L’intensità delle proteste su Gaza ha palesemente preso di sorpresa un po’ tutti: maggioranza, opposizione, i grandi sindacati, gli animatori del dibattito intellettuale. Nessuno l’ha vista arrivare. Una lettura molto acuta l’ha offerta però Gianluca Mercuri nella newsletter del «Corriere» Prima Ora di qualche giorno fa: «C’è la percezione che i civili palestinesi vengono massacrati senza che si faccia il possibile per fermare Israele. Per questo Gaza, per moltissimi italiani, è assurta a simbolo di un’ingiustizia insopportabile».
M a se è così, allora in tanti italiani dev’essere scattata anche un’identificazione con le vittime: quelle di cui nessuno si interessa, ignorate da tutti e schiacciate in un gioco di cui solo loro pagano il prezzo. Non fosse quasi blasfemo, si potrebbe dire che molti italiani si sentono a qualche livello Gaza: vittime non di una guerra, ma dell’economia del Paese. Com’è possibile sennò che dal Covid (2020) l’Italia sia cresciuta del 16,6%, superando di netto il 12,3% medio dell’area euro, mentre il valore reale dei salari nel Paese segna una discesa quasi da record nel mondo avanzato?
Dove sono andati i soldi di quella crescita in più? Certo non nelle tasche dei 16,5 milioni di lavoratori dipendenti che per vent’anni avevano già stretto la cinghia, fino alla pandemia: gli stessi che non possono evadere, né accedere ad alcuno dei mille regimi fiscali di favore e ora, dopo l’inflazione del 2021-2023, vedono il loro potere d’acquisto crollare.
La mobilitazione per Gaza esplode in questo contesto. E ci si può chiedere se essa oggi per l’Italia non sia una versione più mite di ciò che i gilet gialli furono per la Francia: una preoccupazione legittima — se e quando non manipolata dagli imprenditori dell’odio — ma anche il sintomo di un malessere più profondo. Del resto il potere d’acquisto delle buste paga è sceso del 5,8% dalla fine del 2021 alla primavera di quest’anno, secondo la Banca centrale europea. Siamo il Paese dell’area euro che nel quale si è perso più valore reale dei salari (cioè parametrato ai prezzi) e per le buste paga minori è anche peggio, perché su di esse le spese alimenti pesano di più, con l’inflazione alimentare che corre anche più di quella generale.
Il paradosso è che tutto questo non succede in una fase recessiva. Negli ultimi cinque anni l’economia è cresciuta, solo che i lavoratori dipendenti non se ne sono accorti. Qualcun altro, necessariamente, deve dunque aver catturato i frutti di tutta questa crescita in una profonda redistribuzione dal lavoro verso altre direzioni. Probabilmente non c’è un disegno consapevole. Marco Leonardi dell’Università di Milano scrive da tempo di un sistema di rinnovi dei contratti disfunzionale a causa delle sue regole obsolete, per esempio. Ma per provare a capire chi sta beneficiando della crescita post-pandemica bisogna vedere i bilanci delle imprese per categoria. Non ne beneficiano per esempio le società quotate del settore auto e componenti, perché il loro risultato operativo è nel complesso ridotto e in calo dal 4% del 2024 a un 2,3% del fatturato quest’anno, secondo gli analisti. Nel suo rapporto annuale «su 1905 imprese» Mediobanca mostra anche che le società manifatturiere nel complesso hanno un risultato operativo tutt’altro che abbondante (in media del 6,4% del fatturato). E si capisce perché: competono accanitamente anche sul prezzo sui mercati globali contro imprese di tutto il mondo.
Già, ma il resto del sistema? Secondo gli analisti più attenti di Piazza Affari, quest’anno le grandi banche italiane quotate in borsa arriveranno a un fatturato di 75,5 miliardi di euro (quasi quattro punti di prodotto interno lordo), con un risultato netto di 27,5 miliardi di euro. È una redditività netta di settore del 36%: circa dieci volte più di quella del settore manifatturiero al quale le banche stesse estendono prestiti.
C’è poi il mondo delle società a controllo pubblico, il cui margine operativo è salito dal 4,5% del 2022 al 9,5% del 2024, secondo Mediobanca: praticamente il doppio rispetto alla media delle società private di tutti i settori (5%). Anche i fatturati di queste società a controllo pubblico esplodono, dal 129,6 miliardi nel 2019 a 166,9 del 2024. Queste aziende incassano una quarantina di miliardi più di dieci anni fa, ossia due punti di prodotto lordo. E peraltro non pagano generosamente i loro dipendenti: Mediobanca mostra che i salari dei dipendenti delle partecipate hanno perso quasi il 9% in termini reali dal 2021.
Conclude l’istituto di Piazzetta Cuccia: in Italia «si pone un tema di politica dei redditi in considerazione del fatto che, per un buon numero di raggruppamenti di imprese, la generazione di valore avrebbe consentito di redistribuire una parte a beneficio della conservazione del potere d’acquisto delle retribuzioni». E ciò «senza compromettere la congruità della remunerazione dell’azionista».
Detto con meno eleganza: tante imprese in Italia guadagnano così tanto che potrebbero almeno tutelare la paga dei dipendenti, senza torcere un capello ai proprietari. L’Italia invece sta diventando un posto più diseguale, anche per la capacità delle società in rete pubbliche e private di limitare la concorrenza interna al Paese e di dettare le condizioni ai propri clienti. I sindacati, le opposizioni, i partiti e il governo stesso non sembrano saper reagire. E dire che non si tratterebbe di sovvertire il capitalismo. Basterebbe, in fondo, farlo funzionare in modo più aperto.
