Un mio amico mi dice che questa estate ha scoperto la meraviglia del fiume Lao, che lo ha percorso in gommone ed è stato spettacolare. A settembre 2020 una turista dopo aver visitato la grotta del Romito a Papasidero scrive su Tripadvisor:
“Consiglio a quanti soggiornano in questa parte della Calabria di abbandonare per un giorno la tranquillità della spiaggia e di fare una gita in questo luogo meraviglioso. Risalente a 12.000-14.000 anni fa qui sono, su di un grande masso liscio, incisioni rupestri di una qualità assolutamente meravigliosa. L’immagine di un “bos primigenius” ritratto con tutti i particolari e gli attributi del caso. Un’opera meravigliosa che testimonia le abilità pratiche ma al contempo anche una notevole qualità intellettiva dei primi uomini che abitavano questa zona. Ingresso al sito:4 euro. C’è anche un piccolo museo che testimonia degli scavi e brevi note sull’evoluzione umana. NOTA = l’abbigliamento non richiede accorgimenti particolari, bastano un paio di comode scarpe!”.
Cose analoghe potrei dire per le Valli Cupe di Sersale, Il Pollino, l’Aspromonte (si veda Montagne di Calabria di Francesco Bevilacqua, Rubbettino), così come un semplice sguardo all’Atlante dei Beni Culturali della Calabria con la sola ubicazione dei siti archeologici ti fa capire quali tesori sono sparsi per tutta la Regione.
A parte la costa e i borghi (da Stilo a Gerace e Morano), campiamo su una terra ballerina che potrebbe vivere unicamente sul turismo internazionale per 365 giorni, e non sul mare per la metà di agosto. La nostra economia, oggi basata sullo sfruttamento intensivo del territorio e del mare diventati la pattumiera d’Italia per tutti i veleni e le scorie che la mafia vi nasconde (io la chiamo l’ecologia calabrese al contrario), dovrebbe puntare, attraverso la cura e la custodia dei nostri paesaggi naturalistici a replicare quel che fa, per esempio, la Liguria (faccio un esempio nazionale per non volere sempre fare la gita a Chiasso come voleva Arbasino).
L’Appennino ligure è esattamente come il nostro, le zone interne della Liguria sono molto simili alle nostre, la costa lì è in linea retta mentre la nostra è una sorta di cerchio. Insomma, tocca agli storici spiegare per quali motivi culturali una popolazione dotata di tante ricchezze non abbia saputo vivere attraverso il turismo, preferendo andare dietro alle chimere dell’industrializzazione, alla precarietà del terziario tradizionale, abbandonando l’agricoltura perchè troppo faticosa (mentre i liguri resistono) e infine approdando alla decrescita felice dei grillini con il reddito garantito e le mance e i falsi invalidi e l’impiego pubblico.
La politica regionale calabrese viene affidata da sempre a politicanti che il mio discorso lo condividono, ma soltanto apparentemente. In realtà, la Regione ha stretta competenza sulla sanità e pertanto la Calabria dopo aver sperperato tutto quello che poteva è stata commissariata da un decennio e adesso piange sul latte versato. Per quanto riguarda tutti gli altri settori la burocrazia regionale li amministra con gli appalti e le mance ai soliti amici per cui la popolazione calabrese vivacchia come può mentre un ceto politico-clientelare-massonico vive sui fondi che la Cittadella calabrese distribuisce ad una cerchia ristretta di valvassori.
Scorrendo l’elenco dei Governatori non si salva nessuno se il metro di giudizio è quello che ho indicato in premessa, puntare a fare della Calabria una piccola Liguria dove, quantomeno, sulla costa si possa incentivare un turismo di massa, e le zone interne siano curate e preservate per i turisti che vi salgono dalla costa oppure per l’altro turista, quello poco interessato al mare e più naturalista o colto o camminatore.
Concludo dicendo che come finalmente per incanto e per un Mattarella che ha perso la pazienza abbiamo affidato il governo nazionale ad un uomo che il mondo ci invidia, confido che un giorno anche in Calabria avremo un Presidente che sappia come trasformare la Calabria da azienda decotta e fuori mercato in una grande azienda turistica.
