La Superlega è la risposta alle colpe dell’Uefa

La Superlega passa, i problemi restano. Saprà  l’Uefa riflettere almeno sul malessere che ha portato 12 club europei a tentare la fuga?  Non si può negare un’evidenza: la “sporca dozzina” dei club scissionisti nel 2019 ha prodotto 6,5 miliardi di ricavi, un terzo dell’intero fatturato del calcio europeo. Soldi che poi scendono giù arrivando anche ai club minori quando vendono i calciatori e incassano i diritti tv.

I top club non si sono indebitati solo per cattiva gestione.

È in primo luogo la struttura degli incentivi congegnata dall’Uefa a richiedere investimenti sempre maggiori per allestire rose competitive, entrare in Champions (prendendo così una fetta più grande dei diritti Uefa), attrarre più ricavi commerciali avendo maggiori risorse da investire in rose ancora più competitive. Su cosa si reggeva questo circolo vizioso, prima della pandemia? Sulla crescita continua dei valori alimentata dall’allargamento incessante del mercato calcistico.

Insomma, la tavola imbandita è diventata sempre più ricca soprattutto per il richiamo dei club maggiori, indebitatisi per acquistare i campioni.

Diversi club di seconda fascia (un nome per tutti, Cairo presidente del Torino) oggi scandalizzati per quello che consideravano un golpe (comunicato nella maniera peggiore possibile) non sembrano altrettanto virtuosi nella gestione finanziaria. Qualcuno lo è, ma non starebbe ugualmente in piedi senza gli utili del mercato, alimentati dalle big.

Il calcio è un ecosistema in cui una parte minoritaria produce la fetta maggiore dei ricavi e in cui 5 campionati producono il triplo di tutti gli altri paesi. La Juve incassava 70 milioni tra biglietti e abbonamenti, introito oggi cancellato dalla chiusura degli stadi, cioè 10-15 volte l’incasso al botteghino di un medio club di Serie A. Piaccia o no, i suoi tifosi contribuiscono al flusso di risorse che alimenta la macchina, molto più dei tifosi di altre squadre. Il valore dei diritti della Serie A si deve soprattutto al richiamo dei tre club oggi nel mirino delle critiche.

Dal 1992 l’Uefa raccoglie da sola i proventi della Champions (il cui richiamo si deve soprattutto a chi investe nei campioni), poi li distribuisce con criteri in parte geopolitici (per ottenere il consenso delle federazioni minori, dato che un voto vale uno), in parte meritocratici.

Ha così creato un incentivo fortissimo a vincere, perché entrare in Champions cambia il budget di una stagione.

Ha imposto il pugno di ferro col Fair Play Finanziario, fissando il dogma del bilancio in pareggio e così favorendo i club col fatturato più alto. I soliti noti, i primi della fila. Li ha protetti, perché col FFP non si può spendere senza incassare, quindi un azionista non può investire se prima non ha i ricavi. Ma come può averli i ricavi senza una squadra competitiva, senza campioni? Qualcuno (Psg, Manchester City) ha eluso le norme, allestendo rose miliardarie, inflazionando prezzi e stipendi dei giocatori, costringendo gli altri a indebitarsi. 

La responsabile della situazione negli ultimi 15 anni è quindi l’Uefa. Ha consentito che i primi 10 club europei fatturino più di tutti i 600 club sommati che giocano al di fuori dei 5 grandi campionati europei. Questa Champions ha creato e alimentato  il divario economico tra le big e le piccole, tra i migliori campionati e gli altri. Ha creato dei mostri che fatturano 1 miliardo l’anno ed è stato inevitabile che arrivati a contare quanto o più dell’Uefa stessa abbiano pensato di liberarsene. Anche se piace pensare che il calcio sia della gente la realtà è che lo scisma è stato contrastato da Boris Johnson con minacce e ritorsioni politiche nei confronti delle attività imprenditoriali extra-calcio delle proprietà delle 12 squadre di calcio. Il calcio ha una funzione sociale o è business? Se è business allora deve sottostare alle regole del mercato.

Nel lungo periodo un imprenditore con potere di spesa 100 prevarrà quasi sempre su quello con potere di spesa 1. In Olanda negli ultimi 30 anni per 25 volte hanno vinto i club con più soldi, Aiax e Psv. In Francia il Psg ha vinto 7 degli ultimi 8 campionati e prima il Lione ne aveva vinti 7 consecutivi. In Germania il Bayern Monaco ha vinto 8 campionati di fila e sta per vincere il nono, come in Italia ha fatto la Juve. In Spagna negli ultimi 37 campionati hanno vinto Barca o Real per 31 volte. Questa la vogliamo chiamare “meritocrazia”?

Chi investe 100 ha più possibilità di vincere, ma anche un rischio d’impresa 100 volte superiore se le sue entrate dipenderanno in gran parte da un risultato sportivo da conseguire e non solo dalla capacità di fatturare. Un’annata sfortunata (magari per la assurda regola dei goal che valgono doppio in trasferta) ti fa rischiare un default economico. Può essere il bello dello sport ma ciò non toglie che un imprenditore non sarebbe serio se non tentasse di limitare tali rischi, come fa un imprenditore agricolo che si assicura contro le intemperie. Prendiamo la riforma della Champions League partorita dal cattivo di 007, Ceferin: 36 squadre. E’ semplicemente il contrario di quello che occorre per aumentare lo spettacolo: far giocare meno partite. I grandi giocatori creano lo spettacolo e lo possono fare se hanno meno infortuni perchè giocano meno, e non di più. Insomma, se lo spettatore è ormai globale e vive in tutto il mondo (non è solo il tifoso della squadra di casa) è chiaro che vuole lo spettacolo e lo spettacolo lo forniscono i grandi giocatori impegnati in partite di cartello. Per tutelare i fuoriclasse occorre farli giocare di meno, non di più contro squadrette e squadroni.

Infine uno sguardo al cortile di casa. La Premier League vale nel triennio 2019-22 5,5 miliardi di euro, la serie A circa 900 milioni. Capire le ragioni di tale divario significa capire la pochezza del calcio italiano lasciato nelle mani dei Lotito, Preziosi, De Laurentiis