(28/7/23) Il western è un genere che ho sempre amato (L’uomo che uccise Liberty Valance, di John Ford, 1962, è il mio film preferito) per cui quando vidi il film Sicario (2015) di Denis Villeneuve, mi annotai il nome dello sceneggiatore, Taylor Sheridan. E’ un cowboy texano nato nel 1970, in passato pittore, poi attore ma soprattutto regista e sceneggiatore dotato di uno stile unico e irripetibile, con cui ha fatto ciò che pareva impossibile: salvare il western.
“Grazie a lui, la Frontiera è tornata e lo ha fatto in modo unico, nuovo, spaziando per ambientazione, stile, narrativa e personaggi, parlandoci del passato ma anche del presente dell’America, quella dell’Ovest, dove ancora si onora la “libertà” nel senso più anarchico e personale. La frontiera è quella parte di America ancora incollata ai grandi spazi, all’individualismo come condizione esistenziale. Per Sheridan non esiste un prima o un dopo, non esiste un reale cambiamento, lui racconta quell’immobilità che si maschera con quel falso cambiamento di cui già Tommasi di Lampedusa scrisse ne “il Gattopardo”. (Giulio Zoppello).
Se la sua famiglia all’inizio degli anni ’90 non avesse perso il ranch in cui era cresciuto, ha sempre detto che probabilmente quella sarebbe stata la sua vita. Il canale Paramount + è ormai il suo regno, dove si possono trovare le sue Serie, in cui varie linee narrative gli consentono di dare profondità e identità ai suoi personaggi, immersi in paesaggi che parlano da soli. La natura e gli uomini, ecco cosa gli interessa raccontare, fuori da ogni retorica, da ogni buonismo, e senza alcun autocompiacimento stilistico.
Il suo biglietto da visita fu Vile (2011) un horror survival che fu accolto in modo fin troppo severo. Quattro amici vengono rapiti da un pazzo e rinchiusi in una casa con altre sei persone. Già lì Sheridan mostrava la sua visione di una natura dominante e neutrale, sorta di contenitore per un’umanità disperata e feroce.
Come è successo a me, gli addetti ai lavori lo hanno conosciuto nel 2015 attraverso la sceneggiatura di Sicario, “senza ombra di dubbio uno dei thriller più raffinati degli ultimi decenni, un film sui Narcos come non se ne erano mai visti: cupo, presago di morte, privo soprattutto di un’innocenza di comodo, che non interessa a nessuno dei protagonisti perché a lui, Taylor Sheridan non interessa mai” (Zoppello).
Sicario è la prima sceneggiatura di una trilogia da lui scritta e che affronta il tema della moderna frontiera americana, seguita da Hell’s or High Water (2016) del britannico David Mackenzie, mix tra heist e road movie privo di ogni speranza e di ogni pietà. Elementi che poi avrebbe ripreso nella sua prima opera da regista (2017): il bellissimo I segreti di Wind River con Jeremy Renner. Un crime ambientato tra i paesaggi ostili del Wyoming, con viste infinite di neve, ghiaccio e montagne imponenti circondate da boschi scuri. “Lasciò tutti letteralmente di stucco, per la sua capacità di recuperare il western crepuscolare e unirlo al thriller, così come al cinema civile, illuminando la terribile condizione dei nativi con una luce spettrale e desolata”. Proprio con quest’ultimo ottenne la sua prima candidatura agli Oscar per la migliore sceneggiatura originale
Nel 2018 ha creato la serie televisiva Yellonstone (giunta ora alla V stagione), che segue le vicende della famiglia Dutton, proprietaria di un ranch nel Montana, con protagonista Kevin Costner. Poi cominciò una collaborazione con il regista italiano Stefano Sollima che lo portò a scrivere la sceneggiatura di Soldado, che è il seguito di Sicario.
Nel 2020 la sceneggiatura scritta con Will Staples per l’action Senza Rimorso (2020), tratto dall’omonimo romanzo di Tom Clancy, era assolutamente perfetta. Infine, con due prequel di Yellowstone : 1883, una miniserie televisiva del 2021; e la sua attesissima 1923 (uscita nel 2022) con Harrison Ford e Helen Mirren, ha confermato di essere ispirato. Nel 2022 ha anche creato per Paramount la serie televisiva Tulsa King con protagonista Sylvester Stallone. E mentre scrivo sta uscendo Operazione Speciale: Lioness la serie con Nicole Kidman e Zoe Saldaña.
