Questi dem, corteggiator cortesi ma sfortunati dei grillini. Riassunto per gli storici futuri

Soltanto quando Grillo è apparso per difendere il figlio Ciro e i suoi amici capaci di stuprare in branco una povera ragazza di 19 anni, magari qualcuno a sinistra ha cominciato a svegliarsi dal sonno in cui era precipitato alcuni anni fa. Ma davvero siamo alleati con questo poco di buono che è il rappresentante più osceno del familismo amorale italiano? Grillo ha dato i natali anche al Movimento 5 Stelle («Doveva essere un gioco, poi siamo andati un po’ più in là…», dice Ciro e sembra l’avventura grillina spiegata con una frase). Un partito che è posseduto da una srl, come ha stabilito la Corte d’appello di Cagliari. Il contenzioso tra la Casaleggio Associati e il Movimento 5 Stelle ci evidenzia che il Paese è guidato da tre anni da un partito che è la prima forza politica presente in parlamento e non è in grado di eleggere i propri vertici perché non sa chi sono i propri iscritti. Non ha Statuto formale, non ha iscritti, non ha rappresentante legale. E quello che dovrebbe diventarne leader, Conte, non ha alcuna legittimità giuridica sia se si fa riferimento alle norme previste dal non-Statuto che alla legge.
Ma nonostante queste anomalie e assurdità democratiche che ai costituzionalisti avrebbe dovuto far venire l’orticaria più del referendum renziano, una buona parte del Pd ama i grillini, Conte & Beppe Grillo. Pensavo fosse amore e invece era un calesse, come nel film di Troisi.

(f. cundari/scoppetta) Vediamo di rinfrescare la memoria e capire questa infatuazione dei dem per il populismo grillino da quando e come si sia sviluppata. Alla base c’è una evidente sindrome di Stoccolma.  È una storia nota, che generalmente si fa partire dal primo celebre streaming in cui Bersani fu preso a pesci in faccia da Vito Crimi e Roberta Lombardi. Vale a dire dall’attuale pseudo-capo politico (la sua posizione è oggetto di controversia anche in tribunale) del principale alleato di governo del Pd e dall’attuale assessora regionale (ovviamente alla «transizione ecologica e digitale») della giunta Zingaretti. D’altra parte, dato il perfetto stallo uscito dalle elezioni del 2013, va pur detto che rivolgersi anche a loro, da parte del segretario del partito arrivato primo, era più che ragionevole (semmai si potrebbe discutere del modo).

Fatto sta che quel primo appuntamento andato a buca sarebbe stato sempre una ferita aperta che non si rimargina. Ancora nel 2017 Bersani si dirà prontissimo, qualora fossero stati i grillini a vincere le successive elezioni (e a chiederglielo), a sedersi con loro per un nuovo incontro in streaming, a parti rovesciate. E arriverà a definire il Movimento 5 stelle come l’argine al populismo, in un articolato discorso ai militanti del suo neonato partito, così sintetizzato il 21 marzo da Francesco Verderami sul Corriere della sera:

«I Cinquestelle tengono in stand-by il sistema. Ma se alle prossime elezioni, in assenza di un centrosinistra largo, s’indebolissero, arriverebbe una robaccia di destra”. Sarebbero i grillini quindi, non il Pd a trazione renziana, l’argine alla “deriva populista e nazionalista”». E ancora:

«Una forza che raccoglie al primo colpo il 25% dei consensi non è un fenomeno transitorio. Anzi loro sono il partito di centro dei tempi moderni».

Replicherà il giorno dopo Alfonso Bonafede: «Non voglio commentare l’opinione rispettabile di Bersani. Sottolineo soltanto che noi non facciamo accordi con nessuno, puntiamo al 40 per cento e, una volta al governo, faremo le nostre proposte che le altre forze politiche potranno votare alla luce del sole».

Non c’è bisogno di ricordare che alle successive elezioni, nel 2018, la robaccia di destra arriverà eccome (dai decreti sicurezza allo scempio della prescrizione compiuto dal succitato Bonafede) e a realizzarla sarà proprio il Movimento 5 stelle, primo partito in Parlamento, in alleanza con la Lega. Il governo giallo-verde Conte 1, durato dal 1º giugno 2018 al 5 settembre 2019, per un totale di 461 giorni, ovvero 1 anno, 3 mesi e 4 giorni, i dem lo hanno, direbbe uno psicanalista, semplicemente rimosso, come se non ci fosse mai stato, così come non ci sono mai state le incredibili accuse al “partito di Bibbiano”. Il Partito democratico che “toglie i bambini alle famiglie con l’elettroshock” allo scopo di “venderli” è così definito dall’ex bibitaro Luigi Di Maio, pronunciate nel corso del programma Uno Mattina, su Rai1, e poi in una diretta Facebook, con le quali il Pd viene accostato ai fatti legati agli affidi illeciti di minori in provincia di Reggio Emilia. Nonostante tutte le cose folli che ha detto il ministro degli Esteri (compresa la sconfitta della povertà attraverso il Rdc) i dem lo hanno sempre ricambiato con amorosi sensi, sino a raggiungere vette liriche con le parole incredibili del democristiano Franceschini che citeremo fra poco.

È inoltre degno di nota che per Bersani e per tutta l’area a sinistra del Pd i successi elettorali raggiunti dal Movimento 5 stelle nel 2013, quando cioè alla guida dei democratici c’erano loro, sono un dato oggettivo, impersonale, quasi meteorologico («Questa cosa dei grillini, cosa volete, adesso ve la dico in due parole. Cos’è successo in quella elezione? Noi abbiamo incrociato il picco del grillismo, l’abbiamo incrociato, ci abbiamo perso 4-5 punti, è successa lì la questione», dirà Bersani, ad esempio, alla festa dell’Unità di Cremona, l’8 luglio 2013). Quando tocca a Renzi, ovviamente, è tutta colpa sua.

