FUBINI E RICOLFI: ECCO LA REALTA’

(FEDERICO FUBINI) Il problema è che i politici hanno chiesto il voto su un programma che costa fra 108 e 125 miliardi di euro, secondo l’Osservatorio sui conti pubblici di Carlo Cottarelli, e ora non sanno come mantenere. Rischiano di dover scegliere tra perdere la faccia e destabilizzare finanziariamente il Paese. Le frasi in libertà loro e dei loro alleati hanno già portato un aumento dello spread che nel 2019 costerà appunto quattro miliardi agli italiani, oltre a un’incertezza che frena consumi e investimenti. I maggiori oneri da interessi e la minore crescita attesa (di cui solo in parte ha colpa la politica italiana) hanno già spostato la rotta a cui tende il deficit pubblico per l’anno prossimo dall’1,6% al 2,4% del Pil. Prima ancora di fare i conti con le promesse elettorali. La via di fuga abituale in questi casi è quella che vediamo già: dare la colpa al «nemico esterno», una congiura congiunta fra Europa e mercati finanziari. Persino una voce raziocinante come quella del leghista Giancarlo Giorgetti vi dà spago. Ma si tratta di un’altra fantasia ed è facile capire perché. Oggi chi investe centomila euro in Btp a dieci anni incasserebbe entro il 2028 12.800 euro in più che se investisse in analoghi titoli di Lisbona, 16.700 euro in più che se investisse in titoli di Madrid, 28.100 euro in più che se investisse in Bund tedeschi. Se i risparmiatori o i gestori professionali rinunciano a queste opportunità non è per un’autolesionistica «congiura», ma perché non giudicano credibili i piani dell’Italia dunque non si fidano.

(LUCA RICOLFI) Ecco perché la prudenza del ministro Tria potrebbe non bastare. L’esperienza del passato dovrebbe aver insegnato che il destino di un paese dipende molto di più dalla sua capacità di rassicurare i mercati che dalla sua capacità di ingraziarsi le autorità europee. E’ già successo nel 2011, quando la manovra Tremonti ricevette le lodi dell’Europa e due settimane dopo venne fatta a pezzi dai mercati. Potrebbe risuccedere nei prossimi mesi, se agli investitori l’Italia cominciasse a sembrare un mercato ancora meno appetibile di quanto appare oggi.
Oggi questo è il vero pericolo, per il nostro paese. Un pericolo rispetto al quale le forze politiche avrebbero il dovere di vigilare, senza guardare al proprio piccolo tornaconto elettorale. Vale per chi ci governa, ma vale anche per l’opposizione. Perché anche su questo, sul rischio di un’impennata dello spread, la continuità è impressionante. Contrariamente a quel che molti credono, il deterioramento dei differenziali fra l’Italia e gli altri paesi dell’euro, in particolare Spagna, Portogallo e Grecia, non è iniziato il 4 marzo, ma oltre un anno prima, più o meno in concomitanza con la sconfitta referendaria e il passaggio del testimone da Renzi a Gentiloni.
Ancora un segno di continuità, o forse il vero tratto distintivo, il marchio di fabbrica, del ceto politico degli ultimi cinquant’anni: diviso su tutto ma, con pochissime eccezioni, assolutamente unito nella scelta di non contrastare la crescita del debito pubblico.