L’intifada italiana. Così il sito «ArabNews» ha descritto l’ondata di proteste pro Pal in corso nelle nostre città, e che dovrebbe trovare il suo culmine oggi nel secondo sciopero generale in due settimane, indetto stavolta insieme da due sigle sindacali di solito inconciliabili, Cgil e Usb.
La definizione coglie bene l’eccezionalità di quanto sta succedendo da noi. Non solo rispetto alla solidarietà per altre cause internazionali, mai così vasta e accesa, certamente non per un’altra nazione invasa, l’Ucraina. Ma anche di fronte al resto d’Europa, dove la vicenda della Flotilla non ha suscitato la subitanea rabbia vista ieri sera nei cortei improvvisati.
Perché? Certamente c’è nel nostro Paese un profondo sentimento di sconcerto per il massacro compiuto dalle forze armate israeliane a Gaza, e un moto di generosa solidarietà col suo popolo martoriato. Ma su quell’indignazione si è innescato qualcosa di più: un fattore interno.
E cioè il tentativo di rovesciare sul governo di centrodestra la colpa della tragedia palestinese, definita addirittura «complicità» con ciò che ormai comunemente, ma impropriamente, viene chiamato «genocidio» (si può odiare un immane massacro di civili e bambini con tutte le proprie forze anche senza paragonarlo all’imparagonabile). E a nulla è valsa la rapida conversione del governo Meloni (leggono i sondaggi anche a Palazzo Chigi) che ora condanna senza più se e senza ma le scelte di Netanyahu, fino all’ipotesi di considerare il riconoscimento condizionato dello Stato di Palestina.
Che senso avrebbe altrimenti, in segno di protesta contro il blocco navale di 50 italiani sulla Flotilla, tentare il blocco dei treni per 50 milioni di italiani? Eppure la parola d’ordine lanciata dall’Usb, «blocchiamo tutto», è ormai il mantra di queste manifestazioni. E non c’è davvero da meravigliarsi se poi i militanti, chiamati a bloccare tutto, davvero provano a farlo irrompendo nelle stazioni o negli aeroporti. Per quanto condannate, nascono da quella parola d’ordine violenze come quelle recenti di Milano, che si potrebbero definire di «diciannovismo in salsa maranza», per parafrasare un celebre giudizio di condanna che Enrico Berlinguer pronunciò nei confronti dell’estremismo di piazza del 1977.
È come se in Italia ci fossero due diverse forme di solidarietà alla Palestina. Le abbiamo del resto viste nel teatro di Reggio Emilia, dove un povero sindaco del Pd, premiando Francesca Albanese, si era permesso di augurare insieme «la fine del massacro dei palestinesi e la liberazione degli ostaggi israeliani». Solo per essere svillaneggiato dalla immeritatamente premiata, che ha chiamato il pubblico alla protesta contro quel pensiero rivolto agli ostaggi, ritenuto incompatibile col diritto del popolo palestinese a ribellarsi all’occupazione.
A questo hanno portato tanti mesi di indiscriminati massacri a Gaza: a far dimenticare a una parte consistente della popolazione italiana che tutto è cominciato il 7 ottobre di due anni fa, che niente di quel pogrom è scusabile, comprensibile, accettabile. Mentre ormai c‘è chi sdogana apertamente la ferocia antisemita di Hamas come lotta di liberazione nazionale.
Ma se i manifestanti hanno pieno diritto a portare in piazza le loro passioni, la guida politica di questi movimenti avrebbe il dovere di indicare loro una strategia. La vera domanda da porre a chi oggi sfilerà è dunque: questi cortei sostengono oppure no il piano di Trump per la pace a Gaza? In parlamento i partiti di opposizione possono anche astenersi, come hanno fatto quelli del Campo largo, lo fanno sempre più spesso anche per non mostrare le divergenze interne. Ma nelle piazze, nei movimenti, non ci si può astenere su un punto di così cruciale importanza. Perché potrebbe mettere fine almeno temporaneamente a quel massacro che tutti condanniamo.
Eppure in piazza lo spiraglio di pace a Gaza, per quanto ancora incerto, sembra passato in secondo piano rispetto alla vicenda della Flotilla. La Cgil ha motivato lo sciopero addirittura con «il colpo all’ordine costituzionale» che ne sarebbe derivato. Dobbiamo rispettare il coraggio e la passione che ha spinto quei militanti a rischiare anche in proprio per suscitare l’attenzione del mondo sulla tragedia di Gaza. Ma non possiamo non vederne le numerose contraddizioni. Come la pressione perché una scorta militare proseguisse fino al limite dello scontro con le forze armate israeliane, da parte di pacifisti incalliti. Oppure lo scivolamento in secondo piano dell’obiettivo della consegna degli aiuti umanitari di fronte al ben più politico intento di forzare il blocco navale. Ma, in ogni caso, l’abbordaggio della Flotilla resta, per usare l’espressione di un cattolico del Pd, Graziano Del Rio, una nuvola rispetto al temporale che si sta abbattendo sul popolo palestinese. E l’obiettivo di fermarlo, anche se ci riuscisse l’odiato Trump, è forse meritevole di essere perseguito prima di ogni altra cosa.
In particolare Pd e Cgil, eredi di una grande tradizione riformista e laburista, devono stare attenti a non disperderla in un’ubriacatura movimentista che galvanizza ma alla lunga isola, che riempie le piazze ma non le urne, come abbiamo visto di recente. Oggi in piazza è il momento di gridare «pace in Palestina», non «blocchiamo tutto».
