La conferma di Ernesto Ruffini solo perchè è bravo

(il foglio) Le ragioni che hanno convinto il governo a mantenere Ernesto Maria Ruffini alla guida dell’Agenzia delle Entrate ci dicono molto sulle intenzioni e sui tempi con cui si sta preparando la delega fiscale e la riforma, vitale per l’esperienza da premier di Giorgia Meloni, che ne deriverà. E’ noto che il governo intende avviare la richiesta al Parlamento per ottenerla entro l’inizio di febbraio. Le prospettive di successo sono ben più alte dei tentativi più recenti, quello di Mario Monti e quello di Mario Draghi, perché la legislatura è all’inizio e il governo gode di un’apprezzabile stabilità e di omogeneità politica, tutte condizioni di cui non potevano beneficiare i premier appena citati. Meglio, però, proprio per non rovinare questo quadro favorevole a una ridefinizione delle norme tributarie, puntare sulla continuità della gestione Ruffini invece di aprire un ulteriore fronte di contrasto con una parte del Parlamento.

Ma sarebbe riduttivo fare riferimento solo a un certo tatticismo governativo negli sviluppi della riforma fiscale e c’è comunque da dare conto di un certo stupore per la permanenza in una posizione così importante, visibile e carica di simbolismo di un tecnico, sì, e molto esperto, ma di provenienza dalla storia politica della sinistra moderata e popolare. Pensando a tutto ciò che il fisco, anche ossessivamente, rappresenta per la destra italiana, Ruffini poteva sembrare il nemico perfetto per un nuovo corso politico ispirato a ciò che si è sentito in campagna elettorale e nella lunga fase di preparazione della crisi politica dell’estate scorsa. Una corsa ai voti basata su promesse confuse di flat tax, tregue e paci che suonavano come rese e capitolazioni dell’esattore, e altri toccasana miracolosi, il tutto accompagnato dall’abolizione dei controlli basati sulla tecnologia e dal disprezzo per gli strumenti informatici di confronto e lettura intelligente dei dati fiscali, a partire dalla fatturazione elettronica (una delle principali novità messe in pratica con convinzione da Ruffini). Ma, con tutta evidenza, siamo nuovamente di fronte a un caso di dissociazione, nella stessa persona, tra ciò che si realizza e ciò che si era predicato, un melonismo senza Meloni o viceversa, per non parlare della museruola imposta al salvinismo antitasse, a quel mondo spesso no-euro e no-Europa e arcaicamente nemico degli strumenti fiscali moderni.

A Ruffini va dato atto di aver superato, ottenendo l’apprezzamento di entrambi gli schieramenti, una divisione anche maggiore di quella che ora può separare l’area del governo di Meloni da quella delle opposizioni. Perché su Ruffini si è verificata nel tempo l’inusitata convergenza tra Pd renziano e Pd non più renziano. Impresa pressoché unica la sua e forse tra gli elementi di curriculum che hanno convinto l’attuale governo a continuare ad affidargli un ruolo centrale nell’amministrazione pubblica. Assieme alle prove di intelligenza politica, tra cui rientra la capacità di gestire con flessibilità la macchina del fisco, Ruffini è rimasto alla guida dell’agenzia anche nelle fasi in cui i 5 stelle comandavano e si trasformavano via via in contiani ed è stato l’artefice della gestione avveduta e morbida dell’Agenzia delle Entrate durante i mesi di blocco economico dovuto alla pandemia, con la trasformazione in Agenzia più delle uscite che delle entrate, perché uffici e canali della struttura fiscale, messi a disposizione del governo, si rivelarono anche i più efficienti per far arrivare gli aiuti pandemici a aziende e famiglie, con un numero record di bonifici effettuati.

In quegli stessi mesi Ruffini, senza mai sovrapporsi al ruolo politico, continuava a predicare la necessità di rimettere mano alle regole del fisco in modo organico. Lo ha detto in varie interviste, in cui, tra l’altro, ha fornito i numeri sul magazzino fiscale (l’insieme dei crediti vantati dall’erario verso i contribuenti) che poi, letti dall’attuale governo con occhio politico e anche con astuzia e ricerca di consenso, sono alla base dell’operazione costruita sulla rottamazione delle cartelle di minore importo.

Si consiglia, più che mai, la lettura del suo recente saggio Uguali per costituzione (Feltrinelli, la prefazione è di Sergio Mattarella). Parla di uguaglianza, tema terribilmente piegato e contorto in queste settimane di riflessione congressuale a sinistra, ma riesce a farlo con eccezionale linearità. Nelle pagine sul fisco è un po’ più tecnico, racconta dell’alternanza tra riforme sistematiche con tipizzazione delle norme fiscali e fasi di successiva complicazione e perdita di equilibrio nei rapporti con i contribuenti. E’ contro i condoni, tranne nel caso di riforma complessiva (fa riferimento esplicito a quella del 1974), chiede che l’Irpef torni a essere l’imposta su tutti i redditi. Indica la necessità di certezza del diritto e ricorda il valore di legge e perciò il rispetto pieno che si dovrebbe avere dello statuto del contribuente e chiede la parità tra fisco e contribuente (tema che può toccare la delega anche nella riforma della giustizia tributaria). Nella premessa al saggio, con una definizione liberale raffinata del concetto di uguaglianza come “diritto di ognuno di essere diverso da tutti gli altri e di non essere discriminato per la propria diversità”, ci può essere la chiave, con un approccio maturo e intelligente, alternativo alle sconcezze della campagna elettorale, della comprensione tra questa maggioranza e Ruffini