Chi sa, fa (e non spiega)/La piaga moderna dello storytelling e l’inutilità delle interviste agli artisti

«Non è che se qualcuno mi racconta una storia poi quel cappotto o quei pantaloni mi piacciano di più». Le due righe di critica culturale più importanti della nostra epoca sono in un’intervista data da Phoebe Philo a Vanessa Friedman.

Intervista che – dice la critica di moda del New York Times, e io certo non mi metto a verificare – è la prima che PP dà da una decina d’anni, e questa è la seconda certezza dell’intelligenza della signora. Esiste un’attività più imbecille che farsi intervistare? (Sì: intervistare).

Probabilmente il lettore medio del New York Times non vede quanto noi la rivoluzione, giacché è abituato a giornali che, se devono raccontare qualcosa, si prendono l’incomodo di farsi venire un’idea. Nei giornali italiani, dove dobbiamo sbrigarci e andare a prendere l’aperitivo con gli amici, si ripiega invece quasi sempre su quel genere minore che è l’intervista.

C’è, oltretutto, una certa qual confusione tra la figura dell’artista e quello dell’intellettuale, e un’inconsapevolezza di quanto siano pochi quelli che sanno interpretare entrambi i ruoli. Anche a quei pochi, comunque, non ha senso chiedere di spiegare le loro opere: domanderei a Martin Scorsese di spiegarmi un film di Hawks, non certo di spiegarmi l’ultimo Scorsese; a Baricco di parlarmi di Hemingway, mica di Baricco.

E noi qui invece a chiedere al cantante di spiegarci la sua canzone, alla stilista di spiegarci il suo cappotto, al cuoco di spiegarci il suo piatto. Negli anni in cui frequentavo le sfilate mi faceva molto ridere che i giornalisti dei quotidiani andassero lì più per parlare con chi disegnava i vestiti che per guardare i vestiti; e che alla fine, invece di scrivere sul loro giornale cos’avevano visto, riepilogassero i temi della sfilata come gli erano stati spiegati.

I problemi, per come la vedevo, erano due. Uno era che quasi tutte le cose di cui valga la pena parlare sono fatte da gente che le fa per istinto, mica per ragionamento. Un cantante è uno che di mestiere sta su un palco: cosa vuoi che teorizzi, orsù. L’altro era che una canzone deve farti venir voglia di canticchiarla, un piatto di mangiarlo, un vestito di metterlo. Voglio sapere come casca quella gonna a una con più fianchi d’un’indossatrice, o se la seta è rigida come sembra in foto; mica se chi l’ha disegnata pensava all’oppressione o all’emancipazione: queste cose le racconti al suo analista.

Naturalmente è una battaglia persa, perché «storytelling» è la piaga che in questo secolo ha preceduto «community», due leggende che nel frattempo si sono incrostate e non ce ne liberiamo più. Se ti racconto una storia, ti comprerai quella gonna. Se al mio pubblico dico che mica è il mio pubblico, ma che tutti insieme siamo una comunità, ascolteranno quella canzone.

I cliché culturali non s’impegnano a sradicarli gli intellettuali, non si capisce perché dovremmo aspettarci lo facessero gli stilisti.

«Io continuo a mettere roba di vent’anni fa», dice Phoebe, e io annuisco forte e mi chiedo di cosa parli la Friedman: non ha sognato anche lei un armadio di giacche tutte uguali come quello di Mickey Rourke in “9 settimane e 1/2”? Non sbuffa pensando alla sparizione degli inverni e quindi all’impossibilità di usare certi cappotti Lanvin del 2005 ormai troppo pesanti ma ancora d’una bellezza inarrivabile? L’obsolescenza programmata riguarda chi è abbastanza giovane da non saper distinguere tra il gusto e la moda – certo che non metterò mai più le scarpe a punta dei miei venticinque anni, ma l’obsolescenza è mia, mica loro – o chi compra roba da poco. (…)

Sempre più, da una parte ci sono quelli che stanno sui social, che danno interviste, che s’incistano nello storytelling; e dall’altra quelli che fanno le cose, che se dal giornale chiamano chiedendo «scusi, ci spiegherebbe il suo romanzo» accampano qualche impegno urgente, e che non ritengono necessario accendere la telecamera del telefono per avere la certezza d’esistere. Quelli cui basta saper fare un bel cappotto, mica serve che s’incomodino a raccontarci la storia a puntate del cappotto.