L’ultimo contatto risale a pochi giorni fa. Giorgia Meloni, riferiscono fonti qualificate dell’esecutivo, telefona a Mario Draghi. Gli spiega che non è lui il vero bersaglio dell’esecutivo, semmai un certo strabismo dell’Europa sul Pnrr, ostile ai sovranisti e assai meno rigida con l’esecutivo precedente. Prova a sedare un fastidio, quello dell’ex banchiere, sempre più marcato. Che fatica a restare negli argini, come si intuisce ricostruendo un episodio accaduto una decina di giorni fa e che vale la pena riferire.
L’antefatto, dunque. Attorno alla metà del mese, il professore della Bocconi Francesco Giavazzi riceve una chiamata dalla trasmissione Mezz’ora in più. Lo invitano a partecipare alla puntata di domenica 26 marzo. L’ex consigliere economico di Mario Draghi si riserva qualche ora per decidere. Nel frattempo, sente proprio Draghi, l’amico di una vita. Sa che in tv gli chiederanno delle accuse all’ex banchiere centrale mosse dall’esecutivo di Giorgia Meloni sul Pnrr. È consapevole che tutti leggeranno le sue parole come il sentimento dell’ex premier, la proiezione pubblica di una profonda irritazione privata.
Si consulta, allora. E accetta, già prevedendo quello che molti sanno: di lì a poco, la Commissione ufficializzerà l’ultimatum di un mese sulla terza tranche di finanziamenti all’Italia. Da ospite di Lucia Annunziata, Giavazzi sfodera toni soft e concetti sostanzialmente bruschi. E così, quando gli chiedono della promessa meloniana di un’operazione verità per denunciare i ritardi frutto dell’era Draghi, il professore replica: «Chi dice oggi che il Piano è in ritardo non capisce come funziona». Pensa ai ministri dell’attuale esecutivo. Pensa alla premier.
Non sono parole spese a caso. Della linea da tenere, d’altra parte, ha discusso con Draghi. Evita affondi diretti, ma prende le distanze dal presente. «Non si potevano spendere immediatamente 190 miliardi, bisognava preparare l’assetto normativo. Ora bisogna essere pronti. E il ministro Fitto comincerà ad attuare le cose». Il messaggio a Palazzo Chigi è secco: abbiamo lasciato le cose in ordine, ognuno si assuma le proprie responsabilità. Meloni risponda delle proprie. E si confronti con la riuscita o il fallimento della propria missione: «La montagna di soldi del Pnrr aiuterà il Paese, vale 12 punti del Pil in quattro anni. Difficile immaginare che nel 2023 si possa dunque fermare la crescita». Pausa. «A meno che non riusciremo a spendere questi soldi, nel qual caso torneremmo indietro. Ma spenderli è un nostro interesse, non c’entra Bruxelles».
Proprio dell’apparizione di Giavazzi si inizia a discutere nelle ore successive ai vertici del governo. Tutti, soprattutto nella strettissima cerchia di potere che circonda Meloni, interpretano l’apparizione come lo specchio di un fastidio profondo di Draghi. Il quale, intanto, non appare ad eventi pubblici (ieri è stato visto, da solo, consegnare abiti e oggetti usati nel punto di raccolta di Sant’Egidio), né interviene pubblicamente per ribattere ai sovranisti (non ancora, almeno, così temono ai piani alti dell’esecutivo). E questo perché conosce il peso delle sue parole, oltreconfine e sui mercati. Resta però il fatto che non gradisce il ping pong di accuse: l’ultima, in ordine di tempo, è arrivata ieri da Salvini.
Non è soltanto un problema di fair play. È la natura degli attacchi, spesso scomposti. La cui intensità è aumentata negli ultimi giorni, in concomitanza con l’esplosione del caso Pnrr a Bruxelles e il rinvio della decisione europea sulla terza tranche. E siamo a qualche giorno fa. La tensione sale talmente tanto che Meloni – secondo fonti incrociate consultate nell’esecutivo – decide di alzare il telefono per chiamare il predecessore. Contestualizza, spiega, giustifica la linea politica con ragionamenti di questo tenore: non sono attacchi rivolti a te, ma il tentativo di far intendere che l’Europa sta adottando nei nostri confronti un atteggiamento improvvisamente più rigido. Un approccio troppo puntiglioso di Bruxelles, che non si accontenta dei chiarimenti e chiede sempre nuovi approfondimenti. Si sente vittima degli arbitri del Pnrr, assai più severi con il suo governo rispetto a quello precedente. È (di nuovo) sindrome dell’assedio, che si alimenta pure di alcuni passaggi degli ultimi giorni: l’invito del Colle a muoversi con solerzia sul Piano, la parziale bocciatura della Commissione, la fragorosa sconfitta al Consiglio europeo sul dossier dei biocarburanti.
Ma c’è dell’altro. C’è la convinzione che la situazione non potrà che peggiorare. Il timore è concentrato sulla rata di giugno 2023, ma soprattutto su quella di dicembre 2023. Si temono nuovi, pesanti ritardi. A quel punto l’esecutivo dovrà scegliere come muoversi, chi accusare, quanto tirare in causa (ancora) l’ex banchiere. «Io so solo che Draghi ha lasciato le cose in ordine – sostiene Bruno Tabacci, sottosegretario a Palazzo Chigi con l’ex banchiere – Ha promosso una transizione leale e ordinata. E loro adesso lo tirano in ballo. Difficile succeda, ma se Draghi dovesse seccarsi per davvero, ne vedremmo delle belle…».