Popolo (con Ceferin) contro elite. Ha vinto il popolo? No, hanno vinto ancora i negazionisti e ci fanno pure la morale dicendosi meritocratici. Negano che siamo di fronte al fallimento del calcio europeo, la cui organizzazione politica e regolatoria (l’Uefa di Ceferin) finisce per dissipare risorse, non valorizzando un pubblico globale praticamente senza uguali e continuando, in nome della “solidarietà”, del “merito” e del sogno dello scudetto al Crotone, a fare dei campionati nazionali in Europa una questione privata dove vincono sempre e solo gli stessi, i top club.
Anche davanti alla proposta della Super Lega è stato riproposto lo schema populista-demagogico oggi vincente in politica (Boris Johnson docet). “Locale” contro “globale”, “piccolo” è bello, “grande” è brutto. “Dobbiamo tenerci il calcio che c’è, anche se ormai destinato al fallimento imprenditoriale e sociale, per la stessa ragione per cui dobbiamo salvare per l’ennesima volta Alitalia, per farla fallire e salvarla di nuovo, come se questo fallimento descrivesse il destino cinico e baro di una società sana, vittima di un complotto plutocratico globale e la negazione della realtà fosse la soluzione eroica e moralmente obbligata a questa sfida”.
La narrazione vincente di queste ore è stata la seguente: 12 club, schiacciati dai debiti, cercano il modo di salvare bilanci traballanti grazie a una banca USA, garantita dalla prospettiva di un torneo riservato nel quale spartirsi le risorse tra pochi eletti.
Il tempo è sempre galantuomo, vedremo in seguito se i debiti ce l’hanno solo le 12 squadre della SL. Vedremo se gli unici disperati in fallimento sono Perez e Agnelli mentre i top manager di successo sono i Cairo, Lotito, De Laurentiis. Vedremo se sarà così.
Per adesso è necessario capire il pianeta calcio, dove convivono
i top-club con brand globale (Real, Barcellona, United, Liverpool, Bayern) ;
i club tradizionali che chiamerò del “calcio romantico” (es. Atalanta).
Le esigenze dei top club che hanno globalizzato l’immagine nell’ultimo decennio sono molto diverse da quelle dei club tradizionali.
Fa eccezione l’Italia dove le squadre sono ancora il giocattolo del miliardario tifoso. Solo la Juve, con l’operazione Ronaldo ha tentato l’inseguimento ai top globali partendo però da una distanza siderale.
Ora vediamo i top club come si finanziano. Lo fanno attraverso quattro modalità: 1) Il core business produce ricavi tipici (match day, diritti tv, sponsor, merchandising) contro costi ricorrenti, soprattutto per i costi delle rose. 2) Poi c’è il player trading: produrre utili (le plusvalenze) sul mercato dei giocatori. 3) Poi c’è la formazione di giovani calciatori, dalle scuole calcio alle giovanili, fino a portarli in prima squadra trasformandone il capitale, da umano a finanziario. 4) Infine, il business alimentato dalla tecnologia digitale (applicazioni e social network) attraverso lo smartphone, canale ormai preferito dai millennial al televisore, con cui creare vaste comunità virtuali di tifosi. A essi il club vende contenuti mirati a cementare l’appartenenza di persone sparse in ogni angolo del mondo per poi profilarle coinvolgendole in un percorso di identificazione.
Più il brand è globale, più robusta è la produzione di ricavi commerciali. La Superlega è appunto un modello che può valorizzare gli investimenti delle grandi. Ora e chiaro che chi è più forte nella produzione di ricavi su scala planetaria avendo brand e bacino di tifosi-clienti (i top-club), ha esigenze diverse rispetto alle squadre nazionali che fanno soldi vendendo ai primi l’ingrediente principale dello spettacolo: il talento dei calciatori. La Juve è in mezzo al guado, perchè ha tentato di entrare nella élite con investimenti clamorosi (Ronaldo) senza il bacino di mercato dei super club e dovendo perciò inventarsi un modello ibrido che puntava a coprire le perdite del core business con enormi plusvalenze (da Pogba in giù).
Per capire meglio il contesto, prendiamo l’Atalanta, diventata emblema del calcio che ho chiamato romantico. Ha venduto negli anni a Milan-Inter-Juve 12 giocatori (200 milioni complessivi) e al Manchester United un diciottenne con 4 presenze (un’operazione da 40 milioni) finanziando così un modello assai virtuoso ma che richiede un mercato di sbocco. Cosa permette allo United di pagare 40 milioni all’Atalanta per un diciottenne? La capacità di generare ricavi su scala mondiale, vendere magliette, reclutare sponsor, valorizzare diritti televisivi, sfruttare una community planetaria. Capacità che l’Atalanta (bellissima sul campo) non può avere.
