B. Facchetti/ La fabbrica dei paracadute/ Per superare il populismo serve una legge elettorale chiara e senza storture

(Linkiesta) Dopo il contrordine compagni con il quale Enrico Letta ha tentato di mettere fine alla gloriosa stagione del proporzionale, fino a quel momento trionfante, tutto è come in sospeso. Il fantasma della legge elettorale aleggia su qualsiasi analisi politica (anche nel dibattito promosso da Linkiesta, il tema è tornato con prepotenza), ma ancora nessuno fa la prima mossa.

Eravamo rimasti ai giuramenti post referendum sul taglio dei parlamentari, quando si proclamava che occorreva rimediare al più presto ai guasti prodotti dal capriccio propagandistico dei Cinquestelle, assecondato all’ultimo giro da quelli che per due anni l’avevano definito un attentato alla democrazia.

Ma erano tempi zingarettiani, quando ai grillini si perdonava tutto, anche gli attentati alla democrazia (che sarà mai…son ragazzi!), per non rallentare la conversione al doroteismo degli ex rivoluzionari.

Il problema è sempre lì, eppure non è cosa da poco.

L’argomento che in un Parlamento tagliato a fette e mutilato è più difficile garantire rappresentanza a idee e territori è serio, ma non è neppure il più importante.

Per uscire davvero dall’età infantile del populismo, c’è da affrontare la questione della classe dirigente e della sua qualità, e tra i tanti strumenti che sarebbero necessari per migliorare il processo di crescita e selezione, la legge elettorale è sicuramente tra i più urgenti, perché la scadenza della legislatura è sempre più vicina.

Il tormentone maggioritario-proporzionale andrebbe nel frattempo definitivamente emendato dai significati fuorvianti dell’epoca referendaria, quando fu affidata al maggioritario addirittura la palingenesi di tutti i mali italiani.

Erano mali in realtà geneticamente nazionali, che nei 20 anni successivi si sono se mai aggravati. La demonizzazione della preferenza ci ha portato dritti alle liste bloccate, alle designazioni dall’alto da parte di sacrestie inaccessibili, al potere assoluto dei capi partito, proprio nel momento in cui i partiti venivano delegittimati da una crisi profonda.

Nel tempo, si è poi passati da un estremo all’altro: dalla mistica della pozione miracolosa alla fine rovinosa del mito Segni (chi era costui?), fino alla riscoperta del proporzionale. Stando bene attenti, però, a mantenere in vita contemporaneamente il vantaggio, per i capi partito, dell’uno e dell’altro sistema.

Certe comodità conquistate non sono più venute meno. Tutto può cambiare, un segretario può andarsene dal partito ma il gruppo parlamentare da lui formato rimane.

Il nuovo segretario ha un bel vincere con il 70% nelle solite primarie preconfezionate, ma resta minoranza proprio là dove le cose si decidono davvero, e alla fine arriva persino a vergognarsi del partito che ha guidato.

Che proporzionale è un metodo che blocca le liste? E che vantaggio dà fare una via di mezzo tra maggioritario e proporzionale? Il mix produce in concreto un tripolarismo impossibile da maneggiare, premessa di avventurosi montaggi bicolori uno opposto all’altro, per di più tragicamente con la stessa ciliegina sulla torta di Palazzo Chigi.

Spettacoli da circo della democrazia acrobatica.

Da tutto questo dobbiamo uscire, e il criterio di fondo deve essere quello non retorico, ma concreto, di far decidere gli elettori. Ma allora si abbia la franchezza di spiegare a Letta, che fa il tifo per il Mattarellum, invenzione dell’amata scuola di Bologna, che quella non è una buona legge, anche se il suo relatore di allora è diventato nel frattempo lo stimato presidente della Repubblica di oggi.

Né basta riconoscere che quel testo è migliore di quelli che sono venuti dopo, certo del Porcellum, dell’Italicum e del Rosatellum.

Nella realtà storica, fu l’aureo incoraggiamento a peggiorare, con quel compromesso tra quote diverse, messe lì per contraddire in casa proporzionale l’essenza di ciò che veniva affermato in casa maggioritaria.

Tu perdevi nel confronto diretto col tuo fiero avversario, ma poi andavi a sederti, pappa e ciccia, vicino a lui, perché ripescato nel listino proporzionale, quest’ultimo ignoto agli elettori, che avevano visto solo l’apparente duello alla pari di un bipolarismo di facciata.

Ma soprattutto si deve a quella legge il teorema del collegio sicuro, il vero sfregio democratico. Il collegio riservato ai compilatori delle liste, con tripla protezione e quindi ulteriore sfregio rispetto al voto reale.

Un bel 20% di seggi affidati alla roulette delle scelte e delle rinunce, tutte da definire e mercanteggiare nelle settimane dopo il voto, con tanti saluti al risultato chiaro la sera stessa delle elezioni.

Altro slogan-inganno, come quello della proposta di governo chiara prima del voto. Talmente chiara che la vera alternanza centro destra/centro sinistra si faceva, mesi dopo il voto, mangiando crostate o scatolette di tonno nella casa romana di Bossi o ospiti della signora Letta.

Con Governi appesi alle impuntature di un Turigliatto, eletto dall’ultima sottigliezza del meccanismo: la lotteria dei collegi sicuri da riservare alle minoranze decisive dello zero virgola.

Insomma, stavolta non sbagliamo ancora, con l’ennesima legge elettorale raffazzonata.

Piuttosto, spieghiamoci una volta per tutte perché mai il modello francese a doppio turno sia il più premiato ed elogiato nei dibattiti e nei convegni, e poi mai promosso in concreto da nessuno.

Forse perché costringe i compilatori delle liste a rischiare di mettere il migliore possibile in campo? Forse perché la fabbrica dei paracadute resta senza lavoro?