Fubini/Perché abbiamo le bollette più care d’Europa (e come il modello-Spagna può aiutarci a ridurle)

Due passaggi danno da pensare più degli altri nelle «Considerazioni finali» del governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta di venerdì scorso. Erano i più criptici, eppure fra i più forti nelle 27 pagine di discorso pronunciato fra i marmi e gli arazzi di Palazzo Koch. Panetta indica un obiettivo: «Creare un ambiente normativo, economico e finanziario che (…) limiti il potere monopolistico di pochi grandi attori». Poco prima aveva messo fra le «questioni ineludibili» anche «i vincoli alla concorrenza che in molti settori creano rendite di posizione». Cosa avrà voluto dire il governatore? Le sue parole hanno qualcosa a che fare con il grafico (qui non riportato, ndr) ? Lo ha fatto Massimo Beccarello, economista dell’Università Milano-Bicocca. Mostra non solo che l’Italia ha i prezzi dell’elettricità più alti d’Europa; anche qualcosa di più: che più i prezzi tornano verso la normalità con la fine della crisi energetica, più lo svantaggio di prezzo dell’Italia aumenta. Alla borsa elettrica, il prezzo medio italiano era un quarto sopra la media europea nel gennaio scorso e ora è arrivato a essere più del doppio.

Perché l’energia elettrica in Italia costa così tanto?
Qui devo subito precisare: non ho idea a cosa si riferisse Panetta con quel «potere monopolistico di pochi grandi attori»; né dei settori ai quali pensasse, quando ha chiesto più concorrenza in Italia. Dunque qui non sto cercando di attribuire al governatore le osservazioni che seguono. Ma la domanda resta: com’è possibile che i costi dell’energia elettrica in Italia siano così fuori scala rispetto al resto d’Europa e anzi lo siano sempre di più? Cosa si può fare per migliorare le cose? Perché in effetti qualcosa si può fare, eccome.

Prima di andare avanti però vorrei essere chiaro su altri due punti. Primo: qui stiamo parlando dei costi della materia prima alla vendita all’ingrosso – semplicemente, l’elettricità – prima delle tasse e di altri oneri come il trasporto o la distribuzione (che già, eufemismo, non ci aiutano). Secondo: è una questione determinante non solo per le famiglie ma per l’industria, cioè per il punto di forza dell’economia italiana. Come si vede dal grafico qui sotto di EY e Oxford Economics (grazie a entrambi), la produzione industriale italiana è scesa dall’inizio del 2021 principalmente perché è scesa la produzione nei settori che consumano più energia, in gran parte elettrica. Ridurre il costo dell’elettricità è dunque la prima riforma: serve per la crescita e per la creazione di posti di lavoro retribuiti in modo dignitoso nel Paese.

Com’è prodotta l’elettricità in Italia
Una causa di fondo del costo elevato dell’elettricità in Italia è che essa è prodotta per la parte più importante bruciando gas naturale, il cui prezzo oggi è notoriamente alto. Secondo «Our World in Data» nel 2023 il 45% dell’elettricità italiana è generata dal gas, contro il 19% della media europea. Un record. In Spagna per esempio l’anno scorso il 48% dell’elettricità è venuta da fonti rinnovabili, che sono molto meno care (in Italia nel 2023 da rinnovabili solo il 35%). In Francia il 65% viene dal nucleare, già in sé meno caro, in più il nucleare al consumo per le imprese di Oltralpe è di fatto sussidiato: il governo di Parigi ha imposto un prezzo dell’energia da centrali atomiche così basso che in anni recenti la compagnia produttrice Electricité de France è fallita, quindi il governo stesso l’ha ricapitalizzata. Quanto alla Germania, usa più rinnovabili dell’Italia e in realtà anche molto più carbone dell’Italia; il carbone è una fonte sporca, alle imprese che lo bruciano costa caro in permessi di inquinamento, ma il governo di Berlino compensa queste aziende con una generosità che noi italiani non potremmo permetterci. Gli scandinavi poi possono contare su molte più rinnovabili e molto più nucleare di noi.

Il confronto con gli altri Paesi
In sostanza, siamo in una posizione scomoda. Non riusciamo a versare tanti sussidi quanti Germania e Francia, perché abbiamo troppo debito pubblico e in ogni caso abbiamo preferito spendere centinaia di miliardi nel «Superbonus» e simili sussidi a famiglie (spesso) per niente bisognose. Abbiamo respinto il nucleare con un referendum e servirà più di un decennio per cambiare strada, se mai accadrà. E non abbiamo sviluppato le rinnovabili come la Spagna.