Da questo schema si capisce che tutte le Atalanta e i Cairo, Lotito & C. hanno bisogno degli “avidi mercanti”, i poveri hanno bisogno dei ricchi disposti a spendere, sennò a chi li vendono i calciatori, ad un’asta di beneficenza?
E adesso veniamo all’UEFA, un regolatore-burocrate che tenta di tenere assieme tutte le squadre pur con tali esigenze contrastanti. Rappresenta una struttura che tende a perpetuare se stessa mediando e sfruttando una rendita di posizione. La sua politica consiste nell’ accontentare i grandi ma, intanto, distribuire ai piccoli. Un colpo alla botte e uno al cerchio, per ottenere consenso, di cui la nuova cervellotica Champions a 36 squadre è il simbolo.
Le grandi vogliono più big match (quindi più ricavi), la Uefa propone più partite con le piccole (quindi più costi, meno ricavi): su queste basi, un patto non può reggere.
Ceferin non ha aumentato i ricavi , che ha mantenuto centralizzati, ma non ha neanche accettato la richiesta di abbattere le spese concordando (o imponendo) ai calciatori un decurtamento del 30% dei guadagni per fronteggiare l’emergenza Covid. Ciò ha costretto i principali investitori del calcio a cercare una soluzione alternativa bruciando le tappe.
Prendiamo il Fair Play Finanziario (FFP) e il dogma del pareggio di bilancio. Fu il modo scelto dall’Uefa per difendere i super club dall’attacco di nuovi concorrenti. Una barriera allo sbarco di miliardari arabi, russi e cinesi che compravano club per investirvi centinaia di milioni, una barriera all’interesse di investitori finanziari (e/o criminali).
Solo che nella furia di proteggere il calcio dagli investitori (più che dai concorrenti) l’Uefa ha brandito il FFP sui deboli mentre rispettava i forti, non impedendo così al Chelsea di Abramovic, al PSG del Qatar e al City dello sceicco Mansour di spendere senza limiti. E’ chiaro che non si potevano escludere Neymar, Mbappé, De Bruyne dalla Champions, il danno lo avrebbe subìto la manifestazione e il calcio tutto.
Il Covid ha fatto il resto, dimostrando impossibile imporre a un’industry il pareggio del bilancio quando i ricavi evaporano e contratti blindati con i calciatori ingessano i costi. Insieme al FFP è saltato il patto, non scritto, con cui l’Uefa garantiva i top club tenendoli nel recinto dell’associazione e frenandone le pulsioni scissioniste. E’ saltato perché i club hanno brand da valorizzare, con investimenti che oggi possono fruttare solo concentrando l’attenzione degli spettatori e intercettandone il valore. Se un calciatore gioca 50 partite, la sua produttività aumenta se allarghi il pubblico che le guarda, se il pubblico è mondiale e non solo europeo, perciò un Liverpool-Real Madrid attirerà sempre più di un match tra provinciali. L’Uefa è organizzazione politica, tenta di accontentare tutti ma innanzitutto si riserva il primo boccone della torta. Come i partiti che si sono dati il finanziamento pubblico proclamandosi essenziali per la democrazia.
Per venire infine alla situazione italiana, è ancora più semplice capire quanto le squadre medio-piccole condizionino l’intero sistema costringendo le squadre con più tifosi a dover sempre fare beneficenza. Essendo i diritti tv pari al 50-60% dei ricavi di ogni società di Serie A, è evidente che già da tempo le squadre di serie A avrebbero dovuto formare congiuntamente una loro azienda affidandola ad un grande manager per massimizzare i profitti di tutti. Modello Nba. Invece no, da decenni stiamo assistendo alla incredibile delega collettiva della contrattazione dei diritti tv ad un advisor. Da poco è scomparso Marco Bogarelli, per molti anni con Infront (insieme con il suo amico-socio Adriano Galliani) il vero dominus di tutte le operazioni sino a diventare il vero ma nascosto padrone della baracca. Da Matarrese da Bari sino a Gravina di oggi passando per Tavecchio la Fgci si affida a personaggi pittoreschi che oggi con gli stadi chiusi semplicemente non sanno a che santo votarsi. Sono queste figure, l’esatto contrario di manager affidabili e competenti, che rappresentano da sempre il calcio italiano. Rispetto ad un manager vero, Andrea Agnelli, che non a caso ha vinto 9 scudetti di fila (record che i posteri giudicheranno) in Italia, queste figurine politiche hanno vinto il primo tempo di una partita che finirà con uno squallido 0 a 0: il fallimento di tutti. In Italia, così fan tutti, per non fallire vedrete chiederanno altri sostegni alla politica (che già con una fiscalità di vantaggio ha consentito l’ingaggio dei Ronaldo e Lukaku).