L’Italia di Mattarella e Draghi senza più voce in parlamento

Mentre in parlamento la presidente del Consiglio spiegava che lo spread sotto i cento punti base significa che i titoli di stato italiani sono considerati «più sicuri» (sic) di quelli tedeschi e il segretario di Più Europa si faceva espellere dall’aula perché vestito da fantasma (sigh), Sergio Mattarella e Mario Draghi prendevano la parola al simposio Cotec, a Coimbra, per esortare l’Europa ad agire lungo le linee del rapporto sulla competitività elaborato dallo stesso ex presidente della Bce. Mi pare estremamente significativo che per segnalare i pericoli dell’inazione Mattarella, volendo fare un solo esempio, abbia scelto proprio la difesa comune, che «nella sua attualità e urgenza ben esemplifica le conseguenze dell’inazione e delle ingiustificate ritrosie a procedere lungo il cammino dell’integrazione». Gli stati membri, ha ricordato nel suo intervento il capo dello stato, ne discutono da settant’anni, e non è difficile immaginare quale sarebbe oggi la condizione dell’Unione, dinanzi alle nuove minacce che deve fronteggiare, se le discussioni di allora avessero prodotto dei risultati. «Oggi siamo in ritardo, in rincorsa rispetto agli eventi e dobbiamo, di conseguenza, avvertirne l’urgenza». Parole che dovrebbero risuonare con forza alle orecchie di tutti i leader politici italiani, e in particolare ai vertici del Partito democratico, per ovvie ragioni.
Per il Capo dello stato le iniziative dell’Ue sulla difesa «sono un primo fondamentale passo e testimoniano piena consapevolezza della posta in gioco»
Il presidente della Repubblica ha voluto però essere ancora più chiaro. «Le iniziative avviate in materia dalla Commissione europea sono un primo fondamentale passo e testimoniano piena consapevolezza della posta in gioco. Rappresentano anche una dimostrazione di concretezza, volendo porre a fattor comune strumenti e vantaggi di scala propri di un ordinamento sovranazionale che già in passato ha dimostrato capacità di adattamento a diversi shock esogeni». E questo è tutto quanto ci sarebbe da dire rispetto alle obiezioni speciose venute da destra e da sinistra al piano di Ursula von der Leyen, anche volendo tralasciare le invettive più rozze e demagogiche del putinismo gialloverde sempre in servizio. L’intervento di Draghi è stato naturalmente più articolato, e meriterebbe di essere letto per intero (ai lettori di sinistra, che sento arricciare il naso per vecchi riflessi condizionati, segnalo in particolare il passaggio contro la politica fiscale restrittiva e la «repressione salariale» attuate in Europa dopo la grande crisi). Draghi ha detto che lo shock provocato dai dazi di Trump non sarà riassorbito tanto presto, e probabilmente non sarà riassorbito affatto, ma il punto centrale del suo discorso mi pare questo: «Dal 2020 abbiamo perso il nostro modello di crescita, il nostro modello energetico e il nostro modello di difesa. Gli europei avvertono in modo acuto il senso di crisi. Crescita, energia e difesa sono le aree fondamentali in cui i governi devono provvedere ai loro cittadini, eppure in ciascuna di esse ci siamo trovati ostaggio della sorte ed esposti alle decisioni imprevedibili degli altri». La durezza delle critiche alle scelte sbagliate o all’inazione delle leadership europee degli ultimi anni (decenni) non va ovviamente confusa con l’antieuropeismo da quattro soldi dei demagoghi che purtroppo affollano la scena politica italiana. Anzi, direi che il nostro problema più grave, messo crudelmente in luce dalla giornata di ieri, è proprio il fatto che l’Italia di Mattarella e Draghi, con la sua chiara consapevolezza delle minacce che abbiamo davanti, non sembra essere più rappresentata in parlamento, dove rimangono solo populisti di destra e di sinistra, leader di opposizione travestiti da fantasmi e fantasmi dei leader di governo che furono.