L’Ovest di Taylor Sheridan è dunque un mondo totalmente realista ma non privo di poesia per chi la sa trovare, in cui il male o il bene sono un punto di vista, in cui nessuno è innocente o puro, una giungla dove però contano soprattutto le relazioni e reazioni umane. In Sicario Benicio del Toro persegue la sua vendetta senza alcuna pietà, continua a farlo in Soldado, in Hell’s or High Water i fratelli Howard non si fanno scrupolo ad uccidere o rapinare, Jeremy Renner in Wind River giustizia sommariamente il responsabile di uno stupro.
A molti è parso che Sheridan in un certo senso apprezzasse la legge del taglione, ma “ciò che fa in realtà è solo mostrare perché una certa fetta di America ci creda”.
Nel suo mondo, lo spiega bene Harrison Ford (Jacob Dutton in “1923”), non esiste altro che la legge del più forte, dal momento che la cultura è muscolare e machista, individualista al massimo. Il John Dutton di Yellowstone (Kevin Costner) è insomma uno Shogun con diritto di vita o di morte su chi vi abita al suo interno.
Ma detto ciò, Sheridan impressiona (almeno questo per me è la sua qualità più apprezzabile) per i personaggi femminili che crea, tanto più forti e tenaci dal momento che sono chiamati a fare continuamente i conti con un mondo machista, arretrato, violento e conservatore. Aspettare a casa i mandriani che si perdono per settimane e mesi in montagna dietro al bestiame presuppone un carattere che l’amore non ti regala gratis. In Wind River Elizabeth Olsen era costretta a fare i conti soprattutto con questo problema, così come accadeva alle donne nella narrazione disperata dell’Ovest selvaggio vista nella serie 1883. Non è andata meglio ad Angelina Jolie in Quelli che mi vogliono morto, vigilessa del fuoco costretta a vedersela con spietati killer nel selvaggio Montana. La Beth Dutton (Kelly Reilly) di Yellonstone affianca femminilità e spietatezza e rappresenta il personaggio più contraddittorio che il texano sia riuscito a scrivere. Vendicativa, violenta, sboccata, fragile, coraggiosa ed appassionata, Beth Dutton non lascia nessuno indifferente, ama e odia fin quasi all’autodistruzione, e perciò ha diviso il pubblico per la sua innegabile caratteristica di non avere vie di mezzo né filtri. La narrativa di Sheridan è vero (Beth lo dimostra al meglio) che sia basata su un realismo spiazzante, ma si tratta pur sempre di un drammaturgo che ha approfondito sia Omero che Shakespeare, e quindi riesce a parlarci dell’universo familiare con i suoi tradimenti, inganni, vendette e faide. Il suo realismo è evidente dal momento che “i suoi personaggi sono sempre travolti dalla sorte e costretti a fare i conti con un mondo dove la morte e la vita possono arrivare con la stessa indifferenza, secondo regole che vanno accettate senza discutere, anche perché farlo sarebbe inutile”.
Sheridan intende soltanto trasportare lo spettatore in un determinato luogo e momento: “trasportarci in ciò che era vivere a quel tempo, non in ciò che pensiamo o speriamo sia stato“. Ciò riguarda il linguaggio, i valori, la quotidianità delle relazioni umane che si costruiscono in quei grandi spazi, dove il pericolo è l’innovazione, rispetto alla tradizione e all’immobilità.
Oltre a questo, il mondo che Taylor Sheridan ci ha presentato sul piccolo e grande schermo è un capolavoro di ambiguità morale, dal momento che per lui l’America, ieri come oggi, persegue un ideale di giustizia totalmente personale, egoista eppure per qualche strana ragione universale nella sua applicazione. Il che paradossalmente rovescia l’assunto Fordiano dell’uomo con la Colt che raddrizza i torti del mondo, guardando da quella finestra dove vedeva il futuro. Conta l’agire e basta, il pensiero è bandito da questa terra, si può trovare solo nei ritagli di tempo, solo quando si è abbastanza al sicuro.
Il western quindi per Sheridan è di base il vero volto dell’America, quella profonda, quella che si manifesta dall’alba dei tempi, che si ripete ininterrottamente rinnovando semplicemente il suo volto: ieri erano i cavalli e le colt, oggi sono i guru tecnologici e i social.
Lui ci mostra quella parte di America che il cinema e la televisione mainstream hanno sempre messo in disparte, per abbracciare la modernità galoppante sulle coste. Eppure è lì che si preserva lo spirito insaziabile, indomabile e chiuso di un mondo in cui conta semplicemente la forza, di qualsiasi tipo essa sia.