La rinascita (contestata) dell’idea di Occidente

È la presenza e la percezione del diverso che ci rendono consapevoli della nostra identità. Ecco perché oggi ritorna prepotentemente sulla scena la categoria di Occidente. Da un lato perché la crisi della globalizzazione ci fa fortemente dubitare che il mondo sia una cosa sola, costringendoci invece a vederne sempre di più le diversità nonché i conflitti tra queste; e dall’altro perché proprio un tale spettacolo ci rende consapevoli della diversità nostra e dei Paesi, delle culture e dei regimi politici che più ci somigliano. Appunto dell’Occidente.

Ma alla parte dura e pura del pensiero progressista e a un certo cattolicesimo l’Occidente non piace, appare un concetto colpevolmente «divisivo», non piace che se ne parli più di tanto, ad esempio a scuola. Entrambi infatti vogliono fermamente credere che all’interno della storia della umanità non vi sia mai stata alcuna differenza decisiva, e quindi temono che parlare troppo di Occidente possa far nascere l’idea che invece una bella differenza vi sia stata. Proprio per evitarlo, per impedire che poi da ciò nascano magari pericolosi sensi di superiorità, nazionalismi aggressivi o più o meno inconsapevoli razzismi, bisogna quindi porre tutto sullo stesso piano, dare eguale spazio a tutti i passati. Parlare troppo di Occidente e della sua storia, insomma, è ideologicamente pericoloso (e naturalmente è «di destra»). Al più, se proprio si deve, lo si faccia illustrandone i limiti, i debiti con le altre culture, soprattutto le malefatte.

Mi chiedo fino a che punto i progressisti si rendano conto che su questo terreno si gioca una partita che ben prima di riguardare il nostro rapporto con gli altri, con le storie e le culture degli altri popoli della terra, riguarda invece direttamente noi stessi. Perché in realtà la questione del passato riguarda il legame sociale che tiene insieme la collettività, il vincolo che unisce il singolo a essa: cioè riguarda la base del consenso delle nostre democrazie.

E invece, dopo aver messo al bando il patriottismo nazionale (il vincolo rappresentato dalla comune identificazione con la vicenda dello Stato nazionale), il progressismo sembra auspicare che d’ora innanzi sia messo al bando anche il patriottismo culturale (il vincolo rappresentato dalla comune identificazione con la vicenda storica di un più ampio ambito di civiltà quale è appunto l’Occidente). Tutto insomma deve essere cancellato perché l’unico patriottismo ammissibile nelle nostre società resti il patriottismo costituzionale , il vincolo della comune obbedienza a una tavola delle leggi: perché l’astrattezza e la formalità prendano il posto della dura concretezza della storia.

Per il progressismo la storia diviene così, di fatto, un terreno minato. La storia, cioè il passato così inquietante e pericoloso per il sangue di cui gronda, per le passioni che può ancora suscitare, deve essere assolutamente immunizzata per fare spazio unicamente alla disincarnata, algida prescrizione delle regole, alla loro rassicurante, presunta universalità. Del resto tutto si tiene. L’orizzonte che il progressismo naturalmente predilige non può che essere il futuro, la dimensione propria dell’utopia, e dunque il solo passato che esso può accettare perché congruo a un tale futuro è un passato all’insegna della «equiparazione democratica». Un passato nel quale per così dire «c’è posto per tutti» e dove non è ammesso alcun accertamento di specificità, alcun giudizio di valore, alcuna valutazione comparativa. Tutti i passati devono essere obbligatoriamente eguali. Le specificità, se ci sono, devono essere tutte poste obbligatoriamente sullo stesso piano, essere tutte parte di una medesima storia e al medesimo titolo.

Un esempio di ciò quanto mai calzante è quanto ha scritto Marco Aime, professore di antropologia culturale a Genova, credendo di rispondere alla mia domanda polemica in quale altra storia e cultura diversa da quella dell’Occidente fosse dato di trovare qualcosa di simile alla celebre Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Cito la sua risposta (da Domani, 15 aprile, con qualche inevitabile taglio):

« Il sovrano indiano Asoka (304-232 a.C.) introdusse leggi che rappresentavano una vera rivoluzione culturale: furono proibiti la caccia e anche il ferimento di animali (…), fece costruire ospedali per uomini e animali, università, ostelli gratuiti per pellegrini (…), le sue leggi proibivano ogni discriminazione per casta, fede o schieramento politico (…). Nel 604 d.C. (seicento anni prima della Magna Charta) il principe del giapponese Shotoku introdusse la Costituzione dei diciassette articoli in cui si legge: “le decisioni importanti non devono essere prese da una sola persona. Devono, invece, esser discusse da più persone (…). Non dobbiamo provare nessun rancore quando qualcuno non è d’accordo con noi (…). L’imperatore moghul Akbar affermava la necessità di un dialogo tra le diverse religioni dell’India (…). In molti regni africani esistevano forme di controllo sul sovrano, che potevano portare anche all’eliminazione del monarca stesso» . E così via credendo di contestare con simili argomenti quella che nel titolo del quotidiano viene additata come «la supremazia (falsa ) dell’Occidente».

Che sarà pure falsa quanto si vuole, ma se ancora oggi dappertutto si legge Rousseau e non la Costituzione di diciassette articoli ci sarà pure qualche ragione, mi dico: e forse diversa dalle famose cannoniere che l’Occidente ha avuto a disposizione.

Nella situazione presente, insomma, la storia, è divenuta il campo di battaglia tra due opposte idee di passato: in funzione, come è sempre accaduto, di due diverse idee del presente e del futuro. E questo è lo scontro vero — lo scontro al quale hanno dato luogo anche i recenti programmi di storia contenuti nelle nuove Indicazioni per la scuola varate dal Ministero — non già lo scontro — come gli avversari della «supremazia (falsa) dell’Occidente» vorrebbero far credere — tra i nostalgici del «fardello dell’uomo bianco» da un lato, e dall’altro gli apostoli dell’«amicizia tra i popoli», ovvero tra qualche tradizionalista poco informato delle novità bibliografiche e loro invece, i solerti cultori dell’«aggiornamento scientifico della disciplina».

Ai quali va ricordata una questione posta venticinque secoli fa da Erodoto, che George Steiner cita in un suo saggio: «Ogni anno mandiamo le nostre navi, rischiando le nostre vite e spendendo molto denaro, fin sulle coste dell’Africa per chiedere: Chi siete? Quali sono le vostre leggi? Qual è la vostra lingua? Loro non hanno mai mandato una nave per chiedercelo». «Nessuna dose di politicamente corretto o di liberalismo alla moda — conclude Steiner — può annullare questa domanda».