Le Brio/ Un film sull’arte dell’eloquenza

I distributori italiani sarebbero da psicanalizzare se non fossero deficienti. Un film francese del 2018 del franco-israeliano Yvan Attal  “Le Brio” diventa in Italia “Quasi nemici”. Il film è la storia dell’incontro e dell’inaspettato avvicinamento di una ragazza di origine araba proveniente dai sobborghi parigini e Pierre Mazard (un grandioso Daniel Auteuil), un noto professore dai modi burberi e di estrazione benestante. Lui le insegnerà la nobile arte della retorica, arma con cui lei imparerà a imporsi sia nella sua carriera forense, che nella vita privata; ma il gesto del professore si rivelerà essere tutt’altro che altruista e tutti i nodi verranno al pettine.

Supportato dalle teorie dei grandi studiosi e intellettuali della storia del pensiero e della filosofia, il regista Attal  consegna a noi spettatori delle piccole lezioni di retorica, di eloquenza, sul parlare bene e sulla costruzione del consenso.

Non conta solo ciò che si dice ma anche – e certe volte soprattutto – come lo si dice. E perciò tutto si può dire, bisogna solo vedere quali argomentazioni si portano.

Il refrain del film, nocciolo essenziale delle lezioni di retorica del professore è: «La verità non importa, ciò che importa è avere sempre ragione». In questo senso, Mazard intende il dialogo come una colluttazione, uno scontro, un conflitto, in cui uno dei due interlocutori deve avere sempre la meglio. Come spesso succede, proprio quando si ha appreso e interiorizzato la tecnica arriva il momento di trasgredirla. Infatti, il film da un certo punto in poi procede invalidando ciò che prima aveva costruito in un espediente molto classico del racconto al cinema: ribaltando le premesse e mostrandone i punti deboli, le discrasie. Quindi, in maniera intelligente il regista francese non riduce le lezioni di Mazard a delle regoline da seguire pedissequamente, ma le descrive come degli strumenti da saper utilizzare anche in relazione al contesto, conoscendone il funzionamento, i punti di forza e le zone d’ombra o le irriducibili contraddizioni.

La frase che sentiremo ripetuta più volte mentre il film volge al termine – e che stride con il motto della prima parte – è: «Quando si parla bene ci si dimentica come dire le cose in maniera semplice» che porta a compimento il senso generale del film, ne esaurisce l’argomento, rendendo onore alla sua complessità.

Non intendo qui parlare del valore del film che è comunque ben costruito sia pure in maniera scontata. Vorrei soltanto far riflettere su quanti dilettanti della retorica incontriamo nella vita e in tv, convinti di saper maneggiare le parole come tanti giocolieri di un circo. In realtà proprio perchè in Italia, al contrario della Francia, nessuno studia più Cicerone e l’ars oratoria è stata dimenticata, abbiamo ormai un repertorio di frasi fatte e slogan dalla quale attingono politici e avvocati convinti, nel terzo secolo, che la verità sia stata sostituita dalla narrazione. Le metafore di Cicerone possono essere avvicinate ai colori di un pittore, servivano per dare profondità, contrasto e bellezza al suo discorso. Cicerone intendeva dipingere quadri vividi nell’immaginario degli ascoltatori. 

Oggi, se ci si fa caso, il massimo al quale aspirano i nostri comunicatori è quello di saper ricorrere non a metafore ma a giochi di parole dimenticando di dire le cose in maniera semplice. Il giochetto retorico del “ma anche” di veltroniana memoria, al quale ricorrono tutti gli esperti di supercazzole che comunicano, è scoperto ed ingenuo, furbetto e degradante, perchè serve per assimilare zuppa e ban bagnato. Non troverete mai un pacifinto che arrampicandosi sugli specchi non cominci oggi la sua litania rendendo omaggio all’aggredito per poi aggiungere che per colpa dell’Occidente cattivo Putin ha avuto ragione ad aggredire. Le circonlocuzioni dei nostri comunicatori consistono nell’avvolgere i propri pensieri nella carta stagnola come tanti cioccolatini. La pretesa è quella di dar loro una forma, ma si tratta solo di aver la pazienza come ascoltatori di aprire la confezione, tutto qui. Nelle scuole hanno scoperto una tecnica che si chiama ” debate“, un confronto fra due squadre di studenti che sostengono e controbattono un’affermazione o un argomento dato dal docente, ponendosi in un campo (pro) o nell’altro (contro). Il tema individuato è tra quelli poco dibattuti nell’attività didattica tradizionale. Si organizzano tornei e gare, ma nessuno prima, come il prof. Mazard del film Le Brio, si prende la briga di introdurre gli allievi alla eloquenza (l’arte e la tecnica di parlare o scrivere con efficacia, in modo da persuadere e commuovere gli uditori o lettori). Arte e tecnica che sono strumenti essenziali e propedeutici al persuadere. In Italia si è ancora convinti che uno specialista debba utilizzare in pubblico il suo linguaggio specifico fregandosene del contesto. C’era un ispettore scolastico, per fare un solo esempio, che quando parlava in pubblico invece di dire “studente” preferiva chiamarlo “soggetto in apprendimento”. L’oscurita’ del linguaggio ricorrendo alla terminologia propria della specialità (medici, ingegneri, informatici, artisti) è da noi ancora considerata il biglietto da visita per accreditare chi parla davanti all’uditorio. Come è a tutti noto, parlare tanto senza dire niente per gli italiani è considerato un titolo di merito. Si sconta la memoria di anni di scuola dove chi non sapeva non profferiva parola mentre quelli con la parlantina se la cavavano sempre confidando sulla distrazione del docente. Lo scopo è sempre uno solo, sentirsi dire come apprezzamento: “Parla bene anche se non ho capito nulla”. Quello che dovrebbe essere un titolo di demerito, in Italia è diventato un riconoscimento di qualità.