«Mille e mille italiani spatriati emigrando a cercar lavoro», scriveva Riccardo Bacchelli nel suo capolavoro del 1938 Il mulino del Po, restituendo così il significato esatto del termine spatriati, in altre parole quelli che vanno via, che lasciano la propria terra nella ricerca disperata di un lavoro e di un posto nella società, ma non solo.
Nel libro “Spatriati” di Mario Desiati (Einaudi) vincitore dello Strega 2022, il termine spatriati, mutuato dal dialettale “spatrièt”, a Martina Franca, in Puglia, non indica soltanto gli emigrati. È anche un termine dispregiativo per parlare di chi non trova una sua collocazione, di chi ha perso l’orientamento, di chi è percepito come spaesato, inadeguato, sbagliato, mancato. I due protagonisti del romanzo, l’uno con la sua ostinazione a restare, l’altra con la sua necessità di partire e ripartire, rappresentano due scelte adattative contrapposte rispetto alla “restanza”, il concetto che l’antropologo calabrese Vito Teti ha saputo molto bene proporre nei suoi studi. Due risposte alternative nei confronti della coscienza di una distanza esistenziale dai luoghi d’origine e dai loro molteplici riferimenti.
In questa campagna elettorale lametina mi è parso che molti siano in giro gli spatriati, da non confondere con gli indifferenti o gli sciarpati, quelli che portano le sciarpe delle rispettive curve. Gli spatriati non andranno a votare (non è il mio caso) perchè lo ritengono inutile dal momento che ogni scelta lascia le cose come stanno, ed è inutile buttare sul tavolo una carta invece di un’altra se il gioco è truccato oppure non si vince niente come nei giochi dei bambini che ancora non sanno i numeri.
Preciso subito, per evitare malintesi, che non sto innalzando gli spatriati a categoria superiore, perchè non è così. Anche tra quelli che si impegnano in politica, che si sono candidati o andranno a votare consapevoli, ci sono per fortuna persone del tutto meritevoli di ogni considerazione, essendo io un contabile convinto che per ogni umano malvagio esiste sulla faccia della terra un altro buono. No, il tentativo è quello di descrivere, sia pure in maniera opinabile e personale, la situazione per come la osservo. A me pare che gli spatriati, quelli che (per fare un ultimo accenno al libro di Desiati) non sanno se andare a vivere altrove oppure fare i conti con il proprio altrove interiore a Lamezia, siano tanti, nel senso che andar via dal luogo di nascita, per qualsiasi ragione, ma soprattutto quando si è costretti per trovar lavoro, dunque per vivere, ti fa capire che non puoi mai sciogliere del tutto il legame con quei luoghi dai quali «non si può andar via senza graffi». Il posto in cui si è nati ti dà un’appartenenza che non si abbandona mai del tutto, dovunque vai a stare, ma nello stesso tempo si può provare un senso di straniamento rispetto a un’identità che non rintracci più.
Soltanto i conformisti si adattano, ma per i conformisti un posto vale l’altro, e in genere fanno discendere tutto ma proprio tutto dai soldi. Se hanno soldi vivono bene dappertutto. Poi ci sono quelli che capiscono che i soldi non sono tutto nella vita, ma solo una parte, e dunque ben presto capiscono come il luogo in cui si vive, paese o città che sia, sono personaggi veri e propri, tanto quanto gli uomini e le donne con i quali incrociamo le nostre vite. Allo stesso modo in cui ci danno fastidio e sono insopportabili colleghi di lavoro sporchi o cattivi, o disordinati, non sopportiamo città sporche o congestionate, caotiche o brutte. Le città ci devono piacere e infatti quando capitiamo in un posto che apprezziamo la prima cosa che diciamo è: qui ci vivrei volentieri. Non è un caso se la città nel mondo sempre in testa alle classifiche per la piacevolezza del vivere sia Vienna. In austriaco, la piacevolezza del vivere, con un’enfasi particolare sul senso di comfort, accoglienza e convivialità, si definisce con il termine “Gemütlichkeit“.
Ecco perchè gli spatriati di Lamezia vanno compresi. Sono ormai convinto da anni che un buon sindaco non possa, non avendo la bacchetta magica di Harry Potter, fornire occasioni di lavoro, o risolvere problemi nazionali o regionali, ma possa dedicarsi a far diventare la città che amministra più bella e dove sia più piacevole vivere. Ora notate che io uso un verbo, “amministra“, ormai cancellato dal vocabolario e che quindi nessun sindaco ama usare più. Si considerano e definiscono tutti politici e nessuno intende amministrare più. Fare l’amministratore per un sindaco ormai rappresenta una diminutio. Si sentono degradati, come se un generale diventasse un capitano. In Italia fare il sindaco è la prima tappa di un cursus honorum che porta in regione o al parlamento. Tutti si sentono in nuce politici più o meno grandi e nessuno intende amministrare un comune, pur avendo una sede, personale, risorse, bilanci. No, non sono certo dei ragionieri, gente che si studia le carte, i bilanci, le delibere. Loro sono maestri di “cerimonie”, vanno in giro per convegni, a portar saluti, presentare libri, tengono conferenze stampa, insomma parlano parlano e non amministrano. I dipendenti comunali senza guida e controllo fanno quello che vogliono e al povero cittadino finanche per avere una carta d’identità tocca trovare un amico che faccia da intermediario. Gli aspiranti consiglieri comunali poi vogliono esser eletti per sbrigare pratiche personali o dei loro amici, o puntare sul tavolo verde della politica l’entità dei voti che controllano. Insomma, ciascuno di noi, a qualsiasi età, è alle prese con il racconto della continua ricerca di sé stessi e di un luogo che sia casa.
Anche il Meridione, per gettare uno sguardo sopra Lamezia, non è solo un luogo geografico, che come tale può essere descritto, ma un complesso insieme di pregiudizi e convenzioni sociali che ancora oggi purtroppo ristagna e si propaga. Tra queste convenzioni sociali io inserisco a pieno titolo la fissazione per la Politica, che altro non è se non una sciarpa messa al collo da tanti faziosi che vivono dentro le loro tribù. Avremmo bisogno di buoni amministratori, non di politici politicanti, ma le curve urlano, fanno i cori, sventolano bandiere. Penso alla politica ripensando a quando Natalia Ginzburg scrive in “Caro Michele” che l’importante nella vita è camminare e allontanarsi dalle cose che fanno piangere.