenza dei politici ad assecondare, anzi a fomentare, tendenze populistiche per prevalere nell’agone elettorale. Il vecchio ceto politico è stato travolto dalle elezioni del marzo scorso: in quello che l’ha sostituito chi si farà carico del compito di sostenere lo sviluppo del Mezzogiorno? Dovrebbero essere i 5 Stelle, i grandi favoriti dal voto meridionale, e così è stata interpretata dai commentatori più benevoli la principale misura da loro proposta, il reddito di cittadinanza. Si tratta però di una misura contro la povertà, le cui risorse sono destinate a ridursi ulteriormente date le ristrettezze finanziarie in cui versa il Paese, e comunque non intacca i meccanismi che spiegano «Perché il Sud è rimasto indietro» (Mulino, 2013), il libro di Emanuele Felice la cui lettura non mi stanco di consigliare. E allora mi domando: perché i 5 Stelle non fanno propria la proposta di una legge costituzionale sul Senato delle autonomie? Perché sembrano avviati a concedere alle Regioni più ricche modifiche istituzionali che consentano di utilizzare nei loro territori l’intero residuo fiscale positivo di cui dispongono? Questa è una riforma — e potrebbe rivelarsi duratura — che contrasta con il principio di solidarietà interregionale e lo spirito di comunità nazionale, e che verrebbe attuata in cambio del piatto di lenticchie del reddito di cittadinanza e in nome di una alleanza politica di cui è dubbia la durata. La domanda mi sembra però così ingenua che quasi mi vergogno di averla fatta.
(…)Non vorrei essere nei panni di chi, l’autunno prossimo, dovrà confezionare la legge di Bilancio («la manovra») per il 2020 (dal CORSERA 11/12/2019)