Non avverrà quest’anno dove gli Irto, De Magistris e Company mi appaiono non in grado, per storia personale e competenze, di rappresentare la svolta. Come i loro predecessori e con questa bacchetta magica dello storytelling che tutti pensano di aver trovato, penseranno a quale altro regista affidare un bel filmato che racconti al mondo le nostre bellezze. La Calabria si racconta da sola, le occorre un grande manager-imprenditore che sappia considerarla per quello che è: una grande azienda turistica da amministrare e rilanciare per tutti quelli che vi abitano e lavorano.
La storica dell’arte Anna Coliva ha scritto oggi (Il Foglio): ” Il turismo è una scienza e non conviene affatto trattarla come attività da pro-loco concepita come sfruttamento parassitario di singoli oggetti, i cosiddetti “beni culturali” divenuti feticci di luoghi denominati “città d’arte” o “centri storici” ma che non sono altro che “parchi a tema” destinati all’abbandono, allo scarto residuale allorché qualunque imprevisto interrompa la corrente. E la desolazione delle nostre città che hanno scelto la scorciatoia della minuta imprenditoria parassitaria al posto di un’economia strutturata è lì a dimostrarlo. E’ necessaria quindi chiarezza.
Poiché il tipo di produzione conseguente il turismo è prevalentemente di servizi e benessere, rientra nel settore delle industrie creative: quell’ambito cui tradizionalmente l’economia pura non riconosceva dignità, dopo averne a lungo negato la consistenza. Ma questa è una reazione di pregiudizio ormai superata: alla prova dei fatti, ha ottenuto il riconoscimento di economia a tutti gli effetti, con una propria consistenza produttiva.
Di per sé il turismo non è essenziale: essendo un lusso, pone la sfida di organizzarlo come un lusso di massa, finanziariamente accessibile senza perdere la sintomatologia del lusso (quello esclusivo ha già i suoi modelli e metodi). Peraltro è un’economia molto flessibile e adattabile alle situazioni sociali e geografiche. Per questo è rischiosissimo irrigidirla, per esempio regolamentandola in eccesso”.
Clamoroso esempio fra le tante assenze di tale equilibrio fu il caso dei Bronzi di Riace, su cui ci si è lacerati se dovessero stare in Calabria o a Roma Caput Mundi.
Sfugge che la soluzione giusta è stata ottenuta solo dall’ambito culturale, precisamente della scienza archeologica che non ne ha sbagliata una, dalla loro identificazione al loro restauro alla loro conservazione, sino al loro ritorno a Reggio dopo restauro ed esposizione al Quirinale (’81).
Ritorno che coincise con un culmine di legislazione e relativi finanziamenti della Regione Calabria per migliorare l’accoglienza turistica. Risultato: quei provvedimenti sono stati il motore della massima intensificazione dell’attività edilizia selvaggia, speculativa, con ogni tipo di destinazione fuorché l’efficacia ricettiva; anzi con effetto irrimediabilmente repulsivo sul turismo, dati gli orrori creati. Nessun provvedimento infrastrutturale sulla accessibilità regionale.
Per contro fino pochi anni fa negli aeroporti di Pechino e Shanghai poteva capitare di imbattersi in immense pubblicità luminose su spazi costosissimi: “Visitate la Calabria”.
Dunque, senza bisogno di commenti, l’unico ambito che ha funzionato è stato quello dei Beni culturali, che tra studio archeologico, restauro e organizzazione del museo ha prodotto il meglio semplicemente perché opera con scienze specifiche confrontabili tra loro; al contrario un settore privo di protocolli scientifici gli ha creato attorno il disastro degli equivoci. Pertanto dire che nei Bronzi è insito un potenziale di sviluppo per l’intera area geografico-sociale è un luogo comune che non contiene alcun elemento di effettiva realizzabilità: è una mera, imprecisa e confusa percezione, seppure legittima.
Ma quali altre scienze sarebbero state necessarie per trasformare un’aspirazione in un fatto? Certamente mancò il contributo di una scienza del turismo in grado di raccogliere tutte queste capacità finalizzandole allo scopo della creazione di sviluppo, profitto privato e benessere pubblico. Senza tutto ciò, l’istituzione pubblica si mette in competizione con l’interesse privato senza le necessarie competenze ma con il riparo dell’irresponsabilità propria del settore pubblico che non corre il rischio d’impresa. Il difetto principale delle esperienze italiane è il potere pubblico che, invece di dare le regole, prima diventa arbitro e poi giocatore, pur essendo un tifoso da divano che non sa giocare una partita vera.