Il garantismo non è una categoria etica ma una tecnica di interpretazione delle leggi

Ho letto con grande compiacimento l’inattesa e giusta professione di garantismo di Chiara Valerio a favore dell’amico Leonardo Caffo. Valerio, personaggio di punta dell’editoria italiana, ha difeso la sua scelta di invitare a una rassegna letteraria da lei curata un autore imputato di atti di violenza contro la propria compagna. In questo modo ha suscitato un’accesa ondata di polemiche di intellettuali e femministe, cui Valerio ha risposto rivendicando il «sacro principio» della presunzione di non colpevolezza garantito dalla Costituzione.

L’argomento, non frequentato molto dalle sue parti e dai suoi amici, ha suscitato altre polemiche, tra cui quella del professor Gianfranco Pellegrino, che si chiede su Domani: «Porsi il dubbio che la cosa non sia opportuna è una condanna preventiva, che tradisce i principi del garantismo e dello stato di diritto? Lo è soltanto se tutte le sfumature della moralità si riducono al diritto e non c’è senso di opportunità morale fuori dal diritto. Che è l’idea che gli antigiustizialisti, purtroppo, condividono con i giustizialisti».

Pellegrino riduce il garantismo a una forma di ipocrisia, un vecchio tic che – sia detto senza offesa – contraddistingue i sinceri forcaioli di destra e sinistra, pronti a invocare le garanzie costituzionali solo quando si tratta di difendere se stessi o i propri cari. In realtà, in ragione dell’ostilità e della scarsa frequentazione della materia, incorrono in un evidente fraintendimento.

L’art. 27 della Costituzione, invocato a sproposito, stabilisce un principio di natura processuale e non sostanziale. Non conferisce patenti di immacolatezza ma soltanto la giusta garanzia anche al peggior criminale, al reo confesso del più immondo delitto, che egli sarà processato senza pregiudizio e con tutti i diritti che spettano a qualsiasi cittadino. Nulla di più o di meno.

Sfugge a Valerio, e in genere a quelli che il garantismo non lo conoscono, che il garantismo non è una categoria etica ma – come scrive uno dei suoi più grandi teorici, Luigi Ferrajoli – una tecnica di interpretazione delle leggi in chiave di rispetto del principio di legalità. Solo degli inveterati khomeinisti e fondamentalisti del pensiero politicamente corretto possono incorrere nel paradossale e pericoloso abbaglio di farne un principio di pura etica.

Venendo al caso Caffo, ciò che dovrebbe interessare in una rassegna editoriale è il valore di un’opera e la validità di discutere delle idee che contiene. Louis-Ferdinand Céline e Ernst Jünger non sono grandi autori di cui dibattere nonostante le loro simpatie di estrema destra? Non sono venerabili maestri Ernest Hemingway, Francis Scott Fitzgerald, Norman Mailer nonostante gli eccessi violenti e machisti di cui si sono macchiati? Woody Allen e Roman Polański sono meno geniali e venerabili per i trascorsi coniugali e sentimentali? Bisognerebbe avere il coraggio di dire che nell’arte la dimensione penale non può interessare, essa attiene al mondo della giustizia, delle leggi, dei tribunali.

L’arte è libera, ha canoni diversi, e l’unica forma di garantismo è la tutela della libertà di pensiero. Per il resto, se “la morte si sconta vivendo” delle pene di vita, come di quelle inflitte dalla giustizia, bisognerebbe avere rispetto.