Il circo Barnum di Garlasco spiegato da Cataldo Intrieri

Il circo Barnum intorno alla vicenda di Garlasco rischia di offuscare la reale entità delle questioni e dei problemi gravissimi che schiacciano, e rendono inaffidabile, l’apparato giudiziario italiano. Una premessa: qualunque sia la verità, oltre alla povera Chiara Poggi, ci sono altre vittime innocenti, si chiamino Alberto Stasi o Andrea Sempio o, come pare probabile, entrambi. E va detto che non saranno gli ultimi, perché ciò che è successo a Garlasco si ripete frequentemente nelle aule di giustizia, e non può spiegarsi semplicemente con la favoletta della fatalità e dell’inevitabilità dell’errore giudiziario.

Gli sbagli che si commettono «nel nome del popolo italiano» sono in gran parte evitabilissimi, con una migliore conoscenza dei meccanismi psicologici della decisione (basterebbe lo studio dei testi di Daniel Kahneman e altri psicologi cognitivi), dei principi dell’epistemologia scientifica, oggi decisiva, e soprattutto con una semplice rivoluzione culturale sulla concezione del processo penale da parte dei magistrati. Fino a che esso verrà considerato essenzialmente uno strumento di ricerca della verità e del mitico sentimento di giustizia, è bene comprendere che il tasso di errore resterà elevatissimo.

Il processo è una macchina della verità nella misura in cui questa sia definibile «ogni oltre ragionevole dubbio», quindi di lampante, accecante evidenza. Se invece ci si muove nell’ambito della palude del famigerato processo indiziario, il giudice dovrebbe cambiare impostazione e diventare, oltre le solite definizioni enfatiche, il guardiano non della prova, ma dell’imputato.

In un famoso racconto di John Grisham, il giudice distrettuale rampogna il pubblico ministero che ha osato portargli una prova sospetta nella sua aula. La figlia, che per un anno è stata applicata da studente a un giudice distrettuale (ex avvocato eletto giudice), racconta ammirata di aver visto attorney ridotti alle lacrime dai rimbrotti di Vostro onore, scene che in Italia il padre, vecchio avvocato consumato, ha visto solo nei film.

Non è solo un problema di complicità tra colleghi di toga, troppo banale, è qualcosa di più sottile, e ha a che fare con la concezione che il giudice ha di sé stesso in Italia come guardiano dell’ordine sociale. Ai futuri giudici, nella scuola di formazione e aggiornamento dei magistrati, viene insegnato che il processo va salvato, deve avere un esito, arrivare alla fine, trovare un colpevole, altrimenti è un fallimento. Pochi si chiedono se inculcare una tale mentalità sia un viatico agli errori.

Venendo a Garlasco, la storia conferma tale tesi. Due consecutive sentenze di assoluzione, dopo un giudizio di primo grado in cui furono espletate una ventina di perizie di ogni genere, senza esiti risolutivi, avrebbero dovuto far calare il sipario su Alberto Stasi, per riconsegnarlo alla sua vita di studente, già stravolta dal processo. Invece, un collegio di giudici della Cassazione, che del processo conoscevano solo le carte, e non le persone, i volti e le voci, ha detto che lui era colpevole. Esattamente: la sentenza di condanna fu scritta da cinque giudici, che formalmente si limitarono ad annullare e, nella sostanza, puntarono l’indice sul «biondino dagli occhi di ghiaccio».

Il processo fu riaperto per una nuova perizia «cognitiva», che smontava quella precedente sulla possibilità che Stasi potesse evitare di sporcarsi le scarpe, senza darsi cura di mettere a confronto i vecchi e nuovi periti. Oggi, la sentenza che lo condannò sarebbe nulla, perché il processo deve essere rifatto integralmente: allora nessuno eccepì, e Stasi, con dignità, andò in galera.

Ci si può davvero stupire perché, quindici anni dopo, è spuntata un’altra opinabile pista alternativa, o non è forse inevitabile che ciò accada? E continuerà ad accadere, anzi, è già accaduto: leggo le 532 pagine con cui una Corte d’assise a Castrovillari ha condannato, per il presunto omicidio del calciatore Bergamini, una donna, Isabella Internò, che aveva all’epoca vent’anni e oggi, a trent’anni di distanza, dovrebbe andare in galera, cancellando la sua vita e la sua famiglia. Un delitto d’onore alla rovescia.

Anche qui, dopo decenni, scienziati dotati di poteri soprannaturali sono capaci di far parlare cadaveri dissepolti da acclarati suicidi, per rivelare scenari torbidi di complotti omicidi, del tutto insospettabili e assolutamente fasulli. La scienza squaderna verità insospettate contro logica, contro le prove, e i testimoni che hanno visto la vittima uccidersi, e incurante della mancanza di riscontri.

Giuristi pensosi, e indietro coi tempi, inveiscono contro il processo mediatico, dopo aver inflazionato della loro presenza i vari talk show, che vivono di scannamenti assortiti. Dimenticano che il problema non è parlare e spiegare i processi con termini appropriati e comprensibili, semmai straparlarne, senza cognizione alcuna del diritto. Soprattutto, si finge di non capire che, in vicende come quella di Stasi e Bergamini, la spiegazione di certi rovesciamenti della sorte non ha a che fare con le prove, quanto con le rivalità professionali tra agenzie investigative e scuole universitarie, ognuna con le proprie antitesi da opporre ai rivali.

Quando vedi ex inquirenti di una volta diventati consulenti privati di chi una volta avevano inquisito, ed esperti scientifici saltabeccare da un ruolo a un altro, le medesime compagnie di giro, nelle aule di tutta Italia, a ripetere le stesse improbabili tesi tecniche per processi diversi, qualche domanda te la poni; farebbero bene a porsela i pm e i giudici. Non è il conflitto istituzionale il problema della giustizia italiana: semplicemente, è il conflitto di interessi.