Ma la verità è che non c’è leader del centrosinistra che prima o poi non abbia civettato con i populisti, imitandone i modi e corteggiandone i leader: ora in competizione con loro, in una miserevole gara di antipolitica e giustizialismo, nella speranza di guadagnarsi così l’applauso dei loro giornalisti e intellettuali di riferimento (speranza non sempre delusa, purtroppo), ora semplicemente inginocchiandosi dinanzi ai partiti avversari, autoflagellandosi e implorando perdono per tutti i propri passati peccati.

La scelta tra l’una e l’altra strada è anche questione di carattere, e non stupisce che la prima – il modo, diciamo così, più competitivo – sia stato il prediletto, ad esempio, da Matteo Renzi, specialmente nella fase iniziale della sua ascesa, quella della rottamazione. Terreno su cui peraltro sarebbe stato presto seguito e infine superato tanto da Pier Luigi Bersani quanto da Enrico Letta (è sotto il suo governo che il finanziamento è stato sostanzialmente abolito, salvo forme residuali come il 2 per mille), i quali preferiranno però la strada del corteggiamento diretto, esplicito, a cuore aperto. Per non dire proprio in ginocchio.

Nel gruppo dei corteggiatori si è fatto notare Dario Franceschini, che  è stato indubbiamente uno dei più romantici e ispirati. «Ora costruiamo una casa comune con i sassi che ci siamo gettati contro», twitta ad esempio all’alba del secondo governo Conte, il 15 settembre 2019. E meno di un mese dopo, a proposito di Di Maio, ecco che il ministro della Cultura si spinge là dove nessun rivale, prima di lui, ha avuto il coraggio di osare:

«Di Maio? Non lo conoscevo personalmente, ma ora ho visto che sui dossier è uno che approfondisce, uno che studia» (Otto e mezzo, 7 ottobre 2019).

Uno slancio paragonabile solo a quello della celebre intervista di Zingaretti al Corriere della sera su Conte, mai però ricordata nella sua interezza dai cronisti, i quali l’hanno ridotta alla mini versione del «punto di riferimento». In realtà (e l’effetto di così folle innamoramento lo vedremo tra qualche anno) ha detto molto di più:

«Autorevole, colto e anche veloce e sagace tatticamente. Non va tirato per la giacchetta. Anche se è oggettivamente un punto fortissimo di riferimento di tutte le forze progressiste» (20 dicembre 2019).

Soltanto l’ex ministro Boccia è riuscito a superare Zingaretti con questa dichiarazione all’Huffington post, imbattibile per sintesi e icastica efficacia: «Conte è il nostro Bearzot» (18 settembre 2019).

E infine, ormai a maggio 2021, veniamo all’ultimo corteggiatore preso a pesci in faccia dai Cinquestelle, quell’Enrico Letta tornato da Parigi in fretta e furia proprio per accompagnare Draghi e far dimenticare le vedove di Conte, caduto per un complotto internazionale che il prode Ciampolillo non è riuscito a sventare insieme con un gruppo di Responsabili (qualcuno li rammenta?). Letta è stato sedotto e abbandonato da Giuseppe Conte “il nostro Bearzot” sulla strada che doveva condurre alla candidatura di Nicola Zingaretti al Campidoglio, all’ultimo minuto bruscamente rimbalzato, come si dice a Roma, in favore di Virginia Raggi. Con Francesco Boccia a giurare che nonostante tutto i democratici sosterranno «l’alleanza con la Raggi, ma con Gualtieri sindaco», per poi sentirsi dire da Chiara Appendino che invece loro, a Torino, non se lo sognano nemmeno di appoggiare il Pd al secondo turno.

Per finire con lo sberleffo finale dell’intervista di Luigi Di Maio al Fatto quotidiano, in cui il ministro degli Esteri, dopo essersi chiesto candidamente perché mai i Cinquestelle non avrebbero dovuto appoggiare Raggi a Roma (col tono con cui la bella dice all’incredulo spasimante di non avere mai ricevuto nessuna delle sue lettere d’amore, o forse di averle cestinate scambiandole per pubblicità), concede che, qualunque cosa decida di fare Roberto Fico – che pare proprio deciso a restarsene dov’è – «una cosa è certa, conosciamo Napoli e le dico che è pronta per una coalizione tra noi e i dem». Ma che gentili, ha commentato su Linkiesta Francesco Cundari.

Ma prendersela con Letta sarebbe davvero troppo facile, anche perchè lui continua imperterrito sulla linea del suo predecessore, Zingaretti, e del suo gran consigliere, Goffredo Bettini, lasciando peraltro l’intero dossier nelle mani del primo e più entusiasta di tutti i fautori del matrimonio con i cinquestelle, vale a dire quello stesso Boccia che in un’intervista all’Huffington post, non pago dei risultati già ottenuti (un due di picche dopo l’altro), è arrivato a definire i Cinquestelle «il più grande movimento di massa degli ultimi trent’anni». Dimenticando che già una volta, in occasione delle regionali, i Cinquestelle li avevano menati per il naso per mesi, salvo poi concedersi solo lì dove erano sicuri della sconfitta, per poi addebitarla proprio all’alleanza con il Pd (dalla Liguria all’Umbria).