Il pluralismo situazionista del Pd, pronto a tutto e capace di niente

L’articolo pubblicato ieri da Repubblica ha fatto tirare un bel sospiro di sollievo nelle stanze del Nazareno, documentando come, sulla base dei principali sondaggi, la campagna elettorale della segretaria del Partito democratico sembri avere più mordente di quella del Capo del Governo – fosse mai che a chiamarla Capa si sentisse sminuita – e i risultati del principale partito di opposizione sembrino avvicinarsi alla “quota Zingaretti” del 2019, il 22,7 per cento, risultato inizialmente insperato.

Ammesso e non concesso che i numeri dei sondaggi siano giusti e che l’entusiasmo di Repubblica – un giornale non proprio antipatizzante del Pd – non serva anche a tirare la volata agli ultimi quindici giorni della campagna di Elly Schlein, questo risultato teorico e parziale merita di essere commentato e analizzato, perché riflette dinamiche della politica italiana che trascendono lo specifico del Pd e che segnano (io dico e poi spiego perché: in negativo) il funzionamento della nostra democrazia e il rapporto perverso e malato tra le strategie elettorali e l’esercizio delle responsabilità politica dei partiti.

La campagna del Nazareno ha seguito una logica pigliatutto e non ha mirato a comporre un insieme di candidature e di proposte unite da vincoli di coerenza o almeno di compatibilità, ma ad aggregare mondi, personalità e visioni radicalmente inconciliabili, pur di mantenere il PD su di una linea di galleggiamento elettorale da partito virtualmente maggioritario.

A Schlein non interessa nient’altro che i numeri che saranno prima e dopo la virgola nella percentuale che il suo partito guadagnerà alle elezioni e, a guardare gli ultimi sondaggi pubblicati, gli elettori di tutti questi sottomondi combinati nel sovramondo democratico d’opposizione non sono così delusi dalla strategia dell’avanti, c’è posto.

Il grottesco mischione di atlantisti e pacifisti, dirittisti e antiabortisti, riformisti e nostalgici, ichiniani e landiniani, produttivisti e descrescisti, fanatici pro-Pal e amici di Israele sembra funzionare, e neppure le supercazzole prematurate con scappellamento a sinistra della segretaria sul senso di questo pluralismo situazionista parrebbero compromettere l’efficacia dell’operazione.

Il problema di Schlein era ed è non perdere voti verso Movimento 5 stelle, sinistra e pacifisti, e semmai guadagnarne ai loro danni. La strategia del nessun nemico a sinistra è da sempre, in quelle lande, il modo migliore per riportare nella casa madre, in un attrezzatissimo recinto estremista, gli scavezzacolli dalle impazienze rivoluzionarie vogliosi di evaderne. Secondo questa logica, Schlein, se non glielo avessero impedito, avrebbe candidato anche Ilaria Salis, e magari pure Michele Santoro, se lui avesse voluto.

Se però questa strategia funzionasse, con la complicità o il concorso dei cosiddetti riformisti, disposti a sacrificarsi in questo fiancheggiamento abbastanza umiliante e assai poco redditizio (vedremo poi gli eletti e i non eletti delle diverse componenti, il 10 giugno), pur di frenare l’emorragia verso i partiti dell’area libdem (Azione e Stati Uniti d’Europa), dalle elezioni europee uscirebbe un Pd un po’ più grande, ma ancora più inutile di quello “né di qua, né di là” uscito dal voto del 2022.

Non uscirebbe un partito del «ma anche», ma un partito del «dipende», pronto a tutto, ma capace di niente, senza una posizione chiara su nulla, ma con tante posizioni diverse sulle questioni essenziali – l’Ucraina, Israele, la governance economica e la difesa dell’Europa, le tappe della transizione economica ed energetica, le ricette per invertire il declino italiano – interessato alla salvezza della ditta, ma indifferente all’impresa di tirare fuori l’Italia dalla palude bipopulista.

Un Pd unito solo dell’antifascismo da parata o da operetta che in Italia rimane l’alternativa obbligata e perdente alle destre brutte, sporche e cattive e la coperta di Linus del progressista medio collettivo.