Le nomine di Draghi, una tassonomia

(dario di vico, L’economia, Corsera) Sottrarre le nomine ai partiti è una conditio sine qua non per tentare di conciliare nelle scelte ai vertici delle grandi aziende pubbliche criteri di meritocrazia e insieme di trasparenza. E il governo Draghi ha dovuto in qualche maniera cimentarsi in questo esercizio, cercando di costruire quella che potremo chiamare una sorta di tassonomia delle nomine, dopo l’ultima stagione nella quale il partito di maggioranza relativa aveva fatto sentire il suo peso. I Cinque Stelle, che pure avevano in odio le «poltrone», nella versione Di Maio prima maniera avevano spuntato parecchie investiture di prima fascia pescando i premiati spesso in una maniera che, con un eufemismo, definiremo rocambolesca. Ma al di là di presidenze elargite a caso il Movimento aveva comunque fatto una scelta ponderata — e diremmo addirittura di cultura politica — nell’indicare la guida operativa della Cassa Depositi e Prestiti.

Come smontare il giocattolo senza romperlo? La prima mossa, del tutto condivisibile, è stata quella di restituire le prerogative al vero azionista di Cdp e di Ferrovie ovvero al ministero dell’Economia. Sono stati quindi Daniele Franco e Alessandro Rivera, nella loro veste di ministro e di direttore generale, a istruire i due dossier. Con quale criterio, a loro volta? Hanno chiesto a qualificate società di cacciatori di teste di formulare per l’una e per l’altra società due terne di candidati che non includessero presidenti e amministratori delegati in carica delle due società e quindi fossero delle ipotesi totalmente alternative. In questa maniera il presidente del Consiglio si è riservato la possibilità di decidere: o confermare i vertici in carica o sostituirli, con il vincolo però di pescare dentro le terne degli head hunter e non al di fuori.

E così è andata. Alle Ferrovie il governo ha deciso di avvicendare l’amministratore delegato Gianfranco Battisti con Luigi Ferraris e idem alla Cdp sostituendo Fabrizio Palermo con Dario Scannapieco. Con una differenza importante: alla Fs si doveva scegliere quale capo-azienda fosse più idoneo a gestire la cospicua mole di investimenti pubblici previsti dal Pnrr, alla Cdp occorreva anche fornire i naviganti di una bussola che legasse in qualche modo la scelta della guida operativa con una filosofia del rapporto Stato-mercato. E la bussola non poteva che essere la frase che lo stesso Mario Draghi aveva pronunciato nel suo discorso di insediamento al Senato: «Il ruolo dello Stato e il perimetro dei suoi interventi dovranno essere valutati con attenzione». E non c’è dubbio che durante la gestione Palermo quel perimetro si era allargato in virtù di tutta una serie di operazioni e di una scelta a monte. Il vertice Cdp, infatti, in tempi non sospetti avrebbe potuto legarsi le mani, scrivendo una sorta di preambolo sugli “investimenti-che-non-avrebbe-mai-fatto”, e invece aveva scelto la strada contraria. Il resto è cronaca. Risolti i rebus Cdp e Fs, e assegnati ai nuovi vertici ampi spazi di autonomia nel decidere le nomine delle loro controllate, la tassonomia Draghi avrà davanti a sé un altro test: la Rai, la cui assemblea è fissata in prima convocazione per il 30 giugno (12 luglio in seconda). Per la nomina dell’amministratore delegato toccherà in prima battuta ai cacciatori di teste e al Mef indicare le terne, mentre è possibile che per la carica di presidente — nomina di caratura politica — si faccia un’eccezione e scelga direttamente il governo.