Pensare che l’ultima offensiva diplomatica concordata tra europei e americani possa far capire a Trump chi è davvero Putin, visto il suo rifiuto di sedersi al tavolo, mi pare decisamente ingenuo (per ragioni che spiego più estesamente qui sotto). Tuttavia sarebbe già molto se questo triste spettacolo servisse almeno a far capire a qualche italiano chi è Giuseppe Conte, visto il modo in cui si è subito affannato a difendere preventivamente il comportamento del presidente russo.
Decodificare il delirio
Cosa è rumore e cosa segnale nel grande caos trumpiano
La prematura sfioritura del grande vertice di Istanbul tra Volodymyr Zelensky e Vladimir Putin, cui pareva sul punto di aggregarsi lo stesso Donald Trump dopo la sua ultima – apparente, parziale, provvisoria – svolta a favore dell’Ucraina, così come le amare sorprese riservate dal presidente americano a Benjamin Netanyahu con le sue ultime mosse in Medio Oriente, ripropongono un problema annoso e forse irrisolvibile, che toglie il sonno a chiunque debba avere a che fare con la Casa Bianca (fosse anche solo come analista o commentatore).
Non è infatti per niente facile distinguere, come suol dirsi, il rumore dal segnale, in quell’immenso vortice di atrocità e amenità varie in cui Trump ha trasformato il dibattito pubblico e la politica mondiale. Capire cioè cosa sia tattica e cosa sia strategia, ammesso e non concesso che una strategia esista. Il dubbio, a dispetto degli sforzi di tanti zelanti esegeti, è che in tanta follia non vi sia alcun metodo. In compenso, ci sono alcune costanti.
Il leader populista non si limita a mentire (come fanno tutti): accusa i nemici di fare quello che in realtà ha fatto solo lui
La prima è che, come tutti i populisti, Trump non si limita a mentire, non dice semplicemente qualcosa di non vero: dice proprio l’esatto contrario della verità. Accusa sistematicamente i suoi avversari di qualcosa che loro non hanno mai fatto, ma lui sì, ripetutamente e voluttuosamente. Come è noto a tutti tranne che a Giorgia Meloni, unica leader democratica convinta del contrario, è stato Trump, non Joe Biden, a tentare in ogni modo di truccare i risultati elettorali del 2020: basta ascoltare la registrazione della famosa telefonata tra lui e il segretario di Stato della Georgia (peraltro del suo stesso partito), in cui l’allora presidente chiedeva di «trovargli» i voti che gli mancavano per superare Biden. Non per niente, due sono le accuse che ripete ossessivamente contro i suoi avversari: brogli e corruzione. E questa infatti è anche la seconda costante del suo operato, in Ucraina come in Medio Oriente: la ricerca spasmodica di un guadagno o comunque di un vantaggio personale, dal tentativo di ottenere da Zelensky la conferma delle deliranti accuse contro Biden nel 2019 (un’altra telefonata indimenticabile di cui si può leggere la trascrizione) alla macabra fantasia colonial-palazzinara nota come «Trump Gaza», fino all’ultimo viaggio politico-affaristico in Arabia Saudita che tanto ha preoccupato Israele. Insomma, che si tratti della scarsa considerazione mostrata verso Netanyahu con le sue ultime iniziative mediorientali o dell’ultimo apparente riavvicinamento a Zelensky e ai «volenterosi» europei sulla pace in Ucraina, temo non sia il caso di farsi troppe illusioni su possibili ripensamenti, illuminazioni o conversioni di Trump. La speranza che dopo l’ultimo rifiuto opposto da Mosca al tentativo negoziale di Istanbul il presidente americano possa avere finalmente capito chi è Putin, come se non lo avesse sempre saputo, e ammirato e invidiato proprio per questo, mi pare decisamente infondata. L’Europa farà assai meglio a concentrarsi su quello che può fare da sola, e su come rendersi capace di fare da sola sempre di più, invece di aggrapparsi a simili auspici.