Goodbye Bibbiano/ La psicopolitica o la tolleranza selettiva del Pd, che può perdonare persino Di Maio, ma non Renzi

(francesco cundari) Se è vero che alle prossime elezioni il Partito democratico chiederà ai propri elettori di votare per Luigi Di Maio in un collegio uninominale, tutto si potrà dire del Pd, e anche dei suoi militanti, ma non che siano permalosi. Nel caso di Di Maio siamo però ben oltre l’indulgenza. Dal punto di vista del Pd non c’è infatti una sola ragione politica, né ideale né di convenienza, per togliersi quattro seggi (o quanti saranno) e regalarli al ministro degli Esteri e ad altri illustri esponenti del suo movimento come Laura Castelli o Manlio Di Stefano.

Se sono capaci di perdonare perfino chi ha passato anni a definirli pubblicamente ladri, corrotti e mafiosi, arrivando a sostenere che facessero l’elettroshock ai bambini per toglierli alle famiglie, non c’è sopruso cui la loro sconfinata misericordia, evidentemente, non possa rispondere con la grazia della riconciliazione.

Se però la riconciliazione è un bellissimo e nobilissimo gesto, la rielezione appare una risposta perfino eccessiva. Tanto più dal momento in cui tanta misericordia si applica in verità in modo estremamente selettivo, e secondo criteri assai curiosi.

È noto ad esempio come nei confronti di Matteo Renzi, da parte del Pd, e non solo dei suoi dirigenti, vi sia ancora un risentimento fortissimo, viscerale, incoercibile.

Eppure Renzi, almeno fino a oggi, non è mai stato un avversario, anche dopo la scissione ha fatto parte delle stesse maggioranze di cui ha fatto parte il Pd – partito di cui è stato segretario, a suo tempo, pure troppo adorato, oltre che presidente del Consiglio – e mai si è sognato di dire dei democratici qualcosa di paragonabile a quel che ne ha detto Di Maio ai tempi del caso Bibbiano.

In questa tolleranza selettiva sembra di cogliere un antico riflesso, quello per cui il Pci e le sue successive filiazioni potevano avere, alla loro sinistra, solo «compagni che sbagliano», mentre chi stava alla loro destra era subito bollato come ignobile «traditore».

Mi rendo conto che definire Di Maio «compagno», o anche semplicemente «di sinistra», sarebbe ridicolo, e tuttavia è come se anche lui avesse beneficiato di una sorta di salvacondotto che la buona coscienza progressista (post comunista) accorda a qualunque contestatore abbia assunto, a qualunque titolo, pose da rivoluzionario (o semplicemente populista), con la stessa facilità con cui affibbia lo stigma del traditore, o peggio, a chiunque si permetta di criticare o dissentire da posizioni riformiste.

È una storia antichissima, che ha forse anche qualcosa a che fare con una sorta di complesso di colpa, con il segreto rimorso di avere tradito «gli ideali della propria giovinezza», con l’incapacità di fare davvero i conti con il mito della rivoluzione (qualunque cosa si intenda con quella parola, e a maggior ragione se i suoi contorni sono ormai sfumati fino al punto da renderla del tutto indistinguibile da un qualunque sinonimo di giovanile e spensierato idealismo).

Così si spiega anche la radicale diversità dei toni usati da un lato con Giuseppe Conte, dall’altro con Carlo Calenda, che ieri il verde Angelo Bonelli ha definito addirittura «fascista», sia pure con una circonlocuzione («Dice Calenda che usare l’esercito non è di destra né di sinistra? È vero, perché è drammaticamente fascista»), cosa che fino a ventiquattro ore prima, comunque, non gli aveva impedito di sottoscrivere un’alleanza elettorale con lui.

(scoppetta) Personalmente sono alcuni decenni che mi pare di aver capito come la politica italiana possa essere analizzata bene solo da bravi psicanalisti. Da specialisti che sappiano quanto il rancore scava l’animo umano. Dietro le mosse politiche di Letta e Bonino verso Renzi c’è solo rancore, un sentimento di furore che D’Alema o Travaglio hanno fatto assurgere al rango di vendette shakespeariane (il carosello del tempo porta con sè le sue vendette). Ma il legarsela al dito e farla pagare a tempo debito sta nella intera tradizione del movimento comunista dittatoriale che ha conosciuto epurazioni, esili, gulag. L’assassinio di Lev Trockij nel 1940 si ricollega agli avvelenamenti di Putin, la morte degli avversari spaventa quando è fisica e provocata da delitti, quando invece è morte politica chi la provoca è osannato come si fa con i vincitori.

Letta che non solo perdona Di Maio ma addirittura lo innalza assomiglia a quell’anima in pena che si chiama Bersani, sbeffeggiato in streaming in un terribile giorno del febbraio 2013 a Montecitorio. Da quella umiliazione Bersani non si è più ripreso, così come Letta pensa di essersi meritato di diventare segretario del partito di Bibbiano.

Più Crimi e Lombardi lo insultavano dileggiando lui, il suo partito e la politica tutta, più Bersani si faceva carezzevole e remissivo, abbassava lo sguardo e la voce di un tono, «voi dovete capire…», «anche voi comprenderete che…», l’Italia ha bisogno di…». Qualche anno dopo sarebbe diventato l’amico più devoto di Giuseppi, sino a preferirlo a chiunque. Nel 2013 sarebbe bastato davvero poco per uscirne con dignità, sarebbe bastata anche soltanto una domanda, a bruciapelo, inattesa e spietata, chissà, di cultura generale: «ma lei, caro Crimi, lo sa quanti sono i deputati? Mi spiega, signora Lombardi, come si elegge il presidente della Repubblica?». Quelli sarebbero rimasti sospesi, con lo sguardo vuoto, intontiti, come quel tal senatore che non sapeva nemmeno dove si trovasse il Senato, «cercherò su Google».

Ma Bersani è sempre l’uomo sbagliato nel posto giusto, ha scritto Salvatore Merlo. Questo ex-segretario emiliano, categoria che Togliatti non concepiva nemmeno («gli emiliani possono fare tutto, ma non i segretari del Pci»), è sempre fuori tempo. E si è ormai sdoppiato, come capita alle anime tormentate. Così, probabilmente, se il Bersani di oggi incontrasse quello di allora, ebbene, i due nemmeno si capirebbero, come accadde a William Willson, il doppio del racconto di Edgar Allan Poe, l’uomo che incontrò sé stesso e che, di fronte allo specchio, litigandoci, lo uccise uccidendosi. «Tu esistevi in me… ed ora… ora che sono morto, guarda in questa mia spoglia, che è la tua, guarda come hai definitivamente assassinato te stesso».