Il primo governo Berlusconi durò poco. Fu così facile catalogare la vittoria come un incidente. La classica botta di culo del principiante. Quello però non mollava e anzi preparava la vendetta. L’approdo a Palazzo Chigi nel 2001, con numeri peraltro schiaccianti, prese le forme di una catastrofe. E anche se la sconfitta della sinistra era nell’aria, anche se Rutelli candidato premier ce l’aveva messa tutta perdendo più che dignitosamente, fu comunque una sciagura. Peggio che nel ’94.
Da lì in poi in molti si convinsero che tutti gli italiani fossero potenzialmente berlusconiani. Tutti. Anche quelli che non lo sapevano. Sono gli anni del «temo Berlusconi in me» di Gian Piero Alloisio. «Anche il centrosinistra è ormai berlusconizzato, occorre rifondare la Repubblica», spiegava Ilvo Diamanti. «Manifestazione essenziale dell’immaturità morale e civile degli italiani è dunque la larghezza del consenso dato al berlusconismo», scriveva Repubblica. Solo un manipolo di illuminati, rimasti integri, non infetti, come nei film apocalittici con gli zombie, ci avrebbe prima o poi tirato fuori dalla melma.
A nulla era valso l’appello di Umberto Eco poco prima del voto. Una mobilitazione di massa per «un referendum morale» da cui nessuno doveva astenersi. Eco delineava qui la sua fenomenologia dei due elettorati di riferimento di B.: un elettorato motivato, cinico, pragmatico, calcolatore, che lo votava per un tornaconto personale. E un elettorato affascinato, quello più pericoloso, per cui «valgono solo ideali di benessere materiale e una visione mitica della vita». «Che senso ha parlare a questi elettori dell’Economist», diceva Eco, «quando ignorano anche il titolo di molti giornali italiani e non sanno di che tendenza siano, e salendo in treno comperano indifferentemente una rivista di destra o di sinistra purché ci sia un sedere in copertina?». Gli amanti dei culi in copertina si rivelarono in effetti parecchi.
Giusto dieci anni dopo, al Palasharp di Milano, nell’ennesima grande manifestazione per chiedere a gran voce le dimissioni del presidente del Consiglio dopo il caso Ruby, Umberto Eco sul palco con Saviano e Zagrebelsky consegnò alla storia una delle battute celebri dell’antiberlusconismo: «Anche io la sera vado a letto tardi, ma perché leggo Kant». Risate in sala.
Ecco, lasciava un po’ l’amaro in bocca che uno dei più grandi intellettuali italiani impugnasse le sue letture quale sana alternativa alle cene eleganti, come uno spocchiosetto dottorando di filosofia (e come se le due cose si escludessero, volendo si può anche leggere Kant sul lettone di Putin). La frase di Eco restituiva bene la misura dell’ubriacatura antiberlusconiana, che non lasciava scampo neanche ai migliori. Una frase che immortalava le due Italie: i mignottari e i trascendentali, i poveri di spirito e i puri. Ma insomma, l’avesse detto Zagrebelsky. L’avesse detto Saviano, che è un po’ bacchettone. E vabbè. Ma Eco?
Dov’era finito l’Eco funambolico, giocoliere, fumettaro quando i fumetti erano scemi e ineleganti, quello che ci aveva spiegato che Charlie Brown e Tommaso d’Aquino potevano anche stare insieme, l’Eco ironico, divertente, anticonformista, che se la prendeva col politicamente corretto, che faceva L’elogio di Franti e rovesciava De Amicis nel suo opposto, che diffidava degli intellettuali impegnati e tromboni, che cucinava bestseller così come si prepara un Martini, che aveva reso glamour il medioevo, che definiva il Gruppo 63 «un’avanguardia da vagone letto» e che negli anni Ottanta si era sperticato in ampie lodi di Drive In? Com’era stato possibile? Com’era successo che Umberto Eco fosse lì per «difendere la dignità dell’Italia», dicendolo lui stesso con impeto davvero deamicisiano?
La sua radiografia dell’elettorato di Forza Italia, così grossolana e sempliciotta, non rendeva onore a un’intelligenza vulcanica, tantomeno al suo humour, qualità rara tra i nostri scrittori. Forse la delusione politica accumulata negli anni era tanta. E passi anche per Kant. Non tutte le battute vengono bene. Ma ecco, resta un mistero che un uomo del calibro di Umberto Eco sia potuto salire sul palco del Palasharp per dire davanti a migliaia di persone: «Sotto il fascismo i professori universitari furono obbligati a prestare giuramento: giurarono tutti meno undici, che han perso il posto. Quegli undici hanno salvato l’onore dell’università italiana. Io sono venuto per salvare il mio onore». Senza mettersi a ridere neanche un po’.
Tratto da “C’eravamo tanto odiati. Breve storia dell’antiberlusconismo” (Il Mulino), di Andrea Minuz, 11€, pp. 128