[Due schieramenti] Le divisioni tra pace e giustizia

Se regge, il cessate il fuoco a Gaza sarà un risultato di enorme portata, conseguito grazie agli sforzi di mediazione americana. La spirale di violenza iniziata il 7 ottobre 2023 si può davvero interrompere, a beneficio immediato degli abitanti della Striscia e degli ostaggi israeliani ancora vivi.

Verrà anche la pace? Persino ai più ottimisti questo esito appare incerto. Per essere duratura, la pace deve soddisfare alcuni standard condivisi di giustizia, a cominciare dal riconoscimento reciproco e dalla disponibilità al compromesso.

Condizioni che oggi appaiono pressoché inesistenti.

Gli avvenimenti del Medio Oriente hanno messo un po’ in ombra l’altro teatro di guerra, quello ucraino. Qui la mediazione di Trump è miseramente fallita. A dispetto delle pressioni europee, il presidente Usa non ha neppure chiesto a Putin un cessate il fuoco temporaneo.

Entrambe le guerre hanno suscitato profonde fratture all’interno dell’opinione pubblica. Il caso di Gaza ha radicalizzato il campo pro Pal, entro il quale sono anche emerse derive anti-semite e di sostegno esplicito a Hamas. Il caso dell’Ucraina ha invece radicalizzato il campo pacifista, schierato a favore di una fine immediata della guerra, anche sulla testa degli ucraini.

Le mobilitazioni pro Pal sono state particolarmente intense nelle ultime settimane. È probabile tuttavia che il cessate il fuoco attenui la presa filo-palestinese sull’opinione pubblica. La formula «due popoli, due Stati», da realizzare tramite negoziato, tornerà ad essere il punto di equilibrio fra diverse disposizioni politiche e emotive. Diverso il caso dell’Ucraina. Su questo fronte, la prosecuzione del conflitto, con il suo carico di implicazioni anche per l’Europa, tenderà invece ad alimentare le divisioni.

Un recente sondaggio sulla crisi ucraina condotto dallo European Council on Foreign Relations (Ecfr) in dieci Paesi Ue ha identificato due gruppi contrapposti. Il «campo della pace» (bisogna finire subito il conflitto militare, a ogni costo) comprende il 35% degli intervistati. Il «campo della giustizia» (i sostenitori di una pace giusta, che rispetti le ragioni di Kiev) rappresenta il 22%. Vi è poi un 20% di indecisi, che imputano le responsabilità della guerra a Putin, ma sono preoccupati per una possibile escalation del conflitto. Il resto degli intervistati non si esprime.

A prima vista, i dati segnalano un elevato grado di polarizzazione, con una netta prevalenza dell’area pacifista. A ben vedere, però, tutti e tre i campi condannano il conflitto armato. Il disaccordo riguarda le condizioni della pace (giusta o anche no) e il timore di possibili degenerazioni (la Russia resta una potenza nucleare).

Il campo pacifista gode oggi di un vantaggio simbolico in larga parte immeritato. Nel suo significato essenziale, il termine pacifismo connota l’avversione alla guerra e l’impegno a promuovere la pace. Due fini nobili, che fanno parte del comune patrimonio cristiano, liberale e democratico. È dunque scorretto impostare il dibattito sulla questione ucraina in base ad opposizioni binarie come pacifismo contro bellicismo, pacifisti contro guerrafondai e simili. La scelta terminologica dell’Ecfr («campo della pace» verso «campo della giustizia») toglie un po’ d’imbarazzo a tutti coloro che, pur non condividendo le posizioni dei movimenti pacifisti, non si sentono affatto interventisti o militaristi, ma sono piuttosto animati da un forte spirito di giustizia.

Certo, nel mondo di oggi ci sono molti leader davvero bellicisti, primo fra tutti Putin. Purtroppo però le guerre di aggressione sono (ancora) un fatto del mondo, qualcosa che accade e con cui dobbiamo fare i conti. In senso essenziale, la stragrande maggioranza degli europei è pacifista. Nessuna corrente politica può arrogarsi il monopolio etico e simbolico del concetto di pace.

Le divergenze vertono sui mezzi. L’Europa moderna ha inventato una vasta gamma di strumenti pacifici per gestire i conflitti tra Stati, a cominciare dal diritto internazionale e dalla diplomazia. Ma se tali strumenti non bastano? Contro Hitler non bastarono. Il pacifista Bertrand Russell introdusse il concetto di pacifismo «relativo». Mentre il pacifismo «assoluto» (o categorico) vieta in qualsiasi caso il ricorso alla violenza, quello relativo (o condizionato) concede cha tale ricorso sia legittimo per auto-difesa e per il soccorso a potenziali vittime innocenti. È ciò che sostengono le contemporanee dottrine della «guerra giusta», le quali affondano le proprie radici nella teologia di Sant’Agostino e nel giusnaturalismo liberale.

Naturalmente, la reazione contro le minacce deve rispettare il principio di proporzionalità. A Gaza Netanyahu ha platealmente e colpevolmente esagerato nella sua reazione all’eccidio di Hamas del 7 ottobre 2023. Non vi è stato nulla di moralmente giustificabile dal 7 ottobre (incluso) in poi. Ma la difesa armata di Kiev contro le violenze di Putin è un’altra cosa.

Lo schema binario pacifismo-bellicismo si sta oggi riproponendo sulla difesa europea. Ma chi è a favore di quest’ultima non è un guerrafondaio, è piuttosto un pacifista responsabile. Desidera conciliare la ricerca della pace con la valutazione realistica delle minacce. Si propone di sfruttare tutto il potenziale degli strumenti non violenti, senza tuttavia rinunciare per principio alla deterrenza militare, come garanzia ultima di sicurezza, durevole e giusta, per tutti i cittadini.