Segnalo soltanto due delle decine di cose incredibili dette da Donald Trump ieri a “Meet the Press”, storica trasmissione giornalistica della Nbc, un fior da fiore dei primi cento giorni di mandato trascorsi a telecamere accese perché, come cantava nel 1971 Gil Scott-Heron, «la rivoluzione non sarà trasmessa in televisione» e non può essere una replica come altre: l’autocrazia trumpiana ha bisogno di essere vissuta dal vivo, in tempo reale, ventiquattr’ore su ventiquattro.
La giornalista di “Meet the Press” ha chiesto a Trump se tutti coloro che si trovano negli Stati Uniti, cittadini o no, hanno diritto a un giusto processo. Trump ha risposto: «Non lo so, non sono un avvocato». Trattandosi di banale educazione civica, e non di raffinati concetti giuridici, la giornalista ci ha riprovato: «Lo dice chiaramente il quinto emendamento: lei da presidente non dovrebbe rispettare la Costituzione?».
La risposta di Trump è stata, di nuovo, la stessa: «Non lo so».
La seconda cosa detta da Trump nell’intervista di ieri riguarda l’economia, in evidente difficoltà sotto ogni punto di vista da quando Trump ha lanciato la sua crociata a favore dei dazi e di altre amenità.
Trump fin qui ha sempre detto che l’economia va male per colpa di Joe Biden, sorvolando sul fatto che negli anni di Biden l’economia e la borsa volavano come mai nella storia recente americana. La giornalista gli ha chiesto quando, allora, la situazione economica beneficerà delle ricette trumpiane, insomma quando, a suo giudizio, potremo parlare di «economia di Trump». La risposta di Trump è stata rivelatoria: «Penso che le parti buone siano l’economia di Trump e le parti negative siano l’economia di Biden». Semplice, no?
Rileggete le due risposte, troverete tutto Trump in poche righe: un leader autoritario che sta trasformando gli Stati Uniti in un far west senza stato di diritto, e un cialtrone-in-chief che ragiona come un adolescente petulante e presuntuoso che manipola la realtà a seconda della sua convenienza personale, consapevole che più la spara grossa più il resto del mondo si dimentica la fregnaccia del minuto prima, e che così monopolizza quel che resta del dibattito pubblico, lasciando fuori sincrono gli interlocutori e gli oppositori, impegnati sempre a confutare l’enormità precedente, ormai dimenticata di fronte a quella nuova.
È il metodo Trump: autocrazia, far west e balle spaziali volte a trasformarlo nel “meme” del vincitore, numero uno, imperatore, Papa.
Nessuno, tranne i favolosi mercati, finora è riuscito a trovare un antidoto a questa micidiale accelerazione verso il fascismo del XXI secolo. Ma nell’ultima settimana sono successe due cose notevoli e promettenti: la sinistra democratica, moderata e liberale, ha vinto le elezioni in Canada e in Australia, nonostante fino a poche settimane fa i sondaggi segnalassero un’impetuosa avanzata della destra sovranista e trumpiana in entrambi i paesi. Ma c’è stato l’effetto Trump a far mutare il vento, con i dazi, la guerra a tutto e a tutti, l’insensatezza delle scelte annunciate e poi sospese, e l’incertezza sulle sorti dell’occidente globale appese ai capricci di un moccioso-in-chief.
Insomma, visto che cosa è stato capace di fare in pochi giorni l’originale di Washington, i canadesi e gli australiani si sono prudentemente affidati ai partiti costituzionali e a leader come Mark Carney e Anthony Albanese, magari un po’ grigi, ma seri, affidabili e immuni dal narcisismo del nostro tempo, e soprattutto capaci di rispondere con tono fermo alle intimidazioni di Trump.
Una tendenza anticipata dal laburista Keir Starmer nel Regno Unito, e dai popolari Donald Tusk in Polonia e Friedrich Merz in Germania, non a caso tutti quanti volenterosi difensori dell’indipendenza democratica e dell’integrità territoriale dell’Ucraina, giudicate valori non negoziabili della civiltà occidentale.
Sono queste le leadership alternative al modello Trump, concrete e poco piacione, come peraltro aveva intuito l’Italia quando per prima (nonostante l’ostilità di tutti, tranne di Sergio Mattarella, di Matteo Renzi e di questo giornale) si era affidata per disperazione a Mario Draghi per salvare l’economia nazionale e la salute pubblica messe a repentaglio dal Covid e dalla mala gestione populista del governo gialloverde prima e giallorosso dopo.
La ricetta contro il neofascismo trumpiano, dunque, in giro per il mondo riparte dai mercati capitalisti, da leader autorevoli e responsabili, da programmi di governo moderati e ragionevoli, e dall’ammirevole esempio democratico e liberale degli ucraini.
Lasciamo stare per un attimo l’illusione di Giorgia Meloni di poter contenere, e addirittura influenzare, Trump e i suoi oligarchi antieuropei, senza rompersi l’osso del collo, lei e con lei tutti noi.
Concentriamoci invece sull’opposizione di Elly Schlein e di Giuseppe Conte che dovrebbe rappresentare l’alternativa nostrana al modello sovranista che va da Trump a Viktor Orbán, da Receyp Erdogan a Vladimir Putin, fino a Marine Le Pen e, con tutti i distinguo, a Giorgia Meloni. Ecco, scorgete per caso in Schlein e in Conte e nelle cose che dicono e propongono in Parlamento e nelle fogne televisive una remotissima traccia del modello canadese, australiano, britannico, polacco e tedesco che si sta affermando nel resto del mondo occidentale?
Io no. Nell’assemblea studentesca permanente di Elly Schlein e nel populismo osceno di Conte semmai noto una riedizione del movimentismo di Momentum e di Jeremy Corbin, culminato nel trionfo della Brexit, e vedo soprattutto la migliore garanzia di imperituro successo di Meloni, di Orbán, di Putin e di Trump.