Accelerare sulle rinnovabili
Come uscirne? La strada più ovvia è di accelerare con i parchi eolici e fotovoltaici. Un regolamento dell’Unione europea delle scorse settimane permette che l’energia da rinnovabili si venda finalmente al costo delle rinnovabili stesse, non più al costo più elevato del gas (come accaduto in Italia e gran parte d’Europa negli ultimi anni). Per dare l’idea: l’elettricità da metano in maggio è costata in Italia 95 euro a megawattora, quella da rinnovabili è costata in Spagna 37. Giovanni Sgaravatti del centro studi Bruegel mostra che in Spagna per le grandi imprese energivore la bolletta pesa praticamente la metà che in Italia. E la Puglia o la Sicilia possono produrre solare o eolico tanto quanto le pianure iberiche. Se il «made in Italy» potesse contare su bollette spagnole, volerebbe.

Gli obiettivi al 2030
E i piani, almeno quelli, ci sarebbero. Il governo si è impegnato a Bruxelles a far sì che l’Italia installi almeno 70 gigawatt di nuova capacità rinnovabile entro il 2030. Significherebbe mettere in funzione impianti per circa nove gigawatt all’anno, ma la realtà sul terreno è tutt’altra. Nel 2022 e 2023 abbiamo viaggiato al ritmo di uno o due gigawatt all’anno, meno di un terzo di quanto servirebbe. E in gran parte la nuova capacità viene da piccolissimi impianti sul tetto di casa spinti dal «Superbonus», facendo debito a un ritmo così folle che ormai il meccanismo è quasi fermo. Al contrario, servirebbero investimenti massicci in impianti molto vasti – cosiddetti “utility scale”, come spiega Massimo Beccarello – in modo da aumentare l’efficacia e abbattere i costi grazie alle economie di scala: una volta creati i parchi solari o eolici, il costo della generazione elettrica scenderebbe moltissimo.

Lo stallo sui permessi
Dunque perché non spingiamo di più? Intanto, malgrado le promesse fatte e le misure prese, il percorso dei permessi in Italia resta labirintico. Ma c’è una ragione più di fondo, che va al cuore delle contraddizioni del Paese. A Bruxelles il governo si è impegnato sui 70 gigawatt entro il 2030, ma a Roma deve mettersi d’accordo con venti diverse regioni perché queste indichino le aree nelle quali installare le turbine eoliche o i pannelli. E le regioni non sentono affatto come propri gli impegni che il governo centrale ha preso con l’Unione europea. Dunque siamo in uno stallo messicano, nel quale tre diversi livelli istituzionali sembrano bloccati in un surreale dialogo fra sordi. (Non oso pensare a cosa potrebbe accadere se il governo andasse avanti con l’autonomia differenziata, che potenzialmente assegna alle regioni ancora più competenze sull’energia).

Il decreto del ministero dell’Ambiente
Sapete come cerca di mettere una toppa a tutte queste contraddizioni il ministro dell’Energia Gilberto Pichetto Fratin? In questi giorni sta pubblicando un decreto in cui, di fatto, indica per i grandi produttori il prezzo di vendita dell’energia rinnovabile a 85 euro (per il fotovoltaico) o a 80 euro (per l’eolico). In altri termini, più del doppio rispetto alla Spagna e a qualunque altro Paese del mondo. Per i prossimi vent’anni. L’unico compratore autorizzato è il Gestore dei servizi energetici, una società al 100% del ministero dell’Economia. La logica del decreto è di garantire una rendita esorbitante alla terra dedicata alle rinnovabili, per spingere i proprietari a aumentarne l’utilizzo a questo scopo e dunque far salire la produzione. Così gli italiani finiranno per pagare più del doppio anche le fonti rinnovabili, solo perché la burocrazia dei permessi e le liti fra Stato e regioni fanno sì che queste oggi scarseggino. Poiché il sistema pubblico è inefficiente nel creare le condizioni per generare elettricità pulita, lo Stato quale unico possibile compratore si offre di strapagare rendite fuori mercato ai proprietari terrieri perché questi si dedichino ad essa. A valle, tutti dunque pagheranno bollette più alte, mentre chi possiede il suolo si arricchirà ben oltre i suoi meriti. Al contrario, in Spagna anche i privati possono comprare all’ingrosso elettricità da rinnovabili dai grandi produttori di eolico o solare. E lo fanno a prezzi molto più bassi.

Ma c’è di più. Quando si vedono i margini di guadagno altissimi dei grandi produttori e venditori all’ingrosso di energia elettrica in Italia – spesso, società a controllo pubblico – viene da chiedersi: non sarebbe ora che le autorità di regolazione dell’energia (Arera) e dell’antitrust (Agcm) tornino a dare un’occhiata al settore?