Gli ultras e lo Stato che non ha la forza

Negli stadi di calcio in ogni partita vi sono dei personaggi i quali non guardano il campo ma dirigono i cori dei tifosi. Spesso a torso nudo, per 90 minuti guardano solo altri spettatori, non i calciatori. Perchè lo fanno? Non ho mai parlato con nessuno di essi ma immagino cosa mi direbbero: svolgono un lavoro necessario ed indispensabile. Ammettiamo pure che in uno stadio una decina di persone come loro su migliaia di spettatori abbiano una passione sportiva per la squadra del cuore così grande che impedisce di guardare il gioco per ordinare i cori di incitamento. Ma allora sono dei santi, ci chiediamo, oppure gente che lo fa per mestiere? Il mio professore di filosofia al liceo ci diceva sempre che anche i santi provano piacere a fare i sacrifici che fanno altrimenti non lo farebbero. Ma comunque sia, più che santi penso che tali tifosi si siano trovati un lavoro dal quale ricavano soldi, non solo rispetto o considerazione dagli altri. Insomma, una volta pensavamo che ci fosse il lavoro e poi lo svago, il pane e le rose. Si andava alla partita per dimenticare la fatica o la noia del lavoro, adesso vi sono delle persone che vorrebbero farci credere che allo stadio vanno per passione mentre appare evidente come il loro sia un lavoro che per inclinazione o necessità sono stati costretti a fare. Una cosa è un tifoso che mentre guarda la partita fa il coro o suona la tromba o un tamburo o sventola la bandiera, altra cosa è uno che la partita non la guarda e dirige i cori. Il primo sarà entrato pagando il biglietto, il secondo entra perchè lo pagano. Prendiamo l’abitudine solo italiana (sconosciuta in molti paesi) dei giocatori che a fine gara vanno sotto la curva a salutare gli ultras. Un fenomeno dalle radici antiche, che non si è mai voluto stroncare. Nel 2012 allo stadio di Marassi i giocatori del Genoa furono “sollecitati” a consegnare le magliette agli ultras perché considerati indegni di portarle. E quel derby di Roma sospeso per l’uccisione di un bambino che in realtà non c’era stata? Un portiere del Cagliari, Storari, venne costretto a rinunciare alla fascia di capitano. Quando i calciatori nel dopo gara si prendono per mano e vanno di corsa a ringraziare i supporter delle due curve (gli altri spettatori pur paganti non esistono) è un evidente segno di soggezione, un atto di resa, il plastico riconoscimento che a comandare allo stadio sono loro, gli ultras. E chi prova a ribellarsi viene preso di mira. Lo sanno bene i presidenti che furono costretti a vivere sotto scorta, così come i bravi giornalisti che hanno avuto il coraggio di raccontare l’intreccio di violenza e minacce, velenoso sottobosco di un business milionario. Alla base un meccanismo ricattatorio persino semplice: se mi impedisci di fare affari con te, dice il capo tifoso al dirigente, e significa libertà di bagarinaggio, biglietti sotto costo, marketing di gadget e magliette, ti faccio squalificare il campo, ti costringo a giocare a porte chiuse, ti faccio perdere un sacco di quattrini. In Inghilterra e Germania hanno deciso, tanti anni fa, di intervenire e gli ultras sono stati costretti per sfogarsi ad andare all’estero. In Italia no, agli ultras abbiamo consegnati lo stadio e gli affari e i loro ricatti verso le società hanno la stessa natura di quelli perpetrati dalle cosche e dalle lobby. Se la “forza” dello Stato spesso reclamata verso migranti e diversi fosse indirizzata verso tutti quelli che ricattano, dagli ultras a tutti quelli che vogliono bloccare le città, tassisti compresi, il nostro sarebbe un paese più giusto.