Hamas, come tramutare le proprie vittime in carnefici

Due anni dopo/ Lo specchio rovesciato

A due anni dal pogrom del Sabato Nero, i tagliagole di Hamas vivono uno straordinario paradosso. Devastati sul piano militare dall’Idf e isolati sullo scacchiere geopolitico dalla caduta o dal ridimensionamento di tutti i loro alleati, sono tuttavia riusciti a tramutare agli occhi del mondo le proprie vittime in carnefici.

Ed era questo il vero obiettivo politico che si ponevano sin dall’inizio i loro capi Ismail Haniyeh e Yahya Sinwar quando invocavano «il sangue del popolo palestinese», ovvero il martirio di donne e bambini di Gaza, per irrorare la rivoluzione islamista.

Come in uno specchio rovesciato, gli aggrediti del 7 ottobre 2023 sono finiti al centro dell’esecrazione globale, provocando una sollevazione e uno sdegno che alle nostre latitudini ricordano soltanto la causa del Vietnam dalla quale venne forgiata un’intera leva di contestazione giovanile.

Le manifestazioni di queste ore, non sempre nel segno della pace, lo dimostrano. Qui la postura gandhiana c’entra pochissimo: la bandiera della Palestina è diventata una calamita per tutti i radicalismi, i rancori e i disagi che a lungo non hanno trovato voce nella crisi profonda di questo scorcio di Ventunesimo secolo e nell’afasia della sinistra tradizionale. In Italia, certo, ne viviamo una sorta di realtà accresciuta, come ha sottolineato Antonio Polito su queste colonne, a causa delle peculiarità d’un Paese che è stato il ventre molle dell’Occidente dal secondo dopoguerra in poi, culla di un antiamericanismo ideologico e di un pacifismo peloso senza eguali nel resto d’Europa. Ma un vento non dissimile ha soffiato e soffia, pur con motivazioni e forme diverse, in Turchia e in Spagna, in Belgio e in Germania, in Svizzera, in Svezia e in Grecia, nei campus statunitensi dove viene rilanciato lo slogan «from the River to the Sea», in Australia come nel Regno Unito dove l’altro giorno questo clima è peraltro sfociato in un letale attacco terrorista contro una sinagoga di Manchester.

Qui da noi, caso nel caso, la deriva è tale che il solo ricordare in un talk o su un palco gli ostaggi israeliani ancora detenuti nei tunnel dell’organizzazione islamista può comportare stigmatizzazioni pesanti, talvolta fomentate da personaggi che hanno fatto dello spirito di fazione la loro dimensione pubblica.

Naturalmente una simile frattura sentimentale fra Israele e (quasi) il resto del mondo ha motivazioni più che ragionevoli.

Il massacro di civili, la carestia indotta e l’esodo forzato a Gaza hanno di gran lunga travalicato il confine della tollerabilità per le nostre coscienze. E questo ha reso ingiustificabile Israele anche per chi ne è stato e ne rimane amico. Il premier Netanyahu, per motivi che solo in parte hanno a che vedere con la sicurezza del suo popolo, ha deciso di portare avanti oltre ogni limite (o almeno sino alla frenata dell’imprescindibile alleato Trump) una guerra asimmetrica «fino alla vittoria»: vittoria che, com’è evidente, non si può conseguire sul piano militare a meno di sterminare davvero i due milioni di gazawi in mezzo ai quali stanno ancora incistati quindici o ventimila miliziani di Hamas, e che, comunque, produrrà una nuova generazione di terroristi tra quei bambini denutriti oggi in fuga sotto le bombe.