Iran/Da Soraya e lo Scià un secolo di storia per capire l’odio verso di noi

I più anziani hanno qualche ricordo sull’Iran, che ora ha un ruolo centrale nella nuova guerra in Medio Oriente, come protettore di Hamas, Hezbollah, e altre milizie jihadiste in tutta l’area.

I miei ricordi cominciano negli anni cinquanta con il settimanale Oggi sul quale la vita privata dello scià di Persia venne trattata alla pari di quella della regina d’Inghilterra. Il secondo matrimonio avvenuto nel 1951 di Mohammad Reza Pahlavi con Soraya Esfandiary Bakhtiari (1932 -2001), la principessa dagli occhi tristi,  fu molto seguito da noi italiani perchè la coppia non riuscì ad avere un erede al trono. Per effetto della legge salica, lo scià dovette ripudiare Soraya, della quale era ancora innamorato. Nel 1959 sposò allora Farah Diba (1938), figlia di un capitano dell’esercito imperiale, che gli dette due figli e due figlie. Oltre ai racconti sentimentali su Soraya e lo scià, l’Iran per noi italiani aveva, a leggere la stampa, molta importanza per la sua ricchezza petrolifera di cui beneficiarono l’Eni di Mattei e poi Cefis. A partire dal 1962 Reza Palhavi venne quindi presentato sulla stampa italiana come un nostro amico e un innovatore per la modernizzazione e lo sviluppo economico che aveva messi in atto con decisione. Numerosi esponenti religiosi furono costretti all’esilio perché contrari alle riforme. Nel 1963 l’ayatollah Khomeini organizzò una congiura contro lo scià, il quale, scoperta la responsabilità di Khomeini, ne decretò il solo esilio, che lo condusse dapprima a Najaf in Iraq, poi a Parigi.

Dal 1953 al 1979, per un quarto di secolo l’Iran divento’ laboratorio per un esperimento di modernizzazione e secolarizzazione di un grande paese a maggioranza musulmana. Qualcosa di simile lo aveva fatto Ataturk in Turchia. A Teheran l’aggancio con l’Occidente fu ancora più stretto. Sotto lo scià ci furono riforme laiche all’avanguardia rispetto ad altri paesi islamici: la parità dei diritti delle donne, insieme con un notevole miglioramento del loro accesso all’istruzione, anche universitaria. Quello che l’Arabia saudita accenna a voler iniziare solo oggi, e timidamente, fu fatto in modo radicale dallo scià di Persia settant’anni prima. Quell’esperimento venne descritto così dallo storico Ervand Abrahamian: «Per decenni l’Iran fu diretto da uomini moderni, ben rasati, capaci di parlare perfettamente l’inglese e il francese, e vestiti da stilisti italiani. Per decenni l’Iran fu ammirato negli Stati Uniti come un alleato indispensabile, un eccellente cliente dell’industria bellica, perfino un gendarme nel Golfo Persico».

L’Iran dello scià era coccolato da Washington come oggi lo è l’Arabia saudita. Ma proprio lì maturò una premessa per l’avvento della teocrazia degli ayatollah. Lo scià che riconosceva pieni diritti alle donne, è lo stesso che venne percepito da molti iraniani come un servo dell’America. Respingere l’imperialismo yankee e ripudiare l’emancipazione femminile, volere il riscatto nazionale e il ritorno ai tabù di una società patriarcale, per una parte degli iraniani diventarono tutt’uno. Patriottismo e religiosità retrograda si allearono fino a confondersi.

L’episodio più importante per il futuro dell’Iran – l’antefatto per capire la rivoluzione khomeinista del 1979 – avvenne dopo la fine della seconda guerra mondiale, e fu segnato dall’allineamento tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Mossadeq, un nazionalista laico,  diventò primo ministro. Immediatamente fece quello che aveva promesso: nazionalizzò la compagnia petrolifera Anglo-Iranian. Aprì una strada maestra verso il controllo sulle ricchezze del sottosuolo, che poi ispirerà Nasser in Egitto, Gheddafi in Libia, e molti altri leader nazionalisti. Il laico Mossadeq trovò inizialmente l’appoggio del clero musulmano. L’ayatollah Kashani per sostenerlo nel settembre 1951 proclamò una «giornata nazionale di odio contro il governo britannico».

A Londra fu il panico. E non solo nel quartier generale dell’Anglo-Iranian. Proprio per l’intreccio fra pubblico e privato, le sorti di quell’azienda si ripercossero sulle casse dello Stato. Il governo di Sua Maestà fu sull’orlo della bancarotta. Le spese militari della seconda guerra mondiale avevano dissanguato il Tesoro britannico.

Per bloccare Mossadeq bisognava coinvolgere gli americani. I servizi segreti britannici riuscirono a convincere la neonata Cia, che si fece complice di questo disegno: bisognava dimostrare che dietro Mossadeq sarebbe spuntato ben presto il demonio comunista dell’Urss. La tesi non era del tutto infondata: Mosca tesseva le sue trame, il partito filo-sovietico Tudeh aveva organizzato manifestazioni popolari in Iran contro gli inglesi, a cui avevano partecipato soldati dell’Armata rossa. L’Urss soffiava sul fuoco delle rivolte anti-occidentali e avrebbe potuto diventarne la beneficiaria: il precedente più importante era la vittoria di Mao Zedong in Cina nel 1949.

In combutta con gli inglesi la Cia si procurò la complicità dello scià Reza Pahlavi; e anche l’appoggio dell’ayatollah Kashani, rapidamente convintosi che il pericolo maggiore era l’avanzata del comunismo ateo. Il 19 agosto 1953 col nome in codice di Operazione Ajax andò in porto il primo di una serie di golpe targati Cia. Per le sue conseguenze di lungo termine forse questo fu il più nefasto di tutti i colpi di Stato orditi dagli occidentali. Mossadeq venne arrestato, al suo posto lo scià nominò come primo ministro un generale. Per la Gran Bretagna il sollievo fu solo temporaneo, il golpe si rivelò una vittoria di Pirro. Washington infatti impose la fine del monopolio dell’Anglo-Iranian, sostituta da un consorzio di cui facevano parte ben cinque compagnie petrolifere Usa. Ebbe inizio una nuova storia, quella dell’Iran come alleato di ferro degli Stati Uniti, piattaforma essenziale per l’influenza americana sulle vie della seta-petrolio.

L’eredità di Mohammad Mossadeq che fu il primo a battersi per l’indipendenza economica, il controllo sulla ricchezza petrolifera, venne raccolta da due forze in competizione tra loro: da una parte la sinistra marxista del partito Tudeh legato a Mosca; dall’altra i mullah. Negli anni Sessanta e Settanta un pezzo del clero sciita diventò il principale concorrente dei comunisti, nella gara per la leadership dell’opposizione allo scià. L’ago della bilancia furono i mercanti dei bazar: era una borghesia medio-alta di antichissime tradizioni imprenditoriali, per due millenni tra i più attivi intermediari delle vie della seta. I mercanti, e i loro figli diplomati nelle università dello scià come medici o ingegneri, diventarono la base sociale di una nuova predicazione sciita che risaliva a pensatori radicali come Ali Shariati. Quest’ultimo si era formato alla Sorbona, in quella Parigi dove l’ayatollah Khomeini viveva in esilio negli anni finali dello scià, preparando il terremoto che rovescerà il monarca. La rivoluzione islamica fu sconvolgente, e non solo nella “nostra” prospettiva.

Nel 1978-79 esplodono le rivolte e si consuma la fine della monarchia. L’America perde un alleato cruciale, l’Iran le si ritorce contro e diventa un avversario indomabile. L’episodio che rimane più impresso nella nostra memoria (rievocato anche dal film «Argo») è l’occupazione dell’ambasciata americana a Teheran, la lunga odissea dei funzionari americani tenuti in ostaggio. L’irruzione degli studenti militanti espugna la sede diplomatica il 4 novembre 1979. Tra le motivazioni degli studenti c’è la protesta contro l’asilo offerto allo scià fuggiasco in America (Reza Pahlavi morirà di cancro poco tempo dopo). Negli archivi dell’ambasciata i militanti islamici sperano anche di trovare le prove che fu la Cia a organizzare il golpe contro Mossadeq. L’occupazione-sequestro dura 444 giorni. L’impotenza degli Stati Uniti in quel frangente contribuisce alla perdita di credibilità del democratico Jimmy Carter, presidente per un solo mandato: un anno dopo l’irruzione nell’ambasciata di Teheran verrà sconfitto dal repubblicano Ronald Reagan.

Insomma, prima che a Teheran prendesse il potere il clero sciita con la rivoluzione khomeinista del 1979, questo paese era un alleato dell’Occidente e ne abbracciava molti valori, anche se non tutti. Ricostruire la storia persiana degli ultimi cent’anni (come  ha fatto sul Corriere Federico Rampini) è essenziale per avere una comprensione delle dinamiche attuali. (Persia e Iran sono la stessa cosa e gli iraniani oggi rivendicano orgogliosamente l’eredità dell’impero persiano).

Fra le vittime della rivoluzione khomeinista ci sono i tanti iraniani uccisi o imprigionati e torturati; più un milione di esuli. A cominciare dai comunisti iraniani filo-sovietici, tra i primi a finire in carcere o uccisi. E poi tutto quel che ne segue: il cocktail esplosivo che dal 1979 alimenta l’idea di uno “scontro di civiltà”. L’antiamericanismo portò molti occidentali a simpatizzare per gli islamismi, senza prevedere le stragi di cui avrebbero disseminato il pianeta. L’obiettivo proclamato dalla teocrazia sciita di distruggere lo Stato d’Israele, il sostegno a milizie di terroristi in tutto il Medio Oriente, va visto in questo scenario più ampio, di una guerra santa contro gli infedeli e l’Occidente.

I marxisti, legati a Mosca o meno, fanno come al solito la parte degli apprendisti stregoni.