Chi ha vinto la tregua di Gaza? La destra o la sinistra? Trump o le piazze? Meloni, che se ne ritiene artefice silenziosa e andrà a firmarla in Egitto, o «Albanese, Landini e Greta», che la premier giudica irrilevanti, o il movimento che hanno guidato?
A “riscattare” la piccolezza (la miseria) del solito «dibbbattito» all’italiana, abituato a guardare il mondo dal buco della serratura dei talk show, ci ha pensato Alessandro Baricco.
In un visionario articolo su Substack, lo scrittore l’ha messa infatti in termini più sottili e insieme più epocali: per lui ha perso il mondo di ieri, il Novecento, con il suo sistema di valori basato sulla forza. E ha vinto quel «continente, ancora spesso sommerso, che sta staccandosi dal Novecento, motivato dal disprezzo per gli errori del passato»; il mondo di domani, insomma, abitato dalla forza gentile dei giovani, «un mondo reso dalla rivoluzione digitale più limpido e trasparente, in cui muri e conflitti perdono di consistenza».
È curioso che una delle più grandi tragedie della storia recente possa indurre a tanto ottimismo. Ma è possibile, forse anche auspicabile, che presto «il continente del Novecento andrà alla deriva». Lo scopriremo solo vivendo.
Al momento, però, la svolta di Gaza sembra ancora impregnata di Novecento, perché annunciatrice di un nuovo «secolo americano». Neanche due mesi fa discutevamo se il convegno cinese del Sud globale, un quarto del Pil mondiale, o l’aggressività delle potenze revisioniste dell’asse del CRINK (Cina, Russia, Iran, North Korea), segnassero la fine del super-potere Usa. E invece è bastato il primo volo transcontinentale dei bombardieri B-2 sui siti nucleari iraniani perché Teheran scomparisse dalla partita. Ed è bastato che l’America stendesse il suo manto protettore sul Qatar colpito da Israele, perché l’Emiro torcesse il braccio ad Hamas e lo consigliasse (costringesse) alla resa. Ora Cina, Russia e Iran plaudono, più o meno sommessamente, alla tregua di Trump.
Theodore Roosevelt, primo presidente Usa del Novecento e Nobel per la pace, diceva che l’America doveva andare in giro per il mondo «parlando gentilmente ma portando con sé un grosso bastone». Con Trump è sparita la gentilezza, ma il bastone si è fatto anche più grosso. E anche stavolta ha funzionato.
Novecentesco è poi il concetto stesso di «movimento» (il primo sciopero generale in Italia è del 1904); anche se la gente che si è riversata nelle strade ci è parsa, come sempre, annunciare un mondo nuovo. Noi nati nel secolo scorso abbiamo una comprensibile idolatria per le piazze: del ’68 francese, del ’77 italiano, del ’99 di Seattle. È sempre confortante vedere i figli che seguono le orme dei padri. E poi: questa Generazione Z l’abbiamo riempita di insulti perché indivanata, indifferente, dipendente dallo smartphone. E adesso, a vederla mobilitata per una causa, non possiamo certo rimproverarle di aver riscoperto la passione civile e politica di cui lamentavamo la scomparsa.
Benvenuti, dunque, ragazzi del ’25, liceali con la kefiah. Non ci sono dubbi che avete contato. Soprattutto in chiave interna, però: più che sul governo Netanyahu, sul governo Meloni. Che già dai sondaggi cominciava a capire di non potersi più limitare a dir di no al riconoscimento della Palestina, e doveva rompere il suo lungo silenzio sul massacro.
Sarebbe però superficiale una lettura solo «politica», trascurando il tessuto antropologico di questa rivolta che «non abbiamo visto arrivare». Baricco ha ragione quando dice che, da un certo punto in poi della carneficina, «lottare al fianco di Gaza non è più stata una scelta politica, ma la definizione di un limite, una linea rossa, un confine invalicabile». Un’esigenza etica, innanzitutto. Umanitaria. Pacifista. (Non sempre però: non in coloro che erano pronti a usare la violenza in piazza, minoranze, certo, ma pur sempre dentro il movimento; non in chi inneggiava, e inneggia ancora, alla morte di Israele; non in chi in un teatro ha raccolto applausi negando perfino la pietà agli ostaggi israeliani).
L’opzione morale ha contato, eccome. La scelta di stare dalla parte di Davide contro Golia, seppure dimenticando che Davide era un ebreo, e che per duemila anni gli ebrei non hanno avuto nemmeno una fionda. E una spinta etica è una gran bella cosa, ogni volta che riappare ci sembra di vedere il sol dell’avvenire. Ma si è frammista anche stavolta a vecchi miti, perfettamente novecenteschi. Per esempio l’anti-colonialismo, l’anti-occidentalismo e di conseguenza l’anti-ebraismo, che individua nel popolo vittima della diaspora l’oppressore e l’usurpatore della terra di chi c’era prima (ma prima quando?). E poi i miti di Lawrence d’Arabia, del deserto, del riscatto nazionale arabo. Ma anche, purtroppo, il mito di ACAB, ripassato in salsa «maranza», per cui ogni poliziotto è un nemico.
Certo, di nuovo c’è la Rete, il Web. I giovani del movimento hanno appreso sui social di Musk e di Zuckerberg da quale parte stare. Un bel paradosso, questo sì pienamente appartenente al continente sommerso che si sta staccando dal Novecento, e di cui, altrettanto paradossalmente, Donald Trump è l’angelo annunciatore, con il suo grande bastone tra le mani.
Speriamo solo che tra i ragazzi del ’25 nessuno ne tragga le conclusioni dei rivoluzionari-terroristi dell’ultimo film di Anderson, Una battaglia dietro l’altra : «Non basta più Facebook, non basta più Instagram, non basta più un hashtag: per cambiare il mondo bisogna passare all’azione». Anche questo nel Novecento l’abbiamo già